Moltiplicare pavoni, mistificare scamorze

Sul «Diario di preghiera» di Flannery O’Connor

Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973, Marinko Sudac Collection
Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde (1973) - Marinko Sudac Collection.

I intend to stand firm and let the peacocks multiply, for I am sure that, in the end, the last word will be theirs
Flannery O’Connor

Ogni lettura è un gesto. Certe volte capita che si tratti di un gesto gratuito, come liberare la volpe dalla tagliola; quel gesto che, poi, altro non fa se non riconsegnarla al suo guaio, all’irreparabile. È ciò che accade nella letteratura di Flannery O’Connor e massimamente in questo suo Diario di preghiera (A Prayer Journal, 2013; tr. it. di E. Buia e A. Rutt, Bompiani, 2016): se carità delle intenzioni e ferocia della natura, nel suo gesto letterario, sembrano impossibili da isolare è perché la sua scrittura non fa che esibire – fingendo di patirla – la loro stessa inseparabilità.

Pierre Klossowski ha scritto una volta che «i riti liberano l’atto dalla sua monotonia e ne moltiplicano l’immagine, l’immagine libera l’animalità dalla sua funzione e le apre una nuova sfera, ossia i ludi e le loro forme, che la congiungono alla segreta gratuità dell’universo divino». Non c’è forse definizione più esatta per descrivere l’operazione – a tutti gli effetti rituale – di un’autrice che ha lasciato che tra scrittura e liturgia si consumasse un’integrale coincidenza. Una liturgia, emblematica e sghemba, in cui il mistero si confonde radicalmente con la maniera. Queste preghierine capricciose e sgangheratissime sono il lamento all’Altissimo della futura suprema stilista della lingua inglese.

Cattolica fervente e inclassificabile, malata resistentissima, malandrina, sguaiatona, piissima. Flannery è l’amazzone ridanciana che restituisce scrupolosamente ogni colpa alla propria inespiabilità 

Cattolica fervente e inclassificabile, malata resistentissima, malandrina, sguaiatona, piissima. Regina di Andalusia – la fattoria georgiana dove allevava festosamente pavoni – Flannery è l’amazzone ridanciana che restituisce scrupolosamente ogni colpa alla propria inespiabilità. Così è per tutti i pazzi irredimibili dei suoi racconti; malati nel sangue e nella sclera, i violentissimi che domandano pietà e che sono incapaci di qualsiasi amore. E nonostante loro, la sua resta pervicacemente una teologia razionale: Tommaso vince sempre su Agostino. La tentazione, spesso, è forte e anche accarezzata: «Il bosco soltanto è puro abbastanza da essere un simbolo di Cristo». Ma non c’è panteismo, neppure latente, che tenga. Esso può esistere solo come seduzione – golosissima, va da sé – del maligno, mai come seria ipotesi da percorrere. Non ci sarà mai, nella sua severa costruzione liturgica, nessuno spazio per restituire l’eucarestia al simbolo. Manierista del mistero e perciò donna paradossale, incontinente, incontentabile: «Non è mica obbligatorio sentirsi a proprio agio in tutte le forme che ti circondano. Devi creare la tua forma da quello che hai, e lasciarla al suo destino». Bisognosa di tutto, paziente per niente.

«Oh Signore, vado dicendo, al momento sono una scamorza, fai di me una mistica, immediatamente». La sua mai manomessa ierodulia al servizio della letteratura mette in scena una Lei, protagonista del più circense dei catasterismi – l’Assunzione della scamorza – e un Lui, l’Altissimo, l’Ineffabile, attore di ierofanie ultra-ordinarie. Questo minuetto tra infanzia dell’orante – che è quindi piagnisteo, glossolalia, capriccio – e adultità severa e indefettibile del mittente occulta una consistente quota di erotismo. Flannery è una mistica, non una suora. E il suo dettato non può perciò essere estasi, melopea; ma prosa mondana e ordinaria: «Intorno a me c’è l’intero mondo sensibile che dovrei essere in grado di volgere in Tua lode; ma non ci riesco. Eppure, in qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per pavimenti o alle uova di piccione, l’inizio di una bella preghiera può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di elevato. Non sono una filosofa altrimenti queste cose le potrei capire».

