Memoria per EF

Catalogo-MAAM-3-174
MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove.
Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa

 

Come si celebra un maestro che ha costruito la sua carriera sulla base di una deliberata sovversione di quella posizione, di uno studiato smontaggio di quella postura? Sì, certo, in primo luogo sciorinando i suoi galloni, a dispetto del suo understatement. Edoardo Ferrario (che era nato a Luino il 31 agosto 1946 e che se ne è andato il 9 di agosto) è stato professore di Estetica alla Sapienza di Roma, e prima all’Orientale di Napoli (la pasta e patate era una delle memorie sue più preziose di una città che forse amava più di Roma).

È stato allievo – libero, diceva lui – di Aurelio Roncaglia e di Emilio Garroni. Ha scritto libri importanti sul canone della fenomenologia: Husserl e Derrida i suoi autori (ma anche Heidegger, Patocka, Levinas, Arendt). E prima ancora sulla teoria della letteratura (dai formalisti russi a Pirandelllo). Ma soprattutto Edoardo Ferrario ha praticato il mestiere di professore con un raro e speciale talento. Un talento doppio: quello suo personalissimo e quello di interprete – per nulla ideologico – dell’epoca (circostanza che ha permesso a lui di incontrare, davvero, una generazione). Si è trovato a fare il professore di filosofia in anni tristissimi per l’università e il paese. Ha fatto fronte all’una e all’altra miseria, all’uno e all’altro deserto con generosità assolutamente singolare. Se è vero che è destino del ricordo cedere all’iperbole, nel caso di Ferrario questo registro si impone quasi naturalmente. Lui – uno di quelli che si inventò i girotondi – si è inventato anche un’altra università. Festosa e partecipata; incondizionata avrebbe detto.

I suoi seminari sulla fenomenologia, affidati in buona parte a giovanissimi apprendisti filosofi (e poi raccolti in volumi ospitati da una ricca collana filosofica che ha diretto presso Lithos) erano una festa dell’intelligenza, che lui orchestrava con discrezione, ironia e rigore. La sua presenza all’università fu insieme graziosa e clandestina, contrappuntata da gentilezze trasgressive e delicate insubordinazioni. Il venerabile, e a lui così caro, concetto di ‘alterità’ l’ha insegnato secondo il più sperimentale dei metodi. Si era inventato una politica per l’epoca e chi aveva orecchie per intendere stette a sentirlo. Lui che arrivava con bauli di libri costellati di segnapagina colorati; apriva il suo quaderno nero e incantava le aule senza incantarle – proprio perché disdiceva l’autorità con l’autorevolezza, la prosopopea con l’ironia, il serio con la passione. In virtù di questa sua eccentricità, e a causa dell’orrore per le gerarchie, le miserie, le farragini e le banalità dell’istituzione è stato considerato – dai forti – un mite. Era di tutt’altra pasta Edoardo Ferrario.

Un uomo di principi e di gusto. Con una precisa idea di civiltà e civismo, di eleganza e di cura, che applicava indiscriminatamente alla politica (cioè alle donne e agli uomini), al design e all’architettura, ai viaggi e alle immagini, alla cucina e al vino e alla amatissima musica e ai libri. Ha amato – corrisposto – più di tutto la poesia. La frequentazione giovanile con Vittorio Sereni e quella seduzione per la linea lombarda (che si legge anche nelle poesie che lui stesso ha scritte) lo hanno educato a una lingua che nomina con precisione, esattezza, nitore. L’autore-stella polare fu Celan, che non ha mai smesso di leggere, di tradurre e studiare e che conosceva a menadito (ma in verità era stupefacente tutta quanta la sua memoria letteraria; certe sere – complici sigarette e fernet, premio usualissimo dopo le più serie bottiglie della cena – poteva cominciare a fabbricare teorie, a scrivere trattati a partire da associazioni sostenute da questo prodigioso, memorioso archivio).

Edoardo Ferrario era un uomo voracemente goloso di parole. Questo amore per la lingua ero lo stesso che ha condiviso con sua moglie, Marina Astrologo. Chi ha assistito alle loro baruffe a base di calembour destinati a diventare immediatamente proverbiali, lessico familiare di una famiglia apertissima, ha anche – oltre a uno struggimento immedicabile – il privilegio di serbare di lui il più vitale dei ricordi.

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