Ragione, delirio

Artaud e la verbalizzazione dell’inconscio

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Georges Pastier, Antonin Artaud, Ivry (1947). Patty Smith Collection.

Pubblichiamo qui la Prefazione di Igor Pelgreffi al volume di Serge Margel, «Alienazione. Antonin Artaud. Le geneaologie ibride» (traduzione italiana di Eva Meole), edito recentemente da Astragali Edizioni (2023). Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

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Non fermeremo mai la vita. Ma usciremo almeno nella pianura, intendo nel terrapieno del dopo battaglia. Per annusare i ricordi della lotta? Mai. Ferirsi all’infinito? Raschiare continuamente la piaga. Lacerare infinitamente la ferita nella quale si è formata la piaga? Forse!
Antonin Artaud

Alienazione: scrittura del mondo

Per quali ragioni dovremmo essere interessati da Artaud, in questo momento storico-culturale? Un momento nel quale sono sempre più rare le voci capaci di una radicale contestazione del presente, e nel quale inesorabilmente ci scopriamo oggetti (soggetti) di consumo, mossi da un’inconsapevole aderenza automatica, senza concrete resistenze, agli schemi esistenti? Il libro di Serge Margel, Alienazione. Antonin Artaud. Le genealogie ibride, si colloca forse nel solco di tale domanda: nel carattere dell’alienazione di Artaud, per come essa è descritta da Margel, troviamo qualcosa di profondamente interno a quegli stessi schemi e al contempo una capacità di metterli in questione. Qualcosa che ha a che vedere con il delirio. Vi è, da un lato, il delirio che la scrittura di Artaud esprime. Questa scrittura, se vogliamo, è l’ovvietà stessa di Artaud. Si prendano i versi di Per farla finita col giudizio di dio:

Perché bisogna finalmente decidersi/ a castrarlo, l’uomo./ – Come?/ Come?/ Da qualsiasi parte la si prenda, lei è pazzo/ ma pazzo da legare./ – Facendolo passare ancora, per l’ultima volta/ sul tavolo d’autopsia per rifargli l’anatomia./ Dico, per rifargli l’anatomia./ L’uomo è malato perché è mal costruito./ Bisogna decidersi a metterlo a nudo per grattargli/ via questa piattola che lo rode mortalmente,/ dio,/ e con dio/ i suoi organi,/ Legatemi pure se lo volete,/ ma non c’è nulla che sia più inutile di un organo./ Quando gli avrete fatto un corpo senza organi,/ l’avrete liberato da tutti gli automatismi/ e restituito alla sua vera libertà./ Allora gli reinsegnerete a danzare alla rovescia/ come nel delirio del bal musette/ e questo rovescio sarà il suo vero diritto1.

Ma vi è, dall’altro lato, un lato esterno (solo apparentemente) al testo di Artaud, l’azione di un certo delirio che si esprime, più sottilmente, nell’ordine sedicente razionale del mondo tecno-amministrato odierno, come in parallelo ad esso: una dissonanza organica alla (falsa) armonia. Nell’epoca della grande organizzazione efficientistica del mondo, c’è ancora spazio per il delirio? L’ampiamento della governarmenalità, degli obblighi di “rendicontazione” sistematica e anticipata rispetto all’azione, della capitalizzazione di ogni lato dell’esistente, mostrano all’opera sulle nostre vite una forma di razionalizzazione senza precedenti. Tuttavia, ed è questo il nodo della questione, percepiamo anche il rovescio dell’apollineo.

