The Platform Factor

Il podio della singolarità qualunque

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Isola Art Center, Progetto collettivo a lungo termine, Milano 2001.

Il palcoscenico è ancora rialzato.
Ma non è più sospeso sopra un’insondabile profondità:
è diventato un podio.
Walter Benjamin su Bert Brecht 

Piattaforma filosofica

La città è il campo privilegiato dell’esercizio del potere. Ovunque procedure di assoggettamento sono al lavoro (sui corpi, sul linguaggio e sui luoghi). Si distribuiscono spazi e funzioni, sono assegnati corpi a luoghi precisi, sono dettati stili di vita. Vengono regolate inclusioni ed esclusioni, vengono definite le condizioni di visibilità e invisibilità delle storie individuali e comuni. Tuttavia, come afferma Rancière, nulla di per sé è politico per il solo fatto che vi si esercitano rapporti di dominio. Nulla di per sé è politico finché questa distribuzione rimane tale. Ma ogni cosa, nel momento in cui manifesta il proprio scarto da tale ordine, può trasformarsi in un atto politico.

Il rapporto dialettico tra la produzione dello spazio e lo spazio dominato della città globale contemporanea struttura l’intera ricerca artistica di Bert Theis. E fa ciò attraverso un segno urbano ricorrente: minimale, basilare, primario. Anzi neppure tanto un segno. Piuttosto il grado zero di un congegno, di un meccanismo elementare che permette il funzionamento di azioni, di scambi e connessioni. Un dispositivo, in sostanza. E questo dispositivo – pubblico e temporaneo – è quello della piattaforma. Ma che cosa è una piattaforma?

La piattaforma è un soggetto anfibio. Non è solo una tipologia architettonica o formale ma anche un termine tecnico decisivo nella strategia teorica e operativa di Bert Theis. La piattaforma ha soprattutto un carattere paradigmatico. Declinata in forma di pedana, di panchina, di terrazzo, di rampa, di plateau, di gradonata, di letto triclinare oppure protetta da una tettoia o da un padiglione, la piattaforma di Bert Theis si ripresenta ogni volta nella sua accezione letterale: quella di superficie piana sopraelevata da terra.Costituita da un piano individuato da un certo spessore, la piattaforma è – invariabilmente e nel suo significato originario – una struttura destinata a supportare qualcosa. Non è soltanto una superficie che circoscrive un luogo ma anche la base su cui poggia qualcosa, indipendentemente dal tipo di cosa, purché quest’ultima – in funzione di tale base – sia posta in alto. Raggiunga cioè una posizione privilegiata, acquisti la distanza necessaria dal contesto.

Proprio a partire da questa sua qualificazione semantica la piattaforma ha raccolto nel corso della storia un alto valore simbolico rispetto alle forme del potere: come base dell’esercizio della sovranità, del vicariato della divinità, come spazio della rappresentazione, come piedistallo monumentale. C’è tutta una morfologia della piattaforma che va dalla tribuna per oratori al pulpito per predicazioni religiose, dal podio per assemblee politiche e per vittorie sportive al palco per rappresentazioni di azioni teatrali, dal piedistallo delle statue allo stilobate come base dei templi. Dietro ognuna di queste configurazioni c’è sempre al lavoro una diversa circoscrizione e qualificazione dello spazio, una precisa gerarchizzazione del sapere e del potere che ogni volta è simbolizzata, è resa evidente.

Si tratta dell’instaurazione di un regime di visibilità che mette in scena schemi di sottomissione, relazioni tra poteri legislatori da un lato e soggetti obbedienti dall’altro, differenze tra superiori e inferiori. Proprio all’interno di questo scarto interviene Bert Theis, nel condurre la piattaforma da un modo trascendente di concepire il potere ad una concezione immanente di esso, capovolgendo in maniera radicale ruolo e funzione del dispositivo stesso. Ciò che caratterizza le piattaforme di Bert Theis è il fatto stesso che esse delimitano un campo che è lasciato vuoto: sopra di esse – per statuto – non poggia niente ma ogni cosa può, nel caso, reggersi su di loro. Perfettamente bianche, sono sempre realizzate da tavolati che presentano la totale assenza di segni e di immagini, di testi e di azioni. Queste strutture di per sé non rappresentano nulla e ogni cosa, allo stesso tempo. Ma possono diventare la pedana di un potenziale teatro di eventi così come delle operazioni più eterogenee.

