Parodie dell’umano
Per una politica dell'antispecismo
Il pensiero antispecista sta forse attraversando una fase di profonda crisi di identità
Il pensiero antispecista, in un periodo in cui l’egemonia indiscussa del neoliberismo sembra perfettamente compatibile con una diffusione della compassione verso gli animali che non ha precedenti nella storia, sta forse attraversando una fase di profonda crisi di identità. Questa è, naturalmente, una buona notizia.
La prima «ondata», ascrivibile non senza qualche semplificazione alla filosofia morale anglosassone di matrice accademica (la cui connotazione bianca, maschile ed eterosessuale è evidentemente parte del problema), ha da tempo ceduto il passo a modalità di pensare la questione animale maggiormente orientate all’intersezionalità e al riconoscimento del carattere politico dello sfruttamento animale e delle pratiche di resistenza che ne costituiscono l’inevitabile rovescio. Non è forse casuale, per esempio, che Angela Davis abbia ritenuto che fosse giunto il momento, finalmente, di fare il proprio «coming out» vegan, esprimendo al tempo stesso il valore attuale della solidarietà interspecifica e le connotazioni ambigue che essa si portava appresso in una fase precedente: «Di solito non faccio accenno al fatto che sono vegana, ma la situazione si sta modificando… Penso che sia giunto il momento di parlarne in quanto parte della prospettiva rivoluzionaria: come possiamo riscoprire e sviluppare modalità più compassionevoli di relazione non solo con gli umani ma anche con le altre creature con cui condividiamo questo pianeta? Fare questo corrisponderebbe a sfidare l’intera impresa capitalistica di produzione alimentare»1.
Evidentemente, il problema dei rapporti fra specie eccede il tema del cibo, poiché investe il concetto stesso di «umanità» – e la foucaultiana scomparsa de «l’uomo» – e, molto concretamente, tutti i rapporti di produzione di beni nell’attuale assetto economico. Di più: porre un’attenzione particolare a tale ambito permette di illuminare con una luce diversa – e promettente – una serie di sfide lanciate a vario titolo dai movimenti anticapitalistici, da quella per la libertà di circolazione/migrazione, allo smantellamento del binarismo di genere, all’assunzione di posture non abiliste o non colonialiste nell’elaborazione critica radicale, per non fare che degli esempi.
L’ultimo libro di Massimo Filippi, L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri (ombre corte, 2016), costituisce un tentativo di elaborazione degli strumenti necessari per affrontare tali sfide. Se la lettura delle 120 pagine – dense e ricche di interstizi concettuali – restituisce argomenti e idee preziose per un antispecismo a venire, è probabilmente l’esposizione stessa della genealogia di tali strumenti a costituirne il vero interesse. La decostruzione dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, in fondo, è qualcosa che si fa, qualcosa che deve essere messo in atto, performato, più che acquisito una volta per tutte.
L’«uomo» non è una categoria biologica, ma «un costrutto che rivela tratti d’altro genere: è maschio, bianco, eterosessuale, adulto, normale, sano, proprietario e carnivoro»
Filippi, proseguendo un percorso di ricerca sul binarismo umano/animale intrapreso ormai da parecchi anni, muove da una considerazione che riposiziona il pensiero antispecista nell’ambito del politico: l’«uomo» non è una categoria biologica, ma «un costrutto che rivela tratti d’altro genere: è maschio, bianco, eterosessuale, adulto, normale, sano, proprietario e carnivoro». Questa serie di aggettivi, del resto, è stata precisamente l’oggetto dell’opera di svelamento dei rispettivi campi di interesse dei Critical Studies. Il passo successivo dell’autore, però, investe questi ultimi sollecitandoli a confrontarsi con un aspetto finora pressoché impensato. Se è vero che femminismo, pensiero queer, Disability Studies, studi postcoloniali – per non citare che alcune modalità di ricerca –, hanno saputo denaturalizzare l’«uomo» con tutti i suoi aggettivi non detti, mostrandone il carattere storico, è forse il caso di notare che essi non hanno potuto decostruire il sostantivo in sé, evidenziando ciò che ne ha permesso l’emergenza, l’elemento rimosso o forcluso, il margine, il negativo costituito dall’«animale» e, più concretamente, dai corpi sacrificabili. Il binarismo gerarchizzante fra umano e non umano è dunque un elemento fondativo delle società occidentali, che, in quanto dispositivo normalizzante, occulta il suo stesso essere frutto di una costruzione più che di un’essenza. Insomma, l’umano non ha bisogno di nominarsi, ed è forse per questo che la sua ombra, l’animale, è secondo Filippi il grande «non detto» nell’opera (antiumanista) di Foucault.