La percezione continuamente si sdoppia: accanto a questo dispositivo di metaspeculazione global-ordinatrice percepiamo la sua produzione di assurdità. Come un basso continuo, intendiamo confusamente lo sfibrante delirio della ragione strumentale, con la sua produzione discorsiva auto-assolvente pronta a diminuire lo iato tra la “razionalità” del progetto e il costante girare a vuoto – l’essere in folle – di quello stesso progetto. Detto diversamente: in ogni manifestazione del discours, nel senso foucaultiano, si avverte l’eco del refrain delirante del “tutto va bene, sono solo effetti collaterali”. In fondo, è la nuova struttura della legge: tanto più ci pare assurda la piega che prende il nostro mondo storico-sociale, quanto più comprendiamo che a delirare è la ragione stessa. Nulla di particolarmente nuovo rispetto al canone della dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno.

Proprio questa strana contemporaneità, questa percezione simultanea di una massima razionalità e del suo spettro, può spiegare il senso di una operazione di recupero di Artaud: si tratta forse di risintonizzarsi, con tutte le difficoltà del “caso”, con le lunghezze d’onda della sua scrittura. Si tratta cioè di liberare nuovamente gli effetti di risonanza – corporei prima ancora che teoretici – tra la struttura razional-delirante del mondo odierno e la scrittura artaudiana. La corporeità gioca, in questo recupero, un ruolo decisivo. Come suggerisce Ubaldo Fadini, «il materialismo radicale e singolare di Antonin Artaud è talmente potente da risolvere la dialettica storico-naturale nella dimensione fondamentalmente incognita della corporeità»2. L’isomorfismo tra forma concreto-corporea da un lato e struttura globale dall’altro, merita di essere quantomeno considerato, se non coltivato (in una forma estrema, limite, di cultura), a patto di pensarlo nel suo irrefrenabile o corporeo ri-formarsi: è quanto, precisamente, traspare nella questione della sofferenza produttiva di Artaud, cioè nella determinazione del carattere di corresponsabilità tra la sua opera e la società, nel loro delirare reciproco e reversibile.

Delirio e filosofia

La questione del delirio non è nuova per la filosofia, quantomeno in autori che hanno senza dubbio molto contato nella formazione intellettuale di Margel, come Deleuze e Derrida, e ai quali conviene fare un rapido accenno, anche per la circostanza che entrambi hanno fornito letture originali dell’opera di Artaud. Deleuze pone al centro de L’anti-Edipo la questione del délir, che non è più l’espressione patologica soltanto irrazionale di un sintomo familiale, ma la manifestazione più generale dei rapporti sociali ed economici, la cui dimensione più propria – in quanto dispositivo smascherante – è quella storico-mondiale. In quanto struttura intensiva che sottotraccia orienta le tensioni psichiche e, in ultimo, la strutturazione del linguaggio stesso, in un certo senso il delirare ci indica la strada, o in termini deleuziani, la via di fuga: perdere se stessi nel momento in cui si produce discorso. Atto esemplarmente de-soggettivante o di sottrazione, delirare significa divenire indifferenti, disinnescandole, alle ragioni che ci identificano come soggetti, pur muovendosi, come in una fuga, nel solco stesso dell’assoggettamento.

Anche Artaud rientra perfettamente in questa visione, compreso il punto chiave che qui ci interessa: un utilizzo strettamente intensivo del linguaggio, dove enunciazione e contro-enunciazione convivono produttivamente. Si comprende, insomma, come questo riferimento deleuziano al délir coinvolga coerentemente, dalla sua prospettiva, sia la critica al “sistema” che la visione positiva della pratica artistica, nel senso della letteratura minore o del quadro teorico che emerge in Critica e clinica3. Ogni esperienza letteraria, ma anche artistica in generale, è tale solo se attraversata da una scrittura capace di delirare: «una fuga è una specie di delirio. Delirare significa esattamente uscire dal solco […] scrivere vuol dire tracciare delle linee di fuga che non sono immaginarie e che uno si trova addirittura forzato a seguire»4.