Esse introducono l’indefinito, l’incerto e il provvisorio nel cuore della distribuzione, del tutto disciplinato e determinato della città contemporanea. Aprono uno spazio che si sottrae al controllo, un’area non qualificata in anticipo ma ogni volta da definire con le iniziative di ciascuno. Rappresentano un luogo accessibile collettivamente e disponibile alle pratiche ordinarie e alle dinamiche spontanee, collocato temporaneamente nello spazio pubblico urbano.Queste piattaforme hanno lo stesso carattere interstiziale dei vuoti urbani, degli spazi di risulta e abbandonati, dei terrain vagues che fanno resistenza ai processi di normatività, di regolamentazione, di integrazione e di omogeneizzazione della città. Naturalmente la scala è diversa: è quella ridotta e simbolica delle sculture pubbliche, delle modellizzazioni.

Eredi dirette della critica dell’urbanistica di matrice situazionista, le piattaforme di Theis sono il possibile spazio di un «teatro di operazioni» all’interno della vita quotidiana in cui non si intende «mostrare la vita alla gente» quanto piuttosto «farla vivere». È nota la frase di Debord del ’62: «Un’organizzazione rivoluzionaria è tenuta ad aver sempre presente che il suo scopo non è quello di far ascoltare ai suoi aderenti i discorsi convincenti di leader esperti, ma di far parlare loro stessi».

Quando nel 1997 per Skulptur. Projekte in Münster, Bert Theis realizza la grande struttura bianca Philosophische Plattform sopra il prato del parco dietro il castello tardo barocco della città, gli abitanti la usano per gli eventi più diversi e imprevisti: concerti jazz, foto di gruppo matrimoniali, feste di compleanno, gare di skateboard, serate da ballo, transito di biciclette, soste estatiche di fronte al tramonto. Lo schema grafico della piattaforma è una citazione tridimensionale dell’affresco La Scuola di Atene di Raffaello dove al centro compaiono Platone e Aristotele circondati, tra gli altri, da Eraclito, Euclide, Epicuro. Ma la piattaforma di Münster non è un piedistallo di filosofi, non è la rappresentazione del sapere: è piuttosto il podio della «singolarità qualunque» contemporanea, della auto-esposisizione di produttori misconosciuti di ritualità quotidiane, di una maggioranza anonima e silenziosa che si segnala attraverso i modi d’uso singolari e plurali di quello spazio, per le forme della sua appropriazione, per le pratiche d’adattamento ad esso.

Ma se con Bert Theis le piattaforme hanno perso la loro funzione originaria, conservano però il loro potenziale trasformativo, per la capacità di elevare lo status del soggetto da passante ignaro e passivo in autore di una creatività quotidiana e imprevista. In questo senso la piattaforma non va considerata un dispositivo relazionale ma una macchina a valenza teorica, filosofica. Anzi, come dice Theis, essa ha una «funzione epistemologica» oltre che un concreto valore pratico. O, meglio, ha tale funzione proprio in rapporto a tale carattere pratico.

È una sorta di enigma che cattura lo spettatore nel circolo ermeneutico della libera interpretazione sull’uso che vorrà fare di quello spazio, sugli interessi che vi vorrà esercitare, sul senso che gli vorrà attribuire. La pedana diventa un attivatore teorico in grado di ricondurre le sfere di valori a tipi di interesse, l’obiettività ad autoaffermazione, la verità a giustificazione, la conoscenza ad opinione. Il senso non è il risultato ultimo di una epistemologia naturale, ma il prodotto del consenso sociale. In questo senso la piattaforma trasforma, ogni volta, gli utenti ordinari in pragmatici filosofi. La scritta a muro Building Philosophy, non a caso, è un lavoro di Bert Theis degli ultimi anni, più volte riproposto, che cita la nota frase di Debord Réalisation de la philosophie, ma che ne è anche un suo détournement, come diretta allusione allo slogan neoliberista della Filosofia del costruire.