Appare chiaro ora in che cosa consista l’«invenzione della specie» e quale sia il riferimento teorico che permette di portarla alla luce. Il concetto di «performance di genere» sviluppato da Judith Butler viene qui messo in gioco per mostrare come la specie possa essere considerata una parodia: gli apparati ideologici che (ri)producono incessantemente soggetti e gerarchie, «possono materializzare corpi bianchi, maschi, eterosessuali, adulti, abili, normali e proprietari solo nel momento in cui li materializzano (anche) come umani e (quindi) come carnivori». L’idea di una performatività di specie può apparire come una forzatura problematica, soprattutto quando ad essere costruita non è l’umanità, ma l’animalità, poiché il radicamento della teoria butleriana nel doppio registro degli atti linguistici (umani) e del teatro – entrambi ancorati, appunto, alla «nostra» specie – ne fa uno strumento di difficile maneggiabilità in questa sorta di terreno instabile. E, tuttavia, è interessante considerare quella sorta di emendamento al lavoro di Butler che è il concetto, abbozzato da Preciado, di bio-drag. Così come la costruzione del genere si rivela un processo ben più materiale di quanto ci aspettassimo (Preciado discute, per esempio, la funzione centrale dell’uso di ormoni su larga scala – dalla pillola anticoncezionale agli estrogeni per la menopausa – nell’iscrizione di un preciso ideale di femminilità nei corpi delle donne)2, emerge in che modo il «testo» che definisce cosa sia una mucca, un pollo o un maiale «da reddito» viene iscritto nei corpi delle mucche, dei polli o dei maiali tramite le pratiche zootecniche di selezione genetica, di repressione delle forme di resistenza animale o di somministrazione di farmaci negli allevamenti.
Come disinnescare questo dispositivo, dunque? Filippi ripercorre il cammino delle varie «ondate» dell’antispecismo occidentale, con le rispettive risposte (e i rispettivi limiti), fino a giungere a quella più recente che ha visto opporre allo specismo e allo sfruttamento dei corpi animali il concetto di indistinzione3, inaugurando una stagione di posture esplicitamente anti-identitarie. Fra di esse, la proposta di Filippi si ispira alla riappropriazione politica dell’abietto che ha caratterizzato e caratterizza le prassi dei movimenti e delle soggettività queer, e fa della parodia un elemento decisivo. Quest’ultima costituisce, evidentemente, l’esercizio continuo di applicazione, ripetizione e citazione delle norme egemoniche, e produce incessantemente soggetti docili, conformi alla norma eterosessuale; ma è al tempo stesso uno strumento di possibile sovversione delle norme stesse: «parodia della parodia», nelle parole dell’autore. Poiché giocare la parodia contro la parodia non garantisce automaticamente che il percorso intrapreso sia liberatorio – il rischio di rafforzare la norma è sempre in agguato –, occorre conoscere bene le «regole del gioco». La prima parte del libro è dedicata alla descrizione del dispositivo sacrificale per far emergere la funzione e il campo di possibilità di quel luogo così nodale della contemporaneità che è il mattatoio nel suo legame inscindibile con la centralità del Soggetto. Un Soggetto che si rivela essere una «favola», il risultato di una «struttura sacrificale», seguendo gli spunti dell’ultimo Derrida, o di una vera e propria «norma sacrificale», per dirla con Zappino4, ma anche il risultato di operazioni molto concrete cui assistiamo seguendo Filippi in un viaggio attraverso le stanze in cui i corpi vengono letteralmente smembrati. Lo specismo, che nella prima letteratura sul tema – fedele all’idea di un soggetto autonomo di conoscenza – era un pregiudizio morale, è qui piuttosto una macchina, per certi versi proprio la macchina antropologica di Agamben rivista dopo aver riconosciuto la necessità di pensare l’impensato, quell’animale rimosso/forcluso da tutto il pensiero occidentale, compreso quello che appare come più radicale.
Nella seconda parte, la riterritorializzazione dei termini del potere viene messa in gioco performativamente. Filippi confeziona 26 casi clinici in cui il paziente altro non è che l’emergenza di soggetti multipli. Il materiale grezzo, offerto da un vasto repertorio filosofico, letterario e cinematografico, poggia in primo luogo su quattro fonti: le Biografie sessuali di von Krafft-Ebing, le Lezioni alla Salpêtrière di Charcot, L’invenzione dell’isteria di Didi-Huberman e La vita degli uomini infami di Foucault. I casi costruiti (o parodizzati?) mescolano figure letterarie, psicopatologiche, umane e animali provando a mettere in atto un’indistinzione generalizzata e spaesante: la pecora Dolly, Pierre Rivière, Daniza (l’orsa uccisa in Trentino nel 2014), l’Elizabeth Costello di Coetzee, e tanti casi clinici senza nome sono alcune delle soggettività che si intrecciano nel registro della relazione psichiatrica, del referto clinico o del rapporto di polizia.
La follia, dispositivo di esclusione e di controllo sociale moderno, diventa in un certo senso matrice di produzione di ibridi perturbanti e detassonomizzanti. La compresenza di figure umane e non umane non è la giustapposizione di attori collocati su diversi piani ontologici dalla biologia – le specie tradizionali, appunto – ma piuttosto un’alleanza sotterranea fra diverse subalternità, come quella fra le elefantesse ribelli Topsy e Big Mary, giustiziate rispettivamente con la corrente elettrica e per impiccagione, e Hadil Hashlamoun, giovane donna palestinese colpita e lasciata agonizzare a un posto di blocco nel 2015 a Hebron. Ognuno di questi immaginari clinici, se lo guardiamo da un’altra angolazione, costituisce, forse, una situazione, secondo la definizione «classica» dell’Internazionale Situazionista: «momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti»5. L’intera sezione del libro può essere allora letta come un detour, una deriva fra le scorie della produzione disciplinare medica e le soggettività residuali che ne infestano la storia, o – riprendendo la metafora che Halberstam utilizza per mostrare le peculiarità della low theory – un modello di elaborazione teorica in grado di «volare al di sotto del radar»6.
