Prigione, sostantivo singolare

The Prisoner di Peter Brook

Fiamma Montezemolo, One thing and Another, 2010, courtesy of the artist_1
Fiamma Montezemolo, One thing and Another, 2010 - Courtesy of the artist.

Nella solita scarnezza della scena irrompe la potente essenzialità di Peter Brook. Ci regala come sempre un lavoro già in stato di avanzamento. Presuppone un pubblico già allenato alle priorità della vita. Immagina che a guardarlo siano donne e uomini che usano la vita per coglierne l’essenza al di là delle informazioni inutili, le convinzioni errate, le false credenze.

Spazza via in una discarica i parametri del successo nel post post-moderno, il passato tribale dell’Africa comincia a non avere tempo, perché in quel giro danzano i temi che nascono al nostro primo respiro. All’inizio di questa ora intensa una donna, che si «sentiva piena di oggetti inutili» parte alla ricerca di una storia. A spingerla il desiderio di ritrovare quel momento perfetto, perso nei giorni d’infanzia quando in un bosco sentivi di essere solo lì, né nel futuro né nel passato, di saper godere di quell’attimo, di sentire la vita con il suo carico di bellezza e sorriderne.

Diventerà il suo viaggio, il nostro viaggio di spettatori finalmente spogliati dal superfluo, un’indagine sulla questione centrale: è buono o cattivo l’uomo? Tutto comincia nell’imbattersi nella storia di una famiglia africana, storia di pena e colpa, storia di amore, storia di riparazione, storia di riscatto. Un uomo alla quale lei chiede cosa c’è veramente, cos’è questo «something else» che sentiamo come una luce intensa o fioca, ma sempre presente. Lui gli risponde di andare in Africa dove sulla collina del villaggio troverà un uomo che guarda una prigione. Quell’uomo è Mavuso, innamorato di sua sorella, uccide il padre che giace a letto con lei. Per lui comincia il cammino dentro di sé per comprendere colpe e ragioni, trovare perdono e ritrovare la possibilità di tornare a vivere.

I nostri giorni sono giorni nefasti in cui bisogna provare a difendere quello che era conquistato e al contempo non perdere lo slancio di una progettazione onirica. Gli anni in cui l’asfissiante geometria della famiglia era assunta come un dato, sono un dato, ritornano le donne che stirano come modello per l’uomo che ritorna a casa dal lavoro. È difficile in questo momento innestare in un atto drammatico il tema dell’incesto, che non è centrale se non come il detonatore di riflessioni molteplici. Ed è anche superato, assorbito da una traiettoria della vita che si ha il coraggio di comprendere. Al nipote omicida che gli chiede perché avesse accettato quello scambio di corpi tra un padre e una figlia, lo zio risponde di essersi dovuto arrendere «di fronte a due corpi che cercavano l’amore».

Per Mavuso la pena è corporale per prima cosa, ma la sorella Nadia, di cui è innamorato, lo guarisce con i riti tribali, misti di canto e affetto che guarisce. Allora lo portano in prigione. Lui è the prisoner, statuto istituzionale del reo condannato. Pasti, cella di isolamento per vent’anni, guardie. Ma lo zio patteggia col giudice una pena diversa. Lo porta nella collina di fronte al carcere nella natura: è da qui che dovrà guardare la prigione fino a quando la prigione dentro se stesso non verrà cancellata. Potrà accadere? Si chiede lo zio. Potrà ritornare al mondo senza il suo peso?

Noi che veniamo dalla sconcertante parresia sulle procedure di detenzione buttate al centro della nostra coscienza da Stefano Cucchi. Ecco, Brook parla a noi, mette l’uomo allo specchio con l’uomo, gli dà la possibilità di scappare

«La prigione avrebbe solo nutrito la tua natura furiosa senza permetterti di riflettere sulle tue tenebre interiori». Esplode qui la sovversione di Brook. Noi che stentiamo a ricordare che esiste un principio di rieducazione della pena che, se applicato, forse renderebbe impossibili da esistere le norme sul carcere. Noi che fatichiamo a dire che la vendetta su un corpo è solo la brutalità di una giustizia superficiale. Noi che veniamo dalla sconcertante parresia sulle procedure di detenzione buttate al centro della nostra coscienza da Stefano Cucchi. Ecco, Brook parla a noi, mette l’uomo allo specchio con l’uomo, gli dà la possibilità di scappare. Ma non si può fuggire da se stessi, occorre un lavoro, il silenzio per comprendere che è continua la lotta tra una parte illuminata e una parte oscura. Che questa lotta non è solo al di fuori di noi, ma ci riguarda.

La donna arriva a quella prigione. Mavuso ha fatto amicizia con l’uomo del villaggio, il tagliatore di testa. Guarda ogni giorno la sua prigione. La donna non entra nel suo silenzio, ne comprende il senso, ritorna indietro, aspetta che Mavuso trovi il tempo e il modo di distruggere la sua prigione interiore. Nadia è lontana, a studiare medicina per aiutare gli altri. Lei ha trovato il modo di trasformare il veleno in medicina.

Mavuso non cede alla durezza della sua lotta nemmeno quando lei gli chiede di lasciarsi tutto alle spalle e aiutarle a crescere la bambina nata dall’ultimo amplesso avuto con il padre, prima che fosse ucciso. Mavuso non può, vorrebbe ma non può. Ci dice che deve restare (e in silenzio che non ci si può mentire, la verità la può dare solo un cuore che è sciolto).

Il villaggio non ha più lavoro, la prigione non può più esistere, viene demolita. Ma è solo il mistico effetto della liberazione di Mavuso a distruggerla. Una liberazione che nella philia tra Mavuso e il capo villaggio trova il suo perno: la riscoperta dell’umanità, il fiore che nasce nel deserto che, guardando a questo presente, non è una metafora.

 

 

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