Piattaforma dell’inattività

«Non c’è più ombra di dubbio: nel paradiso l’uomo nasce sdraiato, nudo sotto una palma». Questa rivendicazione ironica del tempo originario (non tanto del tempo primitivo quanto di quello primo e principale) serve a Bert Theis per introdurre il suo lavoro Le dita della mano, realizzato a Volterra nel 1998. Dieci isolette verniciate di bianco e nel formato di letto a due piazze ciascuna, sono accompagnate da una palma mediterranea che getta l’ombra su di loro e sono disposte a raggiera nel parco Fiumi di Volterra, a fianco di un istituto carcerario. Utopia settecentesca per eccellenza, l’isola deserta è la meta del viaggio, la promessa della fuga verso nuove terre, nuovi cieli, nuove avventure; è lo spazio dell’altrove, del fuori. È il risveglio dopo il naufragio e il ritorno del nostos allo stato di natura, al paradiso originario.

Bert Theis mette in scena continuamente una parodia della figura insulare. A Volterra la piattaforma è qualcosa che pare destinata al riposo e al sonno. A Milano è una pedana per il rilassamento e l’isolamento con sedie a sdraio bianche, piante e pesci tropicali posta nel tunnel sotterraneo di una stazione della metropolitana (Enclave 1879, 1998). A Gwangju è un terrazzo pensile per la sosta temporanea, una protesi architettonica con sabbia pavimentale, palme, banani e ampie panche bianche (Russell Prosthesis o1, 2002). La piattaforma in Theis non è soltanto un interstizio spaziale ma anche temporale.

Come essa interrompe la continuità dello spazio urbano, così intende sospendere il flusso del tempo programmato, del tempo dominato. Come dice Theis: «In the neo-liberal stress-society, laziness for the time being, is not a simple matter. It is, rather, a task that can only be fulfilled with very great effort». Naturalmente la figura dell’ozio non fa riferimento semplicemente ad una sottrazione dal mondo del lavoro. Bert Theis sa che la nuova colonizzazione del biocapitalismo sposta l’esercizio del potere dal tempo del lavoro al tempo della vita come tale. Secondo Maurizio Lazzarato: «Come il lavoro è stato la forma di sfruttamento e di sorveglianza della soggettività generale nel capitalismo prima del Sessantotto, così la comunicazione, il linguaggio, l’informazione, sono le forme di sfruttamento e di controllo della soggettività del capitalismo post-Sessantotto». In questo senso non è più possibile congetturare una esteriorità sociologica ai rapporti capitalistici come tali.

Non è neppure un caso che la stessa figura dell’artista venga posta sotto giudizio da parte di Theis e in questo, la sua posizione ricorda molto quella di un artista radicale come Mladen Stilinovic quando ne In Praise of Laziness, una sorta di anti-manifesto del 1993, scrive: «Laziness is the absence of movement and thought, dumb time – total amnesia. It is also indifference, staring at nothing, nonactivity, impotence. It is sheer stupidity, a time of pain, futile concentration. Those virtues of laziness are important factors in art. Knowing about laziness is not enough, it must be practiced and perfected. Artists in the West are not lazy and therefore not artists but rather producers of something… Their involvement with matters of no importance, such as production, promotion, gallery system, competition system (who is first), their preoccupation with objects, all that drives them away from laziness, from art. Just as money is paper, so a gallery is a room. Artists from the East were lazy and poor because the entire system of insignificant factors did not exist. Therefore they had time enough to concentrate on art and laziness. Even when they did produce art, they knew it was in vain, it was nothing… Finally, to be lazy». E conclude: «There is no art without laziness».

Esponente di un pensiero isolano, Bert Theis allude a una forma di inattività generale come riserva di possibilità, come potenziale non sfruttato, come modo antagonista alla produttività. Ancora una volta ritorna l’attenzione sul «comportamento» come spazio di intervento secondo il concetto di matrice situazionista per cui si può essere artisti senza «creare» sancito dal motto di Debord Ne Travaillez Jamais. Non si tratta dunque di produrre rivolte o mondi alternativi ma di perseguire una strategia che non si segnala con prodotti propri ma attraverso i modi di usare quelli imposti dagli altri. Se non ci può essere più un fuori separato e incontaminato, l’isola può darsi solo all’interno del processo produttivo, qui e ora.