Anche Derrida, negli anni Novanta particolarmente, si soffermava spesso sulla forma disconnessa (l’out-of-joint di shakespeariana memoria) del mondo storico-sociale, così come essa appare nel momento della sua massima organizzazione razionale, in lavori come Spettri di Marx, Politiche dell’amicizia o Nietzsche e la macchina5. Sul tema di questa spettrale coesistenza reciproca di razionalità e assurdo, ha spesso sottolineato il ruolo decisivo di Nietzsche, figura “folle” capace tuttavia di mostrare, come nessuno, la complicità di Ragione e follia nella costituzione stessa del pensiero occidentale, di cui la forma efficientista e standardizzante attuale risulta essere sintomo. Soltanto uno stile come quello di Nietzsche (ma analoghe considerazioni potrebbero essere fatte a proposito di Artaud) così sensibile alla giunzione tra paradosso e “verità del corpo”, tra il carattere di confessione involontaria della filosofia e produzione stilistico-antropologica, consentirebbe di mettere in atto un procedimento auto-critico della ragione capace al contempo di preservare la priorità del corpo, cioè di quell’elemento concreto del processo di razionalizzazione che permette di mettere in folle la macchina filosofica e illuministico-industriale del mondo6, grazie ad esempio alla sua scrittura antimetafisica: «Nietzsche ha scritto ciò che ha scritto. Ha scritto che la scrittura – la sua anzitutto – non è soggetta originariamente al logos ed alla verità»7.

Sia in Deleuze che in Derrida, il delirio diviene opzione non solo patologica o negativa, ma al contrario necessaria sul piano teorico, benché ciò avvenga secondo due strategie differenti. Deleuze punta sull’idea di un’intensificazione (una sottrazione continuista) dell’apparato “di controllo” linguistico che ci determina, fluidificandolo e permanendo nell’automatismo generale della frase (anche in senso musicale): ci troviamo entro certi limiti forzati a seguire il delirio, ed è questa la condizione politica fondamentale per tentare di modificare il solco in cui siamo “automatizzati”, in un senso morfogenetico (produzione di novità per eccesso interno, per saturazione logico-linguistica). Derrida punta invece sull’idea che il meccanismo linguistico occidentale, la sintassi e la grammatica stessa, possa e debba essere spinto sino ai suoi limiti, sino alla sua messa in folle. Qualcosa, a quel punto, potrà girare a vuoto, aprendo la macchina al suo stesso scacco: all’improduttività. In Deleuze c’è la continuità intra-immanentista; in Derrida c’è – anche – un momento di interruzione nella macchina hegeliana, un intravederne le fenditure.

È importante allora notare come in un certo modo, che sta al lettore cogliere tra le righe, Margel tenti di pensare a una combinazione di questi due schemi (delirio come fuga interna e delirio come interruzione del flusso), che divengono schemi di lettura del testo artaudiano nel suo complesso. Occorre però ritornare ad Artaud: un conto è filosofare sul délir, un altro conto è una pratica di scrittura che si vuole direttamente in rapporto col delirio, scoprendosi “consustanziale” ad esso, nel senso di un’esperienza in cui il linguaggio tende ad esaurirsi, bruciarsi, incenerirsi talvolta. Il linguaggio, nella scrittura-espressione artaudiana, si offre quale elemento di scambio, o di usura, nella speculazione maggiore cui è soggetto e a cui simultaneamente resiste, opponendo-si.

Verbalizzare l’inconscio

Quella di Artaud è una scrittura “del” corpo. Il genitivo assume qui un doppio carattere, oggettivo e soggettivo e, in questo senso, il corpo scrive/delira producendo una scrittura irricevibile (per la filosofia): «Abbandona la tua lingua Paolo Uccello, abbandona la tua lingua, la mia lingua, la mia lingua, merda, chi parla, dove sei? Altro, altro. Spirito, Spirito, fuoco, lingue di fuoco, fuoco, mangia, mangia la tua lingua, vecchio cane, mangia la sua lingua, mangia, ecc. Mi strappo la lingua»8. Tale dimensione “delirante” viene posta come centro-logico ma anche come “materia” del lavoro di Margel, capace di raffinata auscultazione dei testi classici così come dei materiali tratti dalle Œuvres, tra cui un ampio insieme di lettere, quaderni, appunti.

