Rêve Générale

Quando la sazietà del ricco non ti lascia dormire

Claire Fontaine, We are with you in the night, 2008
Claire Fontaine, We are with you in the night, 2008

si dorme ancora nel mondo
al mare sulla spiaggia
molto meno al cinema
ancora tanto in treno

sulle superfici di un conflitto.
[Lidia Riviello, Sonnologie]

L’appuntamento è per domani, domenica 15 maggio. La «Nuit Debout» si diffonde nelle piazze di Roma, Milano, Napoli, e in tante città francesi e di tutta Europa per immaginare e costruire insieme altre forme di vita. E non è un caso che la dimensione notturna e onirica dell’appuntamento sia legata a una lotta che riguarda il lavoro, ovvero la vita di ognuno di noi. Infatti nelle piazze parigine, impegnate nella lotta contro la «Loi Travail», ha fatto la sua comparsa uno striscione che invitava, dopo lo sciopero generale, al «Rêve Générale», al sogno collettivo da fare in piazza trasformata per la notte in una vera e propria «Dream Machine». Parigi si sa, inaugura spesso i tempi nuovi a venire, chissà allora che da Place de la République non si diffonda in tutta Europa un nuovo ciclo di lotte. Chissà che non riparta quella «Comune» accesa a Parigi dal jolie mai e dal suo slogan più famoso, e forse abusato, l’«immaginazione al potere». Uno slogan che sembra tornare oggi con il «Rêve Générale», anche se con uno passo indietro strategico e significativo, giacché lo scarto quarantennale che ci separa da quel decennio «comunardo» non è stato privo di conseguenze. Per capire perché il sogno sia oggi immediatamente legato al lavoro e al reddito e per cogliere la profondità di questo scarto e quindi la differenza del passo indietro, occorre partire da quel primo slogan e chiedersi che cosa significasse.

Al di là delle sue banalizzazioni, «l’immaginazione al potere» significava, nelle metropoli del capitalismo avanzato, ovvero della società del benessere affermatasi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sfuggire alla noia, così avrebbero detto le analisi dell’Internazionale Situazionista, di una quotidianità colonizzata dalla merce dove qualsiasi possibilità di «avventura» era ormai bandita, eliminata dalla programmazione della «sopravvivenza» e della morte quotidiana che si sostituiva alla vita. Ecco a cosa serviva quell’«immaginazione al potere», ad aprire in quelle metropoli lo spazio del «possibile» sorpassando in velocità quella società dello spettacolo dove il vero diventava «un momento del falso» 1. L’immaginazione era allora, soprattutto, quella del piccolo gruppo d’avanguardia come l’IS, ma presto la bellezza sarebbe scesa nelle strade per cercare la spiaggia sotto il selciato e poi sciogliersi, soprattutto nel movimento italiano del ’77, in una avanguardia di massa, come a suo tempo notarono giustamente Umberto Eco e Maurizio Calvesi 2.

Reve generale
Rêve Générale a Place de la République, Parigi 2016.

Il movimento del ’77, questa straordinaria avanguardia di massa, seppe intuire allora l’emergere di un vero e proprio mondo nuovo dalle macerie del Welfare State fatto a pezzi dal movimento stesso. Un mondo più libero, più astratto e immateriale, nel quale la «differenza» poteva proliferare senza essere più ricondotta all’unità dello Stato e alla disciplina della fabbrica, della famiglia ecc. Ma non seppe, al contempo, risolvere il rompicapo politico che quella transizione poneva, lasciando così campo aperto al neoliberismo, per l’occasione in versione socialista, che governò quella transizione sussumendo le conquiste del movimento e rovesciandole di segno. È così che sono nati gli anni Ottanta, ed è da questa vera e propria controrivoluzione che prende vita il postmoderno. Per rirpendere il controllo politico l’arma del capitale fu, è noto, la repressione, centinaia di anni di carcere comminati senza troppe preoccupazioni, televisioni private a colori sempre accese, piazze e strade pubbliche in bianco e nero e vuote se non per il buco di eroina nel quale affogava il dolore della sconfitta. Ecco, negli anni Ottanta occorreva disinnescare la potenza di quell’immaginazione collettiva che si era dispiegata nei Settanta, e per questo bisognava promuovere un grande sonno sociale. Non è un caso allora che proprio tra il ’79 e l’80 sia ambientato il romanzo di Paolo Volponi, Le mosche del capitale, con il suo famoso incipit:

«Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol. Ma dormono anche gli impianti, i forni, le conduttore, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche; gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segature. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici». 3

E sempre agli stessi anni risale il magnifico film di John Carpenter «Essi vivono» (1988), dove a essere svegli sono solo gli extraterrestri capitalisti, mentre gli esseri umani sono tenuti in uno stato di sonno continuo. Erano gli anni in cui da un lato il processo di «antropomorofosi» del Capitale non si era ancora completato, dall’altro occorreva reprimere e cancellare la memoria delle lotte trascorse, colonizzare i sogni. Ma una volta che il processo di sussunzione della vita sotto il Capitale si è perfezionato, quando è l’anima stessa a essere messa al lavoro, quando il valore si estrae dalle passioni e dagli affetti, dalla comunicazione, allora una nuova frontiera si apre e occorre andare all’assalto del sonno che diventa a sua volta l’ultima linea di resistenza.