Piattaforma come esodo

Se la parola esodo fa riferimento ad un movimento (di partenza, di fuga, di spostamento), piattaforma ha invece carattere stanziale. Ma «esodo» è qui assunto come parola chiave del lessico postfordista. Da categoria classica del pensiero operaista italiano anni Settanta è diventata ora un tool decisivo per interpretare qualsiasi pratica del nuovo ordine globale: modi di produzione, tecniche di comunicazione e stili di vita. Non più e non solo legato all’immagine dell’emigrazione, l’esodo è ridotto ormai a condizione ordinaria e, proprio perché tale, in grado di divenire un nuovo spazio di politicizzazione. Per Paolo Virno l’esodo, tutt’altro che esonerare da obblighi e responsabilità, è tra le figure più affermative e produttive della contemporaneità. Solo l’abbandono (e quindi un’azione negativa) sarebbe in grado di definire la «pura appartenenza», l’appartenenza in quanto tale, una volta che essa si sia emancipata da tutte le identità collettive classiche, da tutti gli specifici «a che cosa»: ruoli, tradizioni, popoli, classi sociali, ecc. Dunque l’esodo non come spazio di semplice sottrazione ma come luogo da costruire di volta in volta, come esito empirico e contingente. Non uno spazio conflittuale (voice avrebbe detto Hirschman) ma il luogo di un’attiva defezione.

Parlare di Out, lo studio che l’artista Bert Theis fonda a Milano nel 2002 come «servizio» collettivo a scala urbana, significa confrontarsi con questo ordine di considerazioni. E forse a partire proprio dal nome stesso del progetto. Tre caratteri neri in font aria’ su fondo bianco costituiscono il logo dello studio e sono l’acronimo di Office for Urban Transformation. Ma Out significa anche Exit, uscita appunto: se non un obiettivo, almeno un programma. Ma quale è la reale portata della proposta messa in atto? Con sede prima a Milano, poi dal 2004 anche a Mexico City, Out è un’esperienza di lavoro collettiva e flessibile che unisce al suo interno artisti, architetti, associazioni culturali e di quartiere, volontari, figure dell’attivismo sociale. Data e luogo di nascita sono sintomatici del carattere emergenziale e situazionale del progetto, tali da porlo fuori dalla necessità di una visione generalizzante e all’interno di una esperienza concreta, diretta, sul campo. Lo stesso ufficio di Out è uno spazio occupato dentro una fabbrica dismessa di proprietà comunale e in attesa di demolizione situata nel quartiere Isola di Milano.

Un quartiere storico e centrale posto a fianco di uno dei vuoti urbani milanesi tradizionalmente irrisolti e su cui, dalla fine degli anni Novanta, pende la minaccia di un piano di radicale trasformazione urbana che prevede il sostegno allo sviluppo di settori di punta dell’economia milanese come la moda (il progetto Città della moda risale al 2001) e l’insediamento di nuove sedi della pubblica amministrazione. Out nasce dunque in risposta alla decisione dell’amministrazione di realizzare il progetto Garibaldi-Repubblica. Di fronte alla tipica espressione urbanistica del Big Government e ad una pianificazione di tipo top-down, Out cerca di istituirsi come una piattaforma aperta e d’intervento in grado di catalizzare le mobilitazioni sociali, le istanze del quartiere, le forze immaginative dal basso, le tracce del passato industriale, i nuovi outsider. In sostanza: la città reale.

Inserendosi in un contesto già fortemente compromesso, in uno di quegli spazi che Holston avrebbe definito di «cittadinanza insorgente», Bert Theis pensa ad un progetto in cui il ruolo dell’artista è soprattutto quello dell’attivatore, del coordinatore, di chi riesce a moderare vari gruppi di interessi che altrimenti colliderebbero tra loro. Tuttavia non quello di chi media con i poteri istituzionali perché le attuali forme di mobilitazione non chiedono ad altri di fornire risposte, ma fanno da sole. Si tratta dunque di un esodo dall’istituzione, della riappropriazione immediata delle forme produttive e dell’attivazione di pratiche costituenti. In questo senso le strategie messe in campo da Bert Theis condividono lo stesso orizzonte operativo della parte più radicale della scena artistica contemporanea con figure come Maria Eichhorn, Superflex, Christoph Schäfer, atelier d’architecture autogérée, Marjetica Potrc ed altri. Ma nel caso di Out, come in molte delle esperienze precedenti che abbiamo analizzate, Bert Theis realizza uno spazio indeterminato, non-finito, che sta soprattutto ai differenti processi di coinvolgimento della gente cercare di gestire, organizzare, costruire. L’artista fornisce in sostanza una cornice di riferimento.

