Mork chiama Ork
Come fare la frittata da dentro l'uovo
Le vacanze, quest’anno, me le sono voluto concedere! Con 13 amici artisti. Tutti a prendere il sole a scacchi nell’ex carcere mandamentale di Montefiascone, sul Lago di Bolsena.
Mezza Galera – questo il titolo del progetto che ha messo l’arte dietro le sbarre per sette giorni* – ha chiesto ad ogni partecipante di sottoporsi ad un regime di restrizione della libertà, accettando di vivere una settimana in isolamento nella propria cella di 3 x 2 m, con una finestra a bocca di lupo (tranne due di lusso vista lago, e due penitenziali senza finestra) e la porta chiusa dall’esterno; vietati telefoni e connessioni internet. Fatta eccezione per le tre ore giornaliere dedicate alla socialità – l’ora d’aria nel cortile e le due per consumare insieme i pasti (messi a disposizione generosamente dal ristorante Il Caminetto, sponsor che per l’occasione ha coniato lo slogan il cibo ha il sapore della libertà), le restanti ventuno ciascun artista le ha dovute passare in solitudine, totalmente consegnato al proprio spazio mentale, che il progetto invitava a restituire con un’opera ambientale che contenesse, al proprio interno, tutto ciò che si era deciso di portare e fare nella stanza (sciogliendo anche la questione della doppia natura degli oggetti introdotti nella cella-opera, funzionali e al tempo stesso rappresentazione, perché parte integrante del lavoro).
Nello spazio angusto della cella, l’artista resiste alla pena dell’isolamento, della mobilità ridotta, del tempo dilatato, combattendo con i propri strumenti la violenza che, volontariamente in questo caso, subisce, ma al tempo stesso gioisce del privilegio di non dover pensare che alla propria dimensione creativa
L’arte, la più libera tra le pratiche dell’uomo, si confronta con il tema del limite, immaginando risposte diverse – ciascun artista la più idonea – alla costrizione della prigionia o da questa evocata. Al tempo stesso, in una situazione protetta, concentrata, lontana dalle distrazioni del mondo, l’arte si potenzia. L’ostacolo l’aiuta. Nello spazio angusto della cella, l’artista resiste alla pena dell’isolamento, della mobilità ridotta, del tempo dilatato, combattendo con i propri strumenti la violenza che, volontariamente in questo caso, subisce, ma al tempo stesso gioisce del privilegio di non dover pensare che alla propria dimensione creativa.
Non mi dilungherò qui sulla descrizione della mia porziuncola, proponendovi un viaggio intorno alla mia camera alla maniera di Xavier de Maistre. Basti dire che giorno dopo giorno le sue pareti sono andate riempiendosi di appunti e post-it, la maggior parte citazioni dai testi (de Maistre incluso) che andavo leggendo e rileggendo, la parte più cospicua del mio bagaglio (in senso letterale e metaforico). Un portato, un po’ ingombrante e un po’ polveroso, come tutti i portati culturali… che bauli, valige e altri oggetti vintage, volevano evocare. Volevano? Non so se all’inizio avessero più che altro una funzione decorativa, ma di certo hanno assunto il loro significato più pieno quando tra i rimandi di questa meta-stanza (meta perché riflette sul dispositivo di gioco e sulle altre stanze) si è aggiunto quello di Michel Serres, che sbaragliava tutte le mappe celesti e le carte nautiche via via accumulate per invitare il pensiero a viaggiare in mare aperto1.
La nave, come il carcere, per Foucault è spazio altro, quello dell’eterotopia, luogo caratterizzato dalla capacità di poter mettere in discussione con la sua presenza tutti gli altri… ma eccoci di nuovo incatenati alla bibliografia… si può fuggire all’autorità dei sapienti? Calvino dice che nessuno, neanche il re, che vive incatenato al suo trono, ascoltando i rumori del palazzo-prigione, può sperare di essere libero… tantomeno felice, anche se non rinuncia alla speranza di unire un giorno, prima che la congiura metta fine al suo regno, il proprio canto a quello dell’amata che conosce solo per il tramite di una dolce melodia giunta da lontano, senza volto e ormai perduta per sempre nel rumore di fondo.
