Note sulla Nuit debout
Tra autonomia e prassi istituente
Superare gli steccati che separano il cosiddetto pensiero radicale dalle forme di intervento concreto. Intrecciare l’elaborazione critica all’immanenza della conflittualità sociale contemporanea. Rimettere in gioco, in sostanza, una certa visione del rapporto tra teoria e prassi. Queste sono, in estrema sintesi, le linee guida lungo le quali si dipana il primo, breve pamphlet teorico-militante pubblicato in Francia a seguito della stupefacente mobilitazione della primavera scorsa.
Contre la loi travail et son monde. Argent, precarité et mouvements sociaux, (Eterotopia, 2016) si inserisce infatti in un particolare contesto socio-politico. Le energie generatesi in opposizione alla loi travail sono infatti state capaci di irrompere in uno scenario stretto tra l’opera di ristrutturazione neoliberale marcata Hollande-Valls, e uno stato d’emergenza e di securizzazione che tende sempre più a farsi forma di governo della normalità capitalistica. Facendosi largo nel cupo clima post-attentati, una mobilitazione apertasi all’insegna della più tradizionale agitazione sindacale si è trasformata in un nuovo tornante del ciclo di lotte iniziato nel 2011. L’incandescente partecipazione dei settori giovanili precarizzati e la sperimentazione di democrazia diretta e orizzontale praticata dalle Nuit Debout si sono intrecciate alla rabbia della base sindacale, secondo un meccanismo di spinta reciproca alla radicalizzazione. Il risultato abbiamo avuto modo di constatarlo: una torsione rapida e inaspettata del movimento, che ne ha generalizzato la portata, acuendo e politicizzando i termini dello scontro.
Ad alcuni mesi di distanza dall’approvazione della legge e da quello che sembra un arresto dell’onda mobilitativa, il testo di Davide Gallo Lassere tenta di proporre alcuni elementi di analisi e abbozzare possibili prospettive strategiche. D’altra parte, se è vero, come ben sottolineato da Jacques Rancière, che la primavera francese può essere letta come «la trasformazione di una gioventù in lutto in una gioventù in lotta», un’analisi più profonda sulle forme, la composizione e le pratiche sperimentate risulta quanto mai necessaria, al fine di mantenere aperti e allargare ulteriormente gli orizzonti dischiusi finora.
Il punto di vista assunto dall’autore è chiaro: lo sguardo parziale e interessato di chi attraversa la composizione sociale che intende studiare. Il metodo ancor più evidente: la partecipazione diretta alle iniziative messe in atto nella mobilitazione. Prospettiva analitica generale: lo scenario transazionale dell’evoluzione dei movimenti sociali degli ultimi anni. Frammenti di «inchiesta» negli anni ’10, dunque, che sfociano in un tentativo di iniezione di nuova linfa nel dibattito radicale d’oltralpe, spesso appiattito sul candido utilizzo di un apparato categoriale marxista polveroso e non storicizzato da parte dei milieux militanti, da un lato, e sull’insurrezionalismo piacevolmente poetico, ma fatalmente postmodernista, del Comité Invisible1 dall’altro. Dopo il 2016, 1977! titola d’altronde una delle più dense parti del bouquin2.
Il libro è organizzato in tre brevi capitoli, un interludio (su Sommosse e razzismo di Stato) e una densa postfazione epistemologica. Si propone, in primo luogo, una diagnosi della contemporaneità del tardo capitalismo occidentale e solo successivamente vi si inserisce la trama concreta dello sviluppo del movimento, inquadrato nel più generale contesto della storia francese recente. Non si tratta solo di un entusiasta appello al soulèvement, divenuto, fortunatamente o meno, una piccola moda estetica della Parigi intellettuale ma dell’analisi di un passaggio importante in seno ai rapporti di forza che attraversano la società francese, fondata su una ben precisa teoria del capitalismo.
Le due premesse diagnostiche apposte inizialmente gettano luce sulla cornice teorica suggerita. Oltre a un «uso capitalistico della crisi», una sua messa a valore attraverso procedimenti inediti di speculazione che incrociano finanziarizzazione, governance globale e trasformazioni del tessuto produttivo, bisogna individuare infatti un «uso capitalistico delle lotte», che si può derivare tanto dalle più note tesi operaiste sulla priorità determinante delle soggettività di classe rispetto all’innovazione capitalistica, quanto dalle meno infuocate ricerche sociologiche sul «nuovo spirito del capitalismo» e sulla sua plastica capacità endogena rispetto a ogni istanza critica che giunga dall’esterno3.