Insomma, se l’ingiunzione del capitalismo degli anni Ottanta era «Dormite!», che al resto ci pensiamo noi, ora invece l’invito è alla veglia continua e alla riduzione progressiva del sonno. Perché il valore si estrate dalla vita stessa, da una vita perennemente connessa e mai in riposo, e controllare il ritmo circadiano diventa allora determinante per ridurre i tempi morti. Il sonno, una volta colonizzato lo si può anche eliminare e la vita può essere messa al lavoro nella sua interezza. Eccolo allora il passo indietro al quale si accennava all’inizio: se negli anni Sessanta e Settanta la questione, per le pratiche politiche e artistiche, era quella dell’immaginazione, ora ciò che è in questione è il motore stesso dell’immaginazione e quindi il sonno. Ecco perché quello del sonno diventa oggi un tema strategico, e intorno a esso si combatte una battaglia decisiva. Come del resto dimostrano filosofi come Alexei Penzin, critici d’arte come Jonathan Crary e poetesse come Lidia Riviello che al sonno hanno dedicato i loro lavori più recenti 4, o ancora un ricercatore militante come Nicola Valentino che ha lavorato sui sogni dei reclusi nel carcere di massima sicurezza di Palmi, un lavoro esposto anche alla Biennale di Venezia nel 2011 all’interno de «L’inadeguato / Lo Inadecuado / The Inadequate», il progetto di Dora Garcia per il Padiglione spagnolo 5 .

Danilo Correale, still from, No More Sleep No More, 240min. Full HD + audo, C.sy The Artist (960x540)
Danilo Correale, still from, No More Sleep No More, 2015

Ma a lavorare sulla dimensione politicamente strategica del sonno sono anche gli artisti, e qui penso soprattutto al lavoro di Danilo Correale (Napoli, 1982) che al sonno ha dedicato un ciclo di lavori il cui risultato è oggi riunito nel volume «No More Sleep No More» (Archive Books, 2015) e nell’omonimo video di 240 minuti recentemente esposto al Museion di Bolzano.

Domenico Antonio Mancini, Senza titolo (fucili resistenza) (2010) -Cartapesta Costituzione italiana, legno. Courtesy Galleria Lia Rumma Milano-Napoli
Domenico Antonio Mancini, Senza titolo (fucili resistenza) 2010.

E poiché il sonno, e quindi l’immaginazione stessa, sono diventate questioni immediatamente politiche in se stesse, è anche il rapporto tra arte e politica che oggi si configura in maniera inedita e particolarmente interessante. L’opera d’arte è tale perché è in se stessa politica. Penso qui al lavoro di Domenico Antonio Mancini (Napoli, 1980), in particolare ad «Altre Resistenze» alla Fondazione Morra Greco nel 2011, una serie di armi costruite in cartapesta con le pagine della Costituzione italiana, a ricordare come la democrazia sia fatta della stessa materia di quei fucili e di quelle pistole che l’hanno conquistata.

Gian Maria Tosatti, My dreams, they’ll never surrender 2014.
Gian Maria Tosatti, My dreams, they’ll never surrender 2014.

E penso a tutto il lavoro di Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) e in particolare a «My dreams, they’ll never surrender», un’installazione permanente realizzata nel 2014 a Castel Sant’Elmo di Napoli, un campo di grano costruito sottoterra nel cuore più buio della fortezza/prigione partenopea, e dedicato a quegli uomini che incarcerati per le loro idee politiche, dietro le sbarre hanno continuato a cambiare il mondo senza mai rinunciare a pensare. Un lavoro che esprime poeticamente tutta la potenza e la fragilità dell’immaginazione che per continuare a rigenerarsi ha bisogno di cure continue. Proprio come il sonno, motore dell’immaginazione, un sonno che bisogna curare e proteggere, e che può darsi in tutta la sua potenza solo in una dimensione collettiva, articolandosi in una «Dream Machine» generale.

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Ed ecco allora perché il sogno e il sonno delle piazze della Nuit Debout è direttamente legato alla lotta sul lavoro e sul reddito, perché il sonno, e quindi l’attività onirica, è quella dimensione che preserva il «possibile» contro l’«esistente», è quella dimensione che «resiste» lavorando sull’immaginario individuale e collettivo, aprendo praterie sconfinate al divenire del mondo. Perché solo curando la dimensione del possibile si può immaginare una exit strategy collettiva dalla cattura neoliberista. Ecco allora che il sonno oggi non può che essere un «Rêve Générale» che parta dalle piazze di tutta Europa per immaginare e costruire nuove forme di vita.

Note

Note
1G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 55.
2U. Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, 1983 e M. Calvesi, Avanguardia di massa, Feltrinelli, 1978.
3P. Volponi, Le mosche del capitale, Einaudi, 1989.
4A.Penzin, Rex Exsomnis. Sleep and Subjectivity in Capitalist Modernity, Hatje Cantz, 2012; J. Crary 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015; L. Riviello Sonnologie, Zona, 2016
5I sogni di Palmi, a cura di N. Valentino, Sensibili alle foglie, 2012; L’inadeguato / Lo Inadecuado / The Inadequate, a cura di D. Garcia, Sternberg Press, 2011.

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