Nella cella i rumori di fuori arrivano attutiti e al tempo stesso amplificati, perché vi si presta più attenzione e l’orecchio si affina nel silenzio. Sento i passi dei secondini a nessuno (così abbiamo chiamato gli amici artisti che hanno deciso di interpretare questo ruolo scomodo prendendosi cura di noi, aprendoci la porta per le visite in parlatorio e per farci fare pipì), il battere del martello di chi affronta la sua reclusione da forzato invece di concedersi la riduzione della pena offerta dal sonno… le campane della chiesa che segnano lo scorrere lento del tempo che non passa… il debole ma costante brusio della voce di donna che ha performativamente deciso di recitare ogni giorno, per maggior penitenza sua e nostra, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Leggo la conversazione di Paul Virilio e Enrico Baj che ci ricorda come – grazie ai dispositivi elettronici di cui facciamo uso giornalmente (carte di credito, bancomat, sms, social network, mail…) – siamo sottoposti ad una perquisizione permanente; tutti trasparenti, senza privacy, senza segreti, senza più una tana dove ripararci…
La prigione, il dispositivo di controllo per definizione, ci concede sette giorni di latitanza. Per riflettere su come evadere dalla prigione-mondo?
La prigione, il dispositivo di controllo per definizione, ci concede sette giorni di latitanza. Per riflettere su come evadere dalla prigione-mondo? Uno dei reclusi del carcere di massima sicurezza di Palmi sogna di scalare il muro di cinta del penitenziario. Dall’alto non vede che cortili circondati da mura. Ricevo visite in parlatorio. Mi chiedono spesso perché abbia deciso di adottare lo stesso regime degli altri anche io che sono il curatore. Non piace questa confusione. A ognuno la sua professione, il suo ruolo, il suo sottopancia. Me la cavo rispondendo che anche Cesare Lombroso, collezionista di teste di criminali sotto formalina, nel suo mandato testamentario donò la propria al museo che aveva fondato e diretto. Come avrei fatto a scrivere di questa esperienza senza viverla? E a proporre ad altri questa tortura senza infliggerla a me stesso?
L’incontro con il pubblico in parlatorio è stato pensato come un modo per rendere fruibile la mostra nel periodo in cui questa non era visitabile. Poi si apriranno le celle, e allora, come diceva Picasso, l’opera sarà in mostra ma il pittore sarà già uscito! I visitatori sono numerosi e sembrano curiosi di sapere cosa sta succedendo oltre la porta chiusa. Ciascuno può solo immaginarlo dopo aver incontrato l’artista. Che cosa fa l’artista tra le sue quattro mura? Resiste come dice Deleuze? Produce differenza da immettere nel mondo? E dove si ferma la libertà dell’artista? Quando gli artisti hanno smesso di rispondere solo alla committenza e al potere sono diventati pericolosi. Li si è associati ai criminali, agli asociali (per il loro spiccato individualismo), li si è detti poco inclini alla responsabilità (per via che non lavorano), infantili (giocano!), dediti al vizio e a comportamenti sessuali licenziosi e contro-natura. Qualcuno è stato messo in carcere per questo. Il color arancio utilizzato da Mezza Galera per caratterizzare la propria dotazione di gioco (divisa, carta igienica, lametta da barba, fischietto, sedie…) nasce da questo passo del Diario dal carcere di Egon Schiele: «Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato V. è l’unica luce che risplenda in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile»).
È raro che oggi l’artista finisca in carcere per aver deciso di fare l’artista – l’arte dice Mario Perniola è la sola forma di devianza accolta dalla cultura occidentale contemporanea. All’artista si riconosce generalmente la libertà di esprimere una mutazione… L’attuale stato espanso dell’arte (con il contraltare di un mercato finanziario che punta su pochissimi cavalli vincenti – e dopati) non trasforma questa libertà – la libertà dell’artista e di scegliere di fare l’artista – in una rappresentazione della libertà, una libertà che il pensiero unico e il mondo globalizzato non ci concedono veramente ma che ci permettono solo di recitare? (La mutazione o viene sussunta o si estingue per inedia, visto che il numero crescente di artisti e creativi non fa che ingrossare di fatto le fila del precariato).
Questo ci porta alla questione della solitudine dell’artista contemporaneo che mi sembra sia il tratto che meglio ne caratterizza la condizione odierna. Più l’artista è libero dalle regole del quadro normativo della professione, che è definitivamente venuto meno con la fine delle avanguardie e dei manifesti, più diventa prigioniero del proprio idioletto. Più questa originalità, che è la sua libertà e al tempo stesso la sua galera, viene celebrata più essa deve fare i conti con il sospetto crescente della frode (cfr. N. Bourriaud, Forme di vita).