È a partire da queste considerazioni preliminari che il movimento contro la loi travail viene ricostruito nella sua genesi e narrato dettagliatamente nel suo sviluppo. In questo senso, vengono distinte le sue varie fasi, dai primi scioperi fino ai blocages diffusi dei nodi strategici della filiera produttiva (settore energetico, circolazione, logistica), passando per la complessa ma fertile dialettica tra l’istanza costituente e democraticista che ha animato la riappropriazione di Place de la République e la conflittualità diretta della dinamica del cortège de tête (lo spezzone giovanile e autonomo in testa alle manif). È un punto nevralgico questo, sul quale il testo si sofferma, evidenziando insieme l’eterogeneità delle composizioni sociali protagoniste e la convergenza che, almeno per un certo periodo, questi diversi vettori della mobilitazione hanno vissuto. In tal senso, sebbene sia esplicita la scelta di interpretare la situazione in termini di alleanza e non in termini di rottura, sarebbe stato interessante lasciare spazio all’analisi della divergenza strutturale tra l’orizzonte tattico-contrattuale sindacale e l’immaginario di sovvertimento generale di alcune frazioni del movimento, nonché alle diverse prospettive che hanno animato le varie categorie di lavoratori sindacalizzati, che presentano condizioni tra loro molto differenti, da una parte, e i giovani, i disoccupati e i precari di prima e seconda generazione, dall’altra.
Lasciando da parte alcuni aspetti tecno-comunicativi, risultati determinanti in altri – e ben differenti – contesti mobilitativi, si possono dunque porre, a partire da questo testo, alcune questioni oggi ineludibili. In primis, il rapporto tra la potente spinta critico-destituente dei movimenti contemporanei e un ancora acerbo desiderio istituente, manifestatosi, nel caso francese, attraverso micro-pratiche di autorganizzazione e di rinnovamento dei meccanismi di decisione e partecipazione democratica, nonché tramite l’evocazione di un processo di rifondazione sociale della République. In breve, la posta in gioco consiste nel raccordo tra due aspetti delle lotte contemporanee che, in questo caso, si sono trovati a relazionarsi reciprocamente non sempre in modo virtuoso ed espansivo e senza sfociare, almeno finora, in alcun tipo di «verticalizzazione» politica (come esplicitamente auspicato da una delle figure intellettuali più in vista della Nuit Debout).
La questione può anche essere letta su un piano speculativo. Si tratta, in questo senso, di articolare la proposta micro-politica del gesto destituente della sottrazione e lo slancio della prassi istituente, della produzione di nuova istituzionalità a partire dalle schegge di comune che emergono da una cooperazione sociale pur sempre posta, presupposta e sussunta al capitale. Da una parte, dunque, lo spunto agambeniano, praticabile al livello minimo delle forme di vita, del «rendere inoperante» ciò che è costituito, del disattivare l’economia interna di ogni opera di potere; dall’altra, la trasformazione dell’architettura giuridico-economica delle società attraverso un processo costituente che nasce dal basso. Un’articolazione complessa e irrisolvibile attraverso l’analisi di una singola fase di mobilitazione, ma che può essere declinata concretamente attraverso la storicizzazione contestuale e l’attenzione sociologica alla composizione e alla provenienza delle soggettività sociali in gioco.
A tal fine, il prisma utilizzato in questo testo è quello della moneta e della sua natura strutturalmente ambigua, in quanto al tempo stesso vettore di sfruttamento e posta in gioco dell’emancipazione. La lotta per la socializzazione di un reddito universale e incondizionato viene proposta, infatti, come elemento catalizzante per rispondere trasversalmente non solo alle recenti trasformazioni dei capitalismi storici, ma anche al pragmatismo post-ideologico dei movimenti contemporanei e alla loro forte eterogeneità interna.