Qualcosa di magico (tema chiave artaudiano) o, se si vuole, dell’ordine del non-prevedibile, accade dunque nella scrittura. Si badi: non “nel testo”, né “nel pensiero”, bensì nella prassi scrittoria. Ma occorre intendersi: la scrittura di Artaud, sede e scorrimento di una stravolta lucidità poetica, permane segretamente, cioè magicamente, in una relazione critica alla razionalità, annunciando forse una razionalità differente. Non cerchiamo pertanto in Artaud una risposta alla domanda “chi scrive?” (fosse anche una risposta negativa, di de-soggettivazione assoluta: folle) e neppure alla domanda “che cosa scrive?”. Cerchiamo, piuttosto, la morfologia dinamica di un superamento dell’alternativa chi/che cosa (soggetto/oggetto): in Artaud, è il corpo vivente che scrive. Che cosa significa tutto questo? Innanzitutto che il corpo scrive, probabilmente (ma non lo sappiamo), se stesso. Artaud simultaneamente rappresenta ed è il corpo che scrive, cioè l’anarchica forma auto-grafica di cui non sappiamo niente. Non possiamo saperlo e, in un certo senso, in Artaud non troveremo risposte. Il dispositivo stesso della “domanda” entra in risonanza e “in folle”, nei testi artaudiani: «Artaud non ha mai cercato di rispondere alle domande che si è posto e neppure a quelle che gli sono state poste. Non ha mai voluto dire cosa lo interessava, preoccupava, ossessionava. Nessuna risposta, né dialogo, né scambio»9. Leggendo, ritroviamo costantemente, ipnotica ripetizione, un campo di percezione: l’intransitività di una scrittura che, in certi momenti, vuole dire soltanto se stessa, come detto, stressando il linguaggio e sfibrando la logica. Del resto, Margel inscrive Artaud nella ristretta cerchia di coloro che hanno assegnato al non-savoir una posizione centrale nel pensiero (tra questi, Bataille e Blanchot, i riferimenti ai quali risuonano spesso nelle pagine di Alienazione). Il non-savoir non è un vuoto nichilistico, ma un centro indeterminato produttivo di altra scrittura: di scrittura “altra” e di savoir “altro”. Dunque, che cosa accade “in” Artaud, in quella sorta «di irrealtà non finzionale»10 che è il suo autobiografismo senza regola, cioè uno «sperdimento della realtà»11? Non possiamo dirlo, né descriverlo, neppure per metafora. La Ragione non può dirlo, e tuttavia qualcosa accade, succede, passa (come nel francese passer): accade che l’inconscio verbalizza se stesso.

Cosa significa che l’inconscio, un inconscio per così dire corporeo, “si” verbalizza? Di nuovo: non possiamo saperlo, ma possiamo leggerlo, soggetti a quella pressione autobiografica sui generis, tanto più efficace quanto più essa sfiora il delirio, che caratterizza molte delle pagine artaudiane utilizzate in Alienazione. Pagine che divengono quasi una necessità, affinché il discorso di Margel (che è di critica filosofica, in fondo) possa sostenersi. In questo, per inciso, Margel sembra dirci quale dovrebbe essere la qualità della materia di cui dovrebbe essere fatto ogni discorso critico, affinché esso possa funzionare e non girare a vuoto (in folle) su se stesso. La critica necessita di una materia non così lontana da quella che ci offre la scrittura di Artaud: una sostanza incerta, illogica, in cui il nostro sapere vacilla, ma tuttavia non senza ragioni, in quanto il corpo parla. Posizione provocatoria e sul filo stesso del delirio, ma non senza senso.

L’inconscio verbalizza se stesso: questo ci pare il punto più delicato, implicitamente messo a valore nello studio di Margel. Evidentemente, per quanto appena ricordato, il valore dell’inconscio artaudiano è un valore singolare e anche sociale e storico, nel senso in cui, ad esempio in Deleuze, «il delirio è la matrice in generale di ogni investimento sociale inconscio»12. L’inconscio scrive se stesso: che cos’è questa, se non l’indeterminazione pura al lavoro? Si tratta forse di un lavoro del corpo, lavoro che è senza senso. Affiora qui, ma senza mai affermarsi sul piano tetico, la figura di un medium, un mediatore evanescente in cui il delirare gioca un proprio ruolo, tra una certa enigmatica singolarità – quella dell’artista folle – e una certa sua origine sociale che produce l’inconscio stesso, fatta di investimenti e disinvestimenti, in una coesistenza reciproca assai problematica (è il problema critico di Artaud, in tutta la sua fecondità per noi) tra l’esclusione sociale dell’individuazione repressiva, e la derivazione sociale delle forme inconsce.

Il corpo, la forma, la vita

Queste dinamiche, si diceva, presuppongono la centralità del corpo, sia come figura concettuale che, simultaneamente, del corpo “di” Artaud stesso. Per il lettore di Artaud è piuttosto ovvio questo riferimento doppio, e Alienazione non fa che riconfermare tale protocollo di lettura inquadrando il lavoro di Artaud proprio nel margine invisibile tra critica e clinica. Ma il suo stare tra critica e clinica, che altro non è che un continuo de-situarsi in questo margine poroso, indica anche una nostra necessità storico-esistenziale, nel terzo millennio, cioè quell’ambiguità data dal delirio razionale del mondo odierno, ma anche nel campo opaco e ambiguo del “provare a venirne fuori”, restandovi dentro. Vivendo.

Artaud si situa, cioè vive-e-scrive, esattamente tra queste due dimensioni: sofferenza e distacco; alienazione improduttiva e alienazione produttiva. Lo ha fatto da sempre, in tutta l’opera, forse in modo più manifesto (un modo paradossalmente teatrale, infine?) negli ultimi dieci-quindici anni della sua produzione. Oggi, almeno a giudicare da recenti studi, anche italiani, fra cui L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud13, e Aporie d’Artaud. Crudeltà, anima, danza14, pare che lo si possa intendere (lo si possa udire, nel suo grido inarticolato) come sospeso tra due riferimenti, cioè ancora una volta tra una lettura che potrebbe fare capo a quella delle pagine derridiane ne La scrittura e la differenza, e quella più aderente al passo del Deleuze che, un po’ ovunque, instancabilmente sottolinea le conseguenze filosofiche del corpo senza organi. Perché, detto della centralità del corpo, va anche detto che Artaud tenta di auto-dissolvere il corpo stesso, di superarlo in vista di un’enigmatica corporeità generale e liberata ma mantenendo, quantomeno come valore del sintomo, la singolarità di quel corpo che urla e geme, in ciò esprimendo-secernendo scrittura. Come se Artaud potesse spiazzare, in un colpo solo, anche quelle due posizioni mediante le quali tendenzialmente – nel vizio filosofico – viene letto (la crudeltà come valore, nonostante tutto, ancora dialettico; e quello più monista-deleuziano del corpo totale)15 e andare oltre, configurandosi la sua esperienza come altro rispetto anche alla provvisoria forma assunta.

Ecco quindi se non spiegato, quantomeno richiamato, il valore della contraddizione di Artaud, nel suo tentativo di «articolare la questione del corpo, del proprio corpo, e del lavoro della scrittura, la scrittura di sé o della propria vita»16, ma sempre fedele a un livello specifico del corpo: quello di un corpo che incarna la contraddizione. In primis, la contraddizione del discorso che tenta di pensarlo. Ritorna così, forse inatteso, un periplo di questioni filosofiche, anche molto classiche: esistono i corpi, al plurale? Vi sono, in altri termini, divisioni tra corpi? Oppure tale separazione (la partizione stessa, la parte, la proprietà, anche come proprietà privata del nostro stesso corpo) è inessenziale, in quanto si rivela come l’illusione fondamentale capitalistica (che vi sia realmente qualcosa come “il privato”), come l’ovvietà che andrebbe messa in questione da una critica che sia, appunto, sempre ed anche incorporata in una clinica? Una clinica che è esistenziale in quanto storica e storica in quanto esistenziale?