Un esempio può essere rappresentato dalla produzione di immagini elaborate da Out ai fini della lotta delle associazioni del quartiere. Oppure il progetto collettivo sull’edificio dell’ex-fabbrica che si intende salvare e nato come risultato di un’inchiesta tra gli abitanti e dell’intervento di una pluralità di artisti noti invitati a realizzare differenti opere nello spazio interno e nei giardini di Via Confalonieri. Nella necessità di raccogliere questi interventi artistici cumulati nel corso del tempo ma anche con l’esigenza di sopperire ad una mancanza istituzionale cronica di spazi per l’arte contemporanea nell’area milanese, i tre anni di esercizio di Out sfociano nella realizzazione, nel 2005, di Isola Art Center, sorta di centro d’arte e comunitario costituente. La partecipazione degli abitanti e la frequentazione di artisti, intellettuali, tecnici e del pubblico generico dell’arte permette di concentrare l’attività del centro su una riflessione, sempre più approfondita, su sfera pubblica contemporanea, spazio pubblico, nuovi modi dell’urbano, città e potere. Mentre produce lo spazio della città, Isola Art Center ne teorizza, in diretta, le condizioni di possibilità: di esistenza, d’intervento, di trasformazione. Mostre sull’architettura del cambiamento, sulla scena artistica di Canton, seminari di filosofia e urbanistica, workshop con Carlos Garaicoa, Tomas Saraceno, atelier d’architecture autogérée, Nomeda e Gediminas Urbonas, Park Fiction, si alternano a riunioni politiche, assemblee di quartiere, incontri pubblici, forum di comitati degli abitanti. Isola Art Center dà voce e visibilità a qualcosa che prima non c’era, giorno per giorno cerca di auto-immaginarsi come nuovo dispositivo urbano fino a quando, nel 2007, il centro viene sgomberato, assieme a tutte le associazioni presenti, e si dà inizio alla demolizione dell’edificio.

Il quartiere Isola per nove anni è stato ed è ancora – di fatto e dentro la città di Milano – uno spazio «politico». E grazie anche all’azione e al ruolo di Isola Art Center. Questo quartiere in breve tempo è diventato un campo di forze, di tensioni, di resistenza, di desideri e aspirazioni. Forse ereditando modelli dal proprio passato locale, l’Isola ha finito per rappresentare uno spazio che disturba le storie consolidate della città moderna: progetti speculativi, progetti di polizia spaziale, gentrificazione.

Alla cattiva coscienza dei pianificatori che hanno rimproverato di immobilismo l’azione antagonista promossa nel quartiere, Isola Art Center non ha avuto altro da mostrare se non una realtà in trasformazione, una nuova morfologia sociale multiculturale, storie di progressivo adattamento contestuale, una intenzionalità collettiva e progettuale fondata sull’auto-organizzazione. All’accusa di rivendicare una purezza ideologica originaria della propria comunità, Isola Art Center, all’opposto, ha potuto e può solo controbattere di reclamare il diritto alla città come esigenza democratica radicale e di riaffermare l’esigenza dei gruppi e dei singoli di controllare e progettare attivamente la propria vita. Isola Art Center nasce e si muove in questi anni con la volontà di catalizzare la mobilitazione del quartiere e le forze in campo. Isola Art Center, nonostante tutto, continua a pensare ad un possibile modello di centro d’arte e comunitario come produttore di urbanità, ormai non più concentrato in un singolo edificio, ma disseminato, mimetizzato, disperso tra le maglie del quartiere. In Isola Art Center l’originaria concezione della piattaforma di Bert Theis si trasforma in una sorta di podio collettivo per pubblici comizi che, fuori da ogni rappresentanza politica, intende attivare o sostenere occasioni di auto-empowerment della città. Per Isola Art Center, nei termini di Rancière, «la logica della dimostrazione è [sempre stata] anche inevitabilmente una estetica della manifestazione».

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