L’amore che affetta è lo stesso che domanda, inscenando un perpetuo bisticcio amoroso, una baruffa delicata e oscena: «Sembra puerile questo mio dire cose tanto ovvie». Ma questo esercizio incessante che intreccia umiliazione e prosopopea attesta del luogo impossibile della scrittura, del suo accadere non altrove che nel suo stesso farsi. Se da un lato Flannery alza la posta in gioco, provoca: «Per favore dammi la grazia necessaria, oh Signore, e per favore fa’ che non sia difficile da ottenere come è stato per Kafka»; dall’altro sempre si confessa inescusabile: «Io sono troppo pigra per disperarmi». L’impazienza è una scenata, un fuoco di paglia, interrotta da ironia, consapevolezza, stile: «Voglio una rivoluzione ora, una rivoluzione mite, qualcosa che mi conferisca anche solo un ascetismo da XX secolo se non altro quando passo davanti alla drogheria».

La preghiera non è altro che la forma più alta di apprendistato. Alla vita e alla scrittura. Ma anche e soprattutto alla loro inesigibile, ma necessaria, intimità 

La preghiera non è altro che la forma più alta di apprendistato. Alla vita e alla scrittura. Ma anche e soprattutto alla loro inesigibile, ma necessaria, intimità. «Non c’è nessuno che mi insegni a pregare?». Un’altra domanda puerile: insistente e appesa alla sua stessa insoddisfacibilità. Non resta che ritentare daccapo e così finalmente cominciare a cantare: «Caro Dio, non posso amarTi nel modo in cui vorrei. Sei la sottile luna crescente che vedo e il mio io è l’ombra della terra che mi impedisce di vedere la luna per intero. La mezzaluna è molto bella e forse è tutto ciò che una come dovrebbe o potrebbe vedere; ma quello di cui ho paura, caro Dio, è che l’ombra del mio io cresca a tal punto da oscurare tutta la luna, e che io giudichi me stessa dall’ombra che è nulla. Io non Ti conosco Dio, perché sono in mezzo. Ti prego, aiutami a farmi da parte». Togliersi di mezzo nel medio della scrittura è la sola, esigentissima, amorevole forma di culto ancora accessibile. Culto della frustrazione, dell’incapacità, dell’indegnità, della pigrizia e perfino dell’ironia. Un culto che facilmente, ma con la stessa indefettibilità, si traduce in rimbrotto, accusa, lagnanza. Ancora Klossowski: «Costringere la divinità a esercitare la sua funzione è il senso stesso del culto».

L’eminenza affettuosa di questo amore impone un dettato irto di inciampi, di svisature e di intemperanze (quando non di veri e propri errori di ortografia). L’oltranza di questo desiderio è meno l’effetto del sentimento provato che dell’obbligo fatto di provarlo: «Caro Signore, per favore fa’ che io Ti voglia. Sarebbe la più grande beatitudine. Non solo desiderarTi quando Ti penso, ma volerTi sempre, pensarTi sempre, avere il desiderio di Te che mi guida, averlo come un cancro. Mi ucciderebbe come un cancro e questo sarebbe il Compimento». La negligenza del suo fervore fa il paio solo con il senso di colpa scatenato dall’inadempienza al proprio fermo volere. Perché là dove maniera e mistero si sono dichiarati indiscernibili, lì scrivere coincide, alla lettera, con l’arte di pavoneggiarsi.

«Mi piacerebbe essere santa in modo intelligente»: stenografia del dovere che Flannery si era auto-impartita. Sarà soltanto disattendendo ora la santità ora l’intelligenza, disattivandole per farle meglio coincidere, che la sua preghiera – che è l’iperbolica preghiera di scrivere «una bella preghiera» – potrà dirsi esaudita. Il gaudio inopinato dell’accessione alle altezze dell’incolpevolezza è sempre disdetto, complicato – e perciò stesso reso finalmente, puramente dicibile – a causa e grazie a un corpo troppo poco celeste e sempre troppo imperdonabile: «Oggi ho dato prova di essere insaziabile – di biscotti ai cereali e di pensieri erotici. Non c’è nient’altro da dire, su di me».

L’ultima parola, giubilatoria, incomprensibile, potrà essere invece soltanto quella dei pavoni 

Questa stessa dicibilità dell’esperienza – la più inesaudita tra le sue preghiere – è destinata a sopravviverle e sarà anche cauzione della sua mai abbastanza meritata grazia. L’ultima parola, giubilatoria, incomprensibile, potrà essere invece soltanto quella dei pavoni.

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