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Installance
Ai margini del concettuale
Sembra a me ancora sensato, da qui, da questa porzione di occidente, lavorare ai margini del concettuale, in quella zona in verità imprecisa(ta) dove l’opera è in buona sostanza ancora passibile di visibilità, ma nello stesso tempo non necessariamente vista, registrabile in tutto; e anzi, in quanto eventualmente vista, oppone resistenze o imprime torsioni al passaggio e linguaggio (e lignaggio) del senso, e sicuramente a quello del significato.
In questo ambito si collocano sia il disturbo semantico dell’asemic writing, sia il disturbo del segnale visivo specifico della glitch art.
Perché parlo dei (e dai) margini del concettuale? Alcune ovvietà: se guardiamo attraverso una qualche lente magari banalizzante e però pragmatica l’arte concettuale, riverifichiamo senza difficoltà che il suo lavoro e habitus è giocoforza caratterizzato dalla tentata evaporazione dell’oggetto, e logica assenza di valore certificabile. L’opera è vincolata da (e dissipata in virtù di) elementi sfuggenti che in tanto la connotano in quanto la rendono difficile da osservare, possedere, classificare, collezionare, trasmettere, acquistare, vendere, spostare nello spazio.
Alcuni happening oppure operazioni particolari o idee semplicemente esposte in brevi testi rientrano alla perfezione nelle mura di cinta dell’arte, e sfuggono alla presenza oggettiva, al peso specifico (proprio gravitazionale: l’elio di Robert Barry) dell’opera materiale.
Detto questo, il discorso può scoprirsi fragile, essere rovesciato (essere che si rovescia, proprio): è inevitabile che divengano poi oggetto di feticismo, collezionismo, acquisto, vendita e spostamento tutti quegli ephemera che si muovono intorno all’arte concettuale: dépliant, elenchi dattiloscritti di azioni, appunti manoscritti degli artisti, nastri, file audio, registrazioni fotografiche, la stessa grezza notizia di un evento, in qualche modo – in qualunque modo – emessa e filtrata da una traccia, depositata in calco tipografico, o digitale. Questo materiale diventa a sua volta, nel momento in cui affiora in forma di segno articolato tangibile, una sorta di item da bloccare nella camera delle meraviglie.
Dico l’ovvio, appunto. Credo non ci sia alcun modo di traslare alcuna operazione interamente nell’immateriale, nel non appropriabile. Nemmeno attraverso la sua negazione. (L’opera che l’artista è disposto a riconoscere come tale solo nel momento della sua distruzione, come per alcuni multipli di Pietroiusti. Vengono collezionati prima della distruzione, però poi non distrutti. E, se distrutti, conservati in cenere. Se ne gettano al vento le ceneri? Se se ne registra le dispersione, ogni registrazione del fatto acquisisce di suo l’aura dell’opera, valore di documento, tanto più brillante quanto più energicamente spinto nell’assenza è l’oggetto).
Tuttavia, all’interno della effettiva materialità del passaggio pesante/pensante del senso-non-senso (cito Emilio Garroni) sullo schermo retinico o comunque percettivo/cognitivo che ci disorienta e orienta, credo sia possibile interrompere se non altro i flussi inevitabilmente decodificabili di quel passaggio. Non la traccia del passaggio, ma la natura dei suoi contenuti. Almeno questo. L’ostacolarsi di Bene. Nel merito. Creare delle difficoltà, seghettare l’interno del percorso, mettere un mezzo muro, un muro intero. Cacciare così in una qualche crisi tanto chi cerca l’oggetto quanto chi – trovatolo – ne inizierebbe volentieri una decodifica prima, una notomia poi, una storicizzazione in fine. Tenere in qualche parziale momentaneo scacco l’artista (operatore) stesso. Momentaneo: è da sottolineare. (Critica e storiografia, come facebook ai tempi del colera, arrivano dappertutto).
È in questo (povero) senso che mi rivolgo al lavoro della scrittura asemantica e ai vari disturbi che si possono sovrapporre ai segnali significanti (o già poco o nulla significanti): con l’intenzione di trovare e mettere uno scalino di difficoltà nuovo, diverso, che dia modo di (o che forzi a) spostare lo sguardo dalla casella dell’opera inaggirabile a una casella ancora non conosciuta e probabilmente non plausibile, che l’opera potrebbe occupare e che forse – nella mancanza di uno sguardo autoriale o di chiunque altro – non occuperà mai. Questa non occupazione dello spazio, questa mancanza di notizie, questo sviamento e falsificazione delle stesse, a perdere l’opera – in sé già disturbata, anemica, asemica – come nucleo e noce del suo (dis)attivarsi, questo spostamento ai margini della possibilità stessa del concettuale – senza entrare all’interno del suo territorio – è quanto mi interessa sondare, o meglio ancora fare.
Cosa sono le installance? Disegnano il tentativo di operare in questa direzione. Depositare senza clamore in luoghi improbabili dei microtesti totalmente asemantici, dandone – oppure no – anche notizia, magari beffarda.
Come quando un paio di anni fa ho scritto in rete di aver abbandonato a Bologna, in via Indipendenza, un frammento di carta di 1 x 4 cm. (Via Indipendenza è lunga circa un chilometro).
L’immagine triviale dell’ago nel pagliaio fa il suo dovere in questo caso: spiega il senso dell’operazione. (Inoperosa, faccenda sfaccendata, sbrigata in pochi secondi, il tempo di una fotografia senza contesto). Ego nel pagliaio.
La foto c’è, sì: è collezionabile? (No, è in rete). L’oggetto, irrintracciabile, è esistito. Gli ephemera del passaggio di senso-non-senso restano difficilmente – ma magari come tracce – collezionabili, collazionabili, per registri e archivi. Il pensiero lavorava però su una serie di ostacoli affatto diversi (a partire da quello alfabetico), oltre che sull’irreperibilità della materia materiata.
Certo, è in agguato il rischio dell’ontologia (se l’antologia sfuma per mancanza di item, non si può negare a qualcosa di essere esistita). Sempre meglio una imperfetta dilettantesca ontologia, forse, a petto di qualunque metafisica.
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