Più questa originalità, che è la sua libertà e al tempo stesso la sua galera, viene celebrata più essa deve fare i conti con il sospetto crescente della frode
«Il sognatore – scrive Dostoevskij ne Le notti bianche – si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino dalla luce del giorno, e quando poi si rifugia a casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca, o, almeno, è molto simile in quest’atteggiamento a quell’interessante animale che è animale e casa insieme, che si chiama tartaruga». Per quale motivo, si chiede lo scrittore russo, questa buffa e strana persona dedita al fantasticare, quando riceve una visita è presa dal panico come se avesse «appena commesso un delitto», o «fabbricato banconote false»2?
Pur rivendicando la sua solitudine, l’artista cerca il dialogo con il pubblico, anche se come diceva Klee il suo popolo ancora non c’è. L’arte, in fondo, è sempre un dispositivo d’incontro, il messaggio in bottiglia di un naufrago solo sulla propria isola scritto in una lingua che forse parla lui solo. Quale contromisura deve adottare l’artista per non rimanere intrappolato nella mera celebrazione del proprio universo egoico? Come convincere qualcuno a visitare la propria cella? E lo si può fare prescindendo dal processo di fabbricazione dell’artista proprio del sistema finanziario dell’arte, fatto di campagne pubblicitarie, passaggi in asta, ecc.?…
Leggo dagli scritti di Toni Negri: «Il fatto che l’arte fosse completamente interna nel mondo delle merci non mi turbava più, giacché questa era la condizione del lavoro e non poteva essere altrimenti. Lo scandalo intellettuale e il sentimento di asfissia etica che si trova nel vedere l’arte catturata in questo mondo prigioniero del capitalismo non mi facevano più orrore. O, meglio non mi suscitavano più solo orrore. Perché era proprio in questo mondo basso, a contatto diretto con l’orrore e la violenza del mercato, che il lavoro vivo dell’artista prendeva talvolta l’apparenza del bello. Cos’è allora questa bellezza? […] L’arte è… invenzione di singolarità, di figure e oggetti singolari, espressione linguistica, invenzione di segni. Qui, in questo primo movimento si distende la potenza del soggetto in azione, la sua capacità di approfondire la sua conoscenza fino a reinventare il mondo. Ma questi atti espressivi non raggiungono la bellezza e l’assoluto se non quando i segni e la lingua attraverso i quali si esprime si fanno comunità»3.
Ecco fatto: attacco un altro post… poi mi stendo sul letto a riposare. Guardo la finestra con le doppie grate. Mi viene voglia di nastrare d’arancio le sbarre… l’arancio non è un colore che si confà troppo bene all’architettura d’interni e al design mi viene irragionevolmente di pensare. Poi mi ricordo che la mia stanza di bambino era arancione. Gli occhi si chiudono, mi abbandono e libero un po’ la mente inseguendo le figure che mi suggeriscono le macchie di umido della parete… Figure di animali come nella grotta di Lascaux, quando tutto ebbe origine, la libertà, l’arte, l’uomo.
Le foto sono di Giovanni De Angelis
Mezza Galera_artisti in resilienza – Montefiascone, 2-17 agosto 2016.
* Mezza Galera_artisti in resilienza è un progetto di Giorgio de Finis realizzato in collaborazione con ArteLiberaTutti [Marinella Breccola, Carmine Leta, Saskia Menting, Francesco Marzetti, Martapesta, Regula Zwicky]. In cella: Francesco Bancheri, Arianna Bonamore, Mauro Cuppone, Giovanni de Angelis, Massimo De Giovanni, Santino Drago, Martin Figura, Piotr Hanzelewicz, Hans-Hermann Koopmann, Andrea Lanini, Paola Romoli Venturi, Samuele Vesuvio e lo stesso de Finis.
Note
↩1 | «Pensare vuol dire inventare. Tutto il resto – citazioni, note a piè di pagina, copia-incolla, bibliografia delle fonti, commenti… – può passare per preparazione, ma presto cade nella ripetizione, nel plagio e nel servilismo», Michel Serres, Il mancino zoppo, Bollati Boringhieri, Torino, (2016). |
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↩2 | Per inciso falso pare sia anche il Diario dal carcere di Schiele che più sopra abbiamo citato, probabilmente realizzato da Arthur Roessler, «sin dal 1909 fervido sostenitore dell’allora poco più che esordiente Egon Schiele» (F. Armiraglio), documento costruito ad arte con lo scopo di contribuire ad accrescere la fama dell’artista. «… il Diario dal carcere ha contribuito a costruirne l’immagine di poeta maledetto. Ancora oggi, a quasi un secolo di distanza, la sua lettura si rivela coinvolgente e, al di là della sua autenticità, trasmette l’immagine romantica dell’artista come uno fra i più liberi per natura, legato solo a quella legge che non è la legge dei più». |
↩3 | T. Negri, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), DeriveApprodi (2014). |
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