Metabolismo delle passioni
L’arte filosofica della cucina
Sono numerosi i filosofi che hanno sottolineato il ruolo fondamentale che il cibo riveste per la vita umana. Non mi sembra casuale, ad esempio, la scelta compiuta da Platone di ambientare uno dei suoi dialoghi più celebri, il Simposio, durante lo svolgimento di un banchetto. Si consideri a tale proposito che, come in più occasioni ha ricordato Eva Cantarella, il convivio nella società ateniese, diversamente dalla romana, era una vera e propria istituzione a vocazione pedagogica. La narrazione platonica lascia immaginare che siano stati gli odori, le consistenze e i sapori inebrianti delle pietanze a predisporre lo spirito dei commensali a interrogarsi sull’amore, dalla bellezza sensuale dei corpi all’erotismo delle anime e del sapere filosofico.
Si pensi poi ad un altro autore dell’antichità, Lucrezio. Alla fine del De rerum natura ci consegna delle pagine di grandissima densità espressiva su un’epidemia: la peste che colpì Atene nel 430 a.C. Sono pagine tragiche, da leggere, o rileggere, in un momento, come l’attuale, in cui la pandemia causata dal covid-19 ha stravolto le abitudini e le certezze di tutti noi. Nei versi lucreziani l’irruzione della malattia contagiosa sembra davvero spezzare il corso della storia e della civiltà. Secondo il poeta e filosofo latino, in un’umanità ridotta a carne in putrescenza il duro confronto con il dato biologico accomuna e livella età e generi, condizioni sociali e provenienze territoriali (ma quanto l’emergenza pandemica in atto sta azzerando le diseguaglianze presenti nella nostra società? e quanto, al contrario, le sta esponendo in tutta la loro portata drammatica e crudele?) per infine suscitare un grido di dolore corale e straziante. È interessante osservare che, nel paesaggio di desolazione così descritto, forse solo il sentimento umano della pietas riesce a lasciare ancora aperto lo spiraglio per un futuro possibile.
Ma se sto chiamando in causa Lucrezio è anche per un altro motivo. Egli sostiene che «ciò che per uno è alimento, per un altro si fa acre veleno», anticipando, in pratica, di circa duemila anni alcune scoperte che sono alla base di diversi studi recenti sulla nutrizione, tra cui quelli sulle intolleranze alimentari. Coerentemente con la sua concezione atomistica di matrice epicurea, gli esseri viventi, così come sono dotati di caratteri somatici distinti l’uno dall’altro, alla luce di costituzioni corporee differenti, provano anche sensazioni, subiscono effetti e producono sintomi totalmente diversi nell’assumere i medesimi alimenti. Da qui l’esigenza di calibrare l’alimentazione sulla base dei bisogni specifici di ciascuno.
Trovo particolarmente degna di interesse anche la centralità assegnata all’alimentazione da Friedrich Nietzsche. Diversamente dagli antichi Pitagorici, per cui il vegetarismo era una pratica di purificazione del corpo, il filosofo tedesco ha, invece, considerato salubri cucine ricche di grassi e carni, come la piemontese. Recentissime ipotesi sul microbioma intestinale sembrerebbero dare ragione a questa sua preferenza tenacemente «inattuale». Ma, oltre alla suggestione specifica, ciò che mi affascina della prospettiva nitzscheana è soprattutto il valore assegnato al corpo e alla sapienza che ne regola le dinamiche funzionali. Se il metabolismo corporeo partecipa attivamente alla qualità dei pensieri e dello stato d’animo, come Nietzsche ritiene, la dieta diviene allora un fattore fondamentale, un’alleata imprescindibile del processo di affermazione del proprio essere. Detto diversamente, se la meta è il divenire ciò che si è, un buon aiuto può esserci offerto anche da ciò che si mette in tavola.
In tempi più recenti è stato un altro estimatore di una cucina ad alta percentuale di lipidi, Piero Camporesi, a dedicare alcuni saggi di notevole spessore al cibo e al legame che esso intreccia con l’economia, i costumi e la cultura nelle differenti fasi storiche. Ne Il brodo indiano, ripubblicato da Il Saggiatore nel 2018, dopo una ventina di anni dalla sua prima uscita, egli ha mostrato come la diffusione settecentesca del cioccolato, definito «brodo indiano» perché proveniente dalle Indie di Colombo, non soltanto sia collegata, soprattutto in Francia, alla nascita della pasticceria in quanto arte del tutto autonoma dalla cucina, ma si riveli anche emblematica di un’intera epoca, cosmopolita, raffinata, incline ai piaceri dei sensi. La tesi di Camporesi è che questa idea di un cibo libertino e sontuoso sia poi stata definitivamente spazzata via dalla Rivoluzione francese e da quella che egli ha definito «la grigia cucina dell’età romantica». D’altronde, l’ultimo drogato illustre del cioccolato, o quanto meno del cioccolato preparato secondo i dettami gastronomici dell’Ancien Régime, sembra che sia stato proprio il maître di tutti i libertini, il divino Marchese de Sade.
Ma, se è vero che l’epoca in cui si vive trova un riscontro puntuale in ciò che si mangia, mi viene da supporre che non sia un caso che la mia passione per l’arte bianca si stia manifestando soprattutto ora. Infatti, come credo stia capitando anche a tanti altri, più o meno consapevolmente, nella produzione pasticciera trovo un dolce antidoto alla cupezza e alle restrizioni imposte dalla crisi pandemica. Impastare, affinare i sensi, sperimentare abbinamenti, mescolare, assaggiare ed assaporare, si stanno rivelando pratiche di una resistenza fisiologica a quelle che Spinoza definirebbe le «passioni tristi». Insomma, sono diventati gesti e rituali di un’esperienza soggettiva della cura in un tempo in cui l’idea di cura sembra spesso interamente assimilata al dispositivo medico della terapia e della guarigione, articolato sulla base di criteri di normalità, prestazione efficace e idoneità all’attività produttiva. La sfida, tuttavia, è riuscire ad abbinare gioie del palato e salubrità.