Quello di Filippi è, dunque, un tentativo di performare la sovversione del sostantivo «Uomo» forzando i limiti del pensiero e del linguaggio umani. Si tratta di un «tentativo probabilmente fallito» – avverte lo stesso autore
L’ultima parte è del resto una deriva in cui emergono alcune voci-non-voci – delle alghe, un uccello, un oltrecomatoso – che prendono parola a partire da ciò che resta del soggetto umano, ormai costretto a esporre il proprio percorso di autopoiesi poggiante sui cadaveri di chi è stat* espuls*, incorporat*, o semplicemente lasciat* indietro. Quello di Filippi è, dunque, un tentativo di performare la sovversione del sostantivo «Uomo» forzando i limiti del pensiero e del linguaggio umani. Si tratta di un «tentativo probabilmente fallito» – avverte lo stesso autore. Eppure, è proprio il fallimento a spalancare la porta a una dimensione in cui un ulteriore binarismo gerarchizzante raramente riconosciuto come tale, quello fra adult* e bambin*, viene messo in crisi: «il fallimento ci permette di smarcarci dalle norme punitive che disciplinano il comportamento e che regolano lo sviluppo umano fondato sull’obiettivo di farci passare da infanzie insubordinate a età adulte ordinate e prevedibili»7. È possibile leggere Halberstam alla luce del tentativo di Filippi, e viceversa.
Infatti, questa barriera, costruita intorno al concetto di maturità ed alla sua mistica, è oggetto della critica di Halberstam nella misura in cui costituisce un dispositivo di cattura del desiderio queer, fondamentale per ricondurre l’infanzia alla (apparentemente) rassicurante retorica del successo. Tale desiderio «immaturo», non-edipico, che non riconosce la superiorità gerarchica del successo sul fallimento, della conoscenza sull’ignoranza, del lavoro sul gioco, del bello sul brutto (dell’umano sul non umano?), benché trovi risonanza nell’immagine deleuziana del neonato richiamata dallo stesso Filippi, è tutt’altro che una figura idealizzata. Intrinsecamente anarchico, esso è per Halberstam l’unica risposta agli imperativi di un capitalismo caratterizzato dalla crisi generalizzata. Di fronte alla incessante sollecitazione a «farsi da sé», ad essere responsabili del proprio destino, ad intraprendere percorsi di felicità e di ascesa sociale il cui accesso è regolato secondo differenziali di classe, razza, genere non dichiarati dalla retorica del positive thinking, una possibile opzione è quella di coltivare il fallimento, rifiutarsi di produrre, scegliere di «non lasciare indietro nessuno».
Questa scelta – quasi una strada obbligata di fronte alla crisi – è suggerita da quelle soggettività marginali che hanno saputo farne un’arte: queer, bambin* e – possiamo aggiungere – animali. Guardare lo sviluppo, sociale o individuale, senza cedere all’idealizzazione dell’Adulto permette di smantellare le mitologie del Bambino innocente e intrinsecamente buono e rompendo con la logica del successo. (Non è un caso che per Halberstam l’ingiunzione al successo sia anche ingiunzione alla successione, un imperativo al tempo stesso eterosessuale e antropocentrico). I desideri infantili – «non-sentimentali, amorali, antiteleologici» – non si piegano né all’idealizzazione riproduttivista né al rifiuto nichilistico di quest’ultima, ma resistono alla pressione delle opzioni binarie suggerite dalla matrice dell’umano paradigmatico, adulto e non-animale. Così, nella scrittura bestiale di Filippi e in quella «immatura» di Halberstam, «i principi si trasformano in rospi […] e gli orchi si rifiutano di diventare belli»8.
Note
↩1 | On Revolution: A Conversation Between Grace Lee Boggs and Angela Davis, 2 Marzo 2012, Berkeley, Università della California. |
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↩2 | Paul B. Preciado, Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, trad. it. di E. Rafanelli Fandango, 2015. |
↩3 | Cfr. per es. Matthew Calarco, Essere-per-la-carne: antropocentrismo, indistinzione e veganismo, in Liberazioni, n. 15, inverno 2013. |
↩4 | La nozione di «norma sacrificale» è discussa da Federico Zappino in relazione alla norma eterosessuale in F. Zappino, Norma sacrificale / Norma eterosessuale, in M. Filippi e M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, Mimesis, 2015. |
↩5 | Internazionale Situazionista 1958-69, n. 1, giugno 1958, Nautilus, 1994. |
↩6 | Judith Halberstam, The Queer Art of Failure, Duke University Press, 2011. |
↩7 | Ibidem. |
↩8 | Ibidem. |
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