Il secondo nodo problematico non è che l’a priori politico della questione appena affrontata, la condizione minima di partenza per risolverla in positivo. Si tratta del nesso, ancor più attuale viste le forme recentemente assunte dal riflusso della mobilitazione, tra l’espressione di conflitto e la capacità di progettazione strategica e di tenuta organizzativa. Una questione coniugabile, in altri termini, come la relazione tra le energie prodottesi e l’orizzonte egemonico cui tendere. Se infatti il movimento della scorsa primavera è stato capace di raggiungere soglie notevoli di conflittualità, è al tempo stesso evidente la difficoltà che si è incontrata nella sperimentazione di forme di coordinamento in grado di incanalare tale forza, tanto nella direzione di un attivazione di segmenti sociali ben poco coinvolti nel movimento, quanto al fine di affrontare il contrattacco repressivo seguito all’approvazione della legge e al successivo arresto dell’agitazione sindacale.
L’eclatante estraneità alla mobilitazione dei settori razzializzati della popolazione (sui quali il testo giustamente insiste) e delle cosiddette fasce medie impoverite e in via di proletarizzazione (non considerate dall’autore), così come la fatica autunnale nel rilancio di un’azione unitaria di medio periodo confermano gli ostacoli riscontrati su questo punto. A tal proposito, nonostante l’attenzione prestata alla stratificazione sociologica del movimento, manca appunto un’analisi della posizione di classe e del peso politico che le fasce medie bianche sottoposte a un crescente impoverimento svolgono nel contesto francese. Infatti, se vi è stata senza dubbio un’indiretta funzione antifascista del movimento, che ha espulso per alcuni mesi il Front National dal dibattito pubblico, dalla mobilitazione non è emersa alcuna riflessione strategica sulle zone grigie di proletarizzazione rancorosa (recente scoperta archimedica dei salotti di sinistra scandalizzati da Brexit e Trump), inavvicinabili attraverso la discorsività politica del radicalismo «bobo».
In breve, politicizzazione e radicalizzazione di massa non sono andate di pari passo rispetto a invenzione di formule organizzative innovative all’altezza delle condizioni raggiunte e capaci di interpretare in termini espansivi la fase di risacca del movimento. Azione destituente e prassi istituente, così come, dunque, autonomia e organizzazione restano i poli teorici e politici determinanti, sui quali è necessario insistere e sperimentare.
In conclusione, tanto la ricostruzione politica dell’evoluzione del movimento, quanto gli spunti teorici per una possibile coalizione e allargamento dei conflitti attraverso la lotta per il reddito, forniscono non solo un buon contributo analitico, ma pongono, quantomeno in nuce, la questione del rapporto tra la funzione dell’elaborazione teorica e lo sviluppo delle lotte sociali. Come pensare, infatti, a seguito delle trasformazioni cognitive della valorizzazione capitalistica, la figura dell’intellettuale di parte? Al di là dell’antico immaginario dell’intellettuale organico al partito e dell’ormai impraticabile condotta dell’intellettuale «cellula di una struttura di servizio» dell’autonomia di classe, questo breve lavoro suggerisce di ripensare la questione a partire dal livello minimo di una critica sociale prodotta per e dai movimenti e situata, dunque, al centro delle tensioni che attraversano la contemporaneità.
Si tratta quindi – ci sentiamo di aggiungere – di reinterpretare in un contesto nuovo lo spirito dell’inchiesta, della ricerca concreta sulle condizioni di dominio non da un punto di vista sopraelevato e normativo (che sia una pastorale scienza materialistica della storia o una prudente mappatura sociologica), ma dalla prospettiva dei subalterni stessi. Praticare, a partire da una semplice regola di immanenza al processo sociale analizzato, una diagnosi critica che non ceda all’antico vizio marxista di presupporre l’incapacità da parte degli oppressi di conoscere i meccanismi che li costringono alla sottomissione4. Una possibilità che si può sondare, allora, a partire da una nuova forma di conricerca che, proprio alla luce dell’intellettualizzazione e del «farsi opera» del lavoro, perde ogni tratto artificiale, identificandosi sempre più con la messa in questione delle condizioni soggettive e oggettive della vita di chi tenta di proporre sprazzi di teoria critica.
Note
↩1 | Si tratta dell’espressione teorica del gruppo dei cosiddetti appellistes, divenuti molto noti in Francia soprattutto a seguito della pubblicazione di un potente ed evocativo pamphlet nel 2007: Comité Invisble, L’insurrection qui vient, La Fabrique, 2007. |
---|---|
↩2 | D. Gallo Lassere, Contre la loi travail et son monde, Eterotopia, 2016, p. 73. |
↩3 | Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), Mimesis,2014. |
↩4 | Cfr. J. Rancière, La leçon d’Althusser (1974), La Fabrique, 2011, p. 12 e pp. 111-148. |
condividi