Di conseguenza, sto preparando soprattutto dolci che soddisfino l’esigenza di un basso apporto calorico, imposta dal periodo di stasi obbligata del confinamento. Inoltre, in continuità con quanto detto in riferimento a Lucrezio e a Nietzsche, provo a mettermi anche in ascolto delle vulnerabilità e delle richieste specifiche del mio corpo individuando gli ingredienti che siano in grado di potenziare il mio benessere… e il mio essere!
Il tentativo costante è di trovare il giusto equilibrio tra gli zuccheri e i grassi, senza abusi ma senza neanche demonizzazioni. Da qui la ricerca di farine alternative a quella classica di frumento, che, essendo povere in carboidrati, nello stesso tempo apportano un basso indice glicemico e molti nutrienti essenziali. È il caso, per esempio, della farina di mandorle, di quella di cocco o della meno conosciuta farina di cipero dolce. Allo stesso modo, tendo anche a preferire il miele grezzo biologico o l’uva passa in sostituzione dello zucchero. Sostituisco, inoltre, il latte di mucca, che purtroppo non sempre assimilo bene, col latte di cocco o con altri tipi di latte vegetale. Le spezie, coi loro profumi e sapori evocativi di terre lontane, mi aiutano molto, purché siano di buona qualità. Alla vanillina sintetica preferisco la vaniglia naturale, preferibilmente in stecche. Il cremor tartaro o, addirittura, quando possibile, un semplice pizzico di bicarbonato rimpiazzano egregiamente altri lieviti per me di più difficile digeribilità. Cerco sempre di prediligere prodotti naturali che siano di stagione e possibilmente locali. In questo periodo, ad esempio, a farla da padrona nelle mie ricette sono gli agrumi, la mela annurca e le tante qualità di zucca che ultimamente ho scoperto. Le uova e il burro (di solito opto per il burro ghee che, pur essendo molto prezioso da un punto di vista nutrizionale, è privo di lattosio e, dunque, più facilmente assorbibile) devono essere rigorosamente provenienti da animali allevati allo stato brado. Nella prospettiva secondo cui il benessere individuale non è separabile da quello degli altri esseri, l’attenzione all’ambiente e la valorizzazione delle biodiversità diventano fattori assolutamente imprescindibili.
Se è vero che con questo tipo di ingredienti il costo dei dolci lievita (bisogna prendere atto che non è alla portata di tutte le tasche), è altrettanto vero che a lievitare è soprattutto la qualità. Se ne mangia una quantità minore ma si ha la possibilità di assaporare l’intensità del loro sapore semplice e genuino. A enfatizzare l’esperienza gustativa può inoltre concorrere un buon vino da meditazione (consiglio quello fermentato con lieviti indigeni e senza l’aggiunta di solfiti), oppure una confortante bevanda calda. A questo proposito spezzo una lancia a favore del caffè della vecchia cuccuma napoletana: la lentezza del suo procedimento contribuisce all’atmosfera «contemplativa» della dolce pausa. D’altronde, i ritmi rallentati dal lockdown favoriscono questa dimensione raccolta, ottima per (tenersi un gatto acciambellato sulle gambe) ritemprare le forze e propiziare la vita ancora da venire. In un «dentro» che la pandemia ha espanso fino a inglobare la quasi totalità delle nostre vite, forse anche l’uso del gusto e le sue piccole pratiche quotidiane, grazie al coinvolgimento della sfera del sensibile e all’ «estasi» dei sensi, possono dilatare i pori dell’essere, aprire varchi di contatto, evocare atmosfere e traiettorie di uno spazio comune del «fuori» che dovremo pensare e creare nuovamente insieme.
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A mo’ di assaggio, riporto qui di seguito gli ingredienti principali e i nomi «filosofici» che, per divertissement, ho attribuito ad alcuni miei dolci.
In onore di un pensatore che mi è particolarmente caro, Georges Bataille, le creme si chiamano Esperienze interiori. Sono tre le varianti che ho sperimentato: classica con vaniglia e scorzette di limone; nera al cioccolato e cardamomo; energizzante a caffè e cannella. Tutte e tre senza glutine, zucchero e latte.
Strizzando l’occhio a Jacques Lacan, i pasticcini di limone e cocco diventano Jouissances. Tra gli ingredienti si annoverano il succo e le scorze di limone. Di cocco sono le scaglie, il latte, il burro e l’olio.
Il limone è alla base anche degli Immanenti. In questo caso, però, l’abbinamento scelto è col rosmarino coltivato sul terrazzino di casa e con la farina di riso thai, dotata di consistenza e fragranza assolutamente inconfondibili.
Gli Eroici furori di Giordano Bruno ispirano il nome dei biscotti di farina di mandorle, scorzette di arancia e zenzero grattugiato. Capaci di riscaldare con la loro furia di aromi anche i pomeriggi invernali più rigidi.
Sono fatte con un misto di farina di riso integrale, farina di cipero e, in misura molto minore, farina di cardo mariano, le cartesiane Passioni dell’anima. Fondamentale è il ruolo giocato in esse dalla purea di zucca delica, a esaltarlo un pizzico di cannella.
Per ottenere delle Lotte di classe davvero appetitose ci vogliono la mela annurca, la farina di cipero, il burro ghee, un po’ di limone e della profumatissima vaniglia. Chissà se piacerebbero a Marx…
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