Scrive Margel, sintetizzando queste posizioni eccedenti/eccessive di Artaud, che «il corpo sarà contemporaneamente legato e slegato, attaccato e staccato, incatenato e separato. È la legge sistematica del susseguirsi dei corpi, di un possibile divenire del corpo superato, o della formazione di un corpo ibrido»17. Ricapitoliamo. Nel Welt di Artaud esistono solo corporeità ibride: corpi irriducibilmente singolari e corpi, come direbbe Deleuze, pensabili solo in quanto relazioni di intensità.

È questa una contraddizione? È una contraddizione. Ma è, appunto, la contraddizione motrice “in” Artaud, prima ancora che “di” Artaud. Un’autocontraddizione performativa: che scrive se stessa mettendo perennemente in questione lo stato, innanzitutto il proprio stato, che non è già più singolare ma diviene, proprio grazie allo stravolgimento operato da Artaud sul discorso e sul linguaggio, lo stato di cose esistente storico e materiale, cioè lo stato economico e politico in cui noi tutti viviamo. E questo in quanto, con una formula, in Artaud l’inconscio è sempre sociale e corporeo. Ed è questa doppia dimensione che andrà tenuta a mente.

Qual è il punto? È che tale gesto, anche teatrale evidentemente, è un gesto che non “si” risolve, ma che semmai è risolto: sono le condizioni, il contorno/contesto vitale, a risolvere la scena e a farlo nella vita e nella scrittura, assieme. Come sottolinea Fadini, «prima di tutto viene la materia, ciò che si esprime anche nella combinazione della gestualità con la mobilità insonne del pensiero: espressione, creazione, divenire»18. Questo richiamo alla materia (e all’insonnia) indica il carattere anche politico della produzione scritta, dove «il linguaggio artaudiano è da cogliersi come quel getto che collega appunto il gesto e il pensiero»19, in quel che corrisponde a quanto si è designato con “scrittura del corpo”. Materia è forse un altro nome della complessità racchiusa nel tema del délir come produzione fisica e intellettuale: parola, gesto, corporeità.

Concepire il corpo a partire da tale paradigma complesso, comporta il ripensamento anche del tema (così à la page…) della relazione tra forma e vita. Non possiamo ora addentrarci in tale tematica, ma il lettore ne troverà numerosi esempi nelle pagine di Alienazione. Prendiamo il concetto di stratificazione dell’essere. Che cosa intende Artaud con stratificazione, se non un rimando a accumuli e sovrapposizioni provvisori, forme mobili in quanto da sempre morfogeneticamente già altro da se stesse (cioè dalla fissità di un’inseità, fosse anche una fissità soltanto fisica o fisiologica)? A partire da qui, Artaud si connette non al concetto di bios ma a quello, più raffinato, di stato di vita, il che gli permette di ri-formare un pensiero del corpo nella sua difficoltà specifica, che è appunto quella di capire se esista la separazione intra-corporale: «Sarebbe vano considerare i corpi come organismi impermeabili e fissi. Non c’è materia, ci sono solo stratificazioni provvisorie di stati di vita»20.

Si giunge così alla questione teorica di uno stare-tra Derrida e Deleuze: che cos’è la vita? La vita non è né segno, né immanenza assoluta. Piuttosto, essa va intesa come metamorfosi. Stato di vita: essere e divenire. Assieme. In Artaud, cioè, la vita è cambiare forma, alterazione dello stato (di vita): apertura alla novità formale, che è sempre novità relativa, in una sorta di