Il MAAM e l’invenzione artistica di un’altra città

Eccedenze, inclusione, ozio

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Metropoliz - sulla torre il telescopio di Gian Maria Tosatti, la meridiana di Rub Kendy e il messaggio di Opiemme - Foto di Giorgio de Finis.

Il Maam – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_Città Meticcia compie 5 anni. Per l’occasione è stato prodotto un catalogo di 1000 pagine, curato da Giorgio de Finis e pubblicato dalle edizioni Bordeaux che verrà presentato domani mattina, sabato 22 aprile, durante un dibattito dal titolo La Roma di tutt* al quale interverranno gli assessori Luca Bergamo e Luca Montuori. Qui pubblichiamo uno degli interventi in catalogo e vi ricordiamo che l’appuntamento è per domani dalle 11 in poi in via Prenestina 913 per un’intera giornata di festeggiamenti.

«Durante le giornate di sommossa a Dresda, nel maggio del 1849, credo ci fosse anche il giovane Wagner, Bakunin vedendo avanzare la milizia contro gli insorti pare avesse proposto di prendere il più bel quadro del museo, la Madonna Sistina di Raffaello, e di metterlo davanti alle barricate. […] Trovo valida questa proposta di Bakunin: utilizzare l’arte nella vita, in momenti drammatici»
Enrico Baj, La patafisica, 1982 

Il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia mi pare quanto più prossimo all’idea di uno spazio pubblico non statale di invenzione di una nuova idea di città e inclusione sociale a partire dall’immaginazione artistica e dalla sperimentazione collettiva.

Eccedenze tra le rovine

Come direbbe qualche teorico e pratico dell’accelerazionismo tecnologico e digitale che sobilla un post-capitalismo cooperativo e solidale, MAAM sembra il luogo dove è stata «incentivata la costruzione, esteticamente sperimentale, di reti-fai-da-te nel bel mezzo delle macerie: abilità di estrapolare la teoria dai suoi contesti ed inserirla in una intransigenza gioiosa e traviata» (Edmund Berger, Accelerazionismo grunge, Rizosfera, 2016, http://obsoletecapitalism.blogspot.it).

Intransigenza gioiosa e traviata. Attitudine situazionista e punk, del Do It Yourself, retaggio esistenziale dei visionari che hanno fondato questo spazio artistico a tutela degli spazi abitativi. Ecco il MAAM, medievale castello post-industriale, con l’autonomo intelletto collettivo pronto a trasformare la dismessa “fabbrica suina” in una vivente barricata poetica, per le generazioni presenti e future, per quei bambini che vivono, corrono, giocano intorno alle opere d’arte affiancate alle loro case. E allora c’è anche qualcosa del motto montessoriano “aiutami a fare da solo”, dei “bambini imparano da soli” tramite gli aiuti opportuni che loro stessi domandano, in un contesto che promuove autonomia e cooperazione, dialogo intergenerazionale e felice indipendenza, arte e socialità.

Socialità dell’arte

Con la capacità di tenere insieme, per sovvertirle, tutte le possibili, dissonanti avanguardie dell’ultimo secolo: la vita a dimensione del bambino che siamo, con Maria Montessori appunto, a inizio Novecento, passando per il decennio successivo del movimento Dada, balbettio, negazione, sovversione, gioia in mezzo al macello della prima guerra mondiale e della lunga guerra civile europea che arriva all’attuale, odiosa, Finis Europae, tra gelosie nazionalistiche, vecchie dominazioni e barriere, nuove povertà (e si chiama Giorgio de Finis il principale promotore e curatore del MAAM, per ricominciare sempre, oltre qualsiasi recinto). Eppoi il secondo novecento post-situazionista precipitato nella zona temporaneamente autonoma, la TAZ – Temporary Autonomous Zone del MAAM, che lega la fine secolo, dell’omonimo libro di Hakim Bey (1991), dell’etica raver degli anni Novanta, alla dimensione stanziale di quell’attitudine, vissuta al futuro anteriore: una zona autonoma che sarà stata permanente!

Poeti, profeti, rivoluzionari – da Rimbaud ai postmoderni (Charles Russell, 1985), eppoi artisti, dalla Commune de Paris del 1871 al vivere in comune con le opere d’arte nel MAAM del XXI secolo. Eccedenze tra le macerie di un secolo lungo che restituiscono le possibilità di pensare e praticare altrimenti le forme del vivere insieme.

Inclusione attiva e rigenerazione artistica

Il MAAM rende operativa l’idea di una rigenerazione artistica e poetica delle città. O almeno ci indica una possibilità: il protagonismo attivo di una comunità immaginata di persone, cittadini, artisti, tiene insieme orizzontalità del comune sentire, con la verticalità non solo metaforica di “edificare” uno spazio liberato dalla contingenza economica, politica, culturale, per restituirlo ai tempi lunghi del buon vivere insieme.

È l’utopia concreta di realizzare nella pratica un’altra città tra le millenarie vie consolari dell’Urbe, ai bordi della Prenestina, negli spazi erosi dalla rendita privata e pubblica, nel bel mezzo di incroci culturali di una socialità artistica che restituisce vita, colori, immagini, voci alle rovine della società industriale. Di nuovo un cortocircuito temporale da rintracciare nelle parole di William Gibson, il visionario che nel cuore degli anni Ottanta ci ha descritto il futuro del cyberspace e l’attitudine cyberpunk con la trilogia Neuromancer (1984), Count Zero (1986) e Monna Lisa Overdrive (1988): «le città, per sopravvivere, devono essere capaci di lunghe fughe di riadattamento. Solo le città più adolescenti non hanno ancora mai visto le proprie rovine» (William Gibson, Vivere a Meta City, «Le Scienze», novembre 2011, Il futuro delle città, pp. 100-101).

Ma non si tratta “semplicemente e solamente” di riproporre un nuova declinazione del rapporto tra arte e attivismo sociale e politico, quanto, con una certa dose di “complessità e (in)coscienza”, di inserire nel discorso pubblico l’opzione di un altro uso delle proprietà dismesse nel passaggio alla società post-industriale, legando il diritto fondamentale all’abitazione con l’altrettanto fondamentale diritto alla felicità di una porzione sempre maggiore di umanità.

I sentieri di un nuovo costituzionalismo: tutela della dignità umana e affermazione di una nuova socialità, a partire dalle città. Riempire un vuoto metropolitano unendo inedita produzione artistica con emergenza di una questione sociale che non trova più spazi pubblici di condivisione ed emancipazione. Il MAAM come “occasione” di rifiuto delle politiche della paura: per pensare e praticare una nuova cittadinanza sociale, contro la progressiva e apparentemente inarrestabile individualizzazione dei rischi sociali che rende tutti più insicuri e impauriti. E che peggiora quotidianamente le condizioni di vita nelle ciclopiche metropoli globali come nelle depresse aree rurali ai margini dei centri politici, istituzionali, economici di questa nuova età urbana calata nell’epoca globale in crisi (Urban Age in Global Epoch, direbbero sociologi cool & mainstream). Non dimenticando che siamo tutti, volenti o nolenti, «dentro quella meta-città ageografica e ancora largamente non riconosciuta che è Internet […]: oggi abitiamo tutti a Meta City qualunque sia l’indirizzo fisico» (ancora William Gibson). E MAAM è un avamposto di Meta City, liberata.

Ozio ri-creativo: un’utopia concreta

«Per cambiare la società bisogna cominciare a liberare dentro di noi tutte quelle forze libertarie che vorremmo veder trionfare nella società futura». Così scriveva Albert Meister (1927-1982), compianto studioso delle esperienze autogestionarie, nel divertente e scoppiettante La soi-disant utopie du centre beaubourg (1976), prodigiosamente tradotto da Roberto Ambrosoli per Eleuthera un decennio dopo con il titolo di Sotto il Beaubourg: narrazione inventata di sotterranei urbani dove fioriscono altre culture, e nuove arti del buon vivere, rispetto a quelle istituzionali del mitico Centre Pompidou parigino. E il MAAM è il nostro sopra il Beaubourg, da Parigi a Roma: Torre di Babele dove le mille lingue inventate dall’umana ingegnosità si riprendono i tempi di vita, oltre la distopica iperattività (post-)industriale.

Qui sta forse il cuore della sfida che gli artefici del MAAM pongono agli accidentati scrutatori del futuro, attuali, affaticati, sperimentatori di economie della condivisione, circolari, sociali, collaborative e cooperative. Abitare tra le rovine della civiltà industriale per disinnescare le sue premesse di onnivoro produttivismo, schiacciate tra l’ordine proprietario dello Stato-nazione e il comando lavoristico della fabbrica, metallurgica o burocratica che fosse. E recuperare tutte le narrazioni di vite liberate dalla schiavitù del lavoro coatto, sotto padrone, per esaltare quello creativo, che solo a partire dall’ozio può regalare le gioie di una vita pienamente vissuta. Seicento anni dopo il Thomas More che con la sua Utopia (1516) riteneva eccessive sei ore giornaliere di lavoro, sicché il Campanella de La Città del Sole (1611) le ridusse a quattro, mentre John Maynard Keynes nelle sue celebri Prospettive economiche per i nostri nipoti, pensate e scritte dentro la Grande Crisi del 1929, arrivava a prevedere quindici ore lavorative settimanali, tre al giorno, per placare il vecchio, insaziabile, Adamo che è in noi. E prima ancora Paul Lafargue (1880), quindi Bertrand Russell (1935), con il loro incantato Elogio dell’ozio avevano esortato moltitudini di donne ed uomini a pensare e praticare la rigenerativa e operosa arte dell’ozio. Poi arriverà il dinamitardo Bob Black di The Abolition of Work (1985), Stanley Aronowitz e la sua combriccola col Manifesto del post-lavoro, per la fine del lavoro senza fine (1997), quindi la scuola del Gruppo Krisis e il loro Manifesto contro il lavoro (1999).

E in mezzo gli insegnamenti di Hannah Arendt, Guy Debord, André Gorz, Alain Touraine, Carole Pateman, Ivan Illich, Claus Offe, Philippe Van Parijs, Carmelo Bene, Franco Berardi, Domenico De Masi, molte e molti altri ancora, di diversi orientamenti teorici e filosofici, ma tutti convintamente fautori di una vita attiva fuori dalle miserie coercitive del lavoro come maledizione biblica, dentro l’invenzione collettiva di un tempo finalmente liberato, con il reddito di base come nuovo diritto universale all’esistenza (Basic Income Network – Italia, a cura di, Reddito per tutti, 2009).

MAAM, città immaginaria e immaginata

Di questo ci parla il MAAM: delle possibilità di riannodare i fili interrotti e i tentativi azzardati di quella parte di umanità da sempre in relazione cooperativa per ridurre la fatica e condividere spazi di nuova socialità e ricchezza, a partire dall’arte. Dettare i propri tempi nell’innovazione sociale e tecnologica per rifiutare un presente di vite logorate dal lavoro (povero, servile, insicuro, precario) e dalla sua mancanza (come percezione di retribuzione, sicurezza, inclusione, partecipazione). Guardare al futuro senza il lavoro come è stato percepito nel lungo Novecento, rendendo possibile un’ecologia della disoccupazione, ci propone Don Delillo, nel suo ultimo libro Zero K, oltre qualsiasi fantascientifica distopia. Partire da uno spazio urbano, ai margini metropolitani di un’antica capitale d’Occidente, per ripensare le città d’Italia e d’Europa come vere e proprie opere collettive, stratificate nel tempo, rielaborate dalla memoria di chi le ha abitate e attraversate, spazi ideati e vissuti da questa memoria comune del buon saper vivere in comune. É insomma la possibilità di mettere in connessione e tensione le spinte dell’accelerazionismo tecnologico e digitale con i tempi lunghi della civiltà urbana, in quell’incontro sempre in movimento tra nord e sud del mondo, oriente e occidente, con solarità meridiana e concretezza artistica.

E il MAAM riparte dal cuore, ora tragico e sofferente, del Mediterraneo da intendersi non come spazio “mitico e concreto” che nei millenni ha dato vita ad “una” cultura mediterranea, quanto come una tra le grandi frontiere, che vorremmo fossero di libertà, del mondo contemporaneo, dove non si delinea un’unica civiltà dai caratteri unitari. Perché lo stesso nome Mediterraneo è un «prodotto recente della nostra visione del mondo, invenzione dei geografi, ma anche “trionfo dell’immaginario”» (L. Passerini, Il mito di Europa. Radici antiche per nuovi simboli, 2002). L’arte pubblica del MAAM, con visioni e sguardi delle opere che custodisce, come inesausto tentativo di veder trionfare, almeno parzialmente, l’immaginario di una convivenza comune capace di ridurre la paura ed i suoi effetti di esclusione e intolleranza, per aprire gli spazi di una civiltà sempre meno ferina e sempre più accogliente. Un’idea di città che sia prima di tutto solidarietà, condivisione, apertura, convivialità: impresa collettiva e intergenerazionale che coniughi al presente e al futuro autonomia e cooperazione. Quasi l’affermazione di una istituzione sociale in cui far convivere libertà dei molti e collaborazione tra i molti, come modello per nuove istituzioni locali di autogoverno delle cittadinanze che sappiano tessere relazioni aperte con altri cittadini, territori, istituzioni. Prototipi di un mondo a venire, ai bordi di Roma, in questi insondabili anni Dieci del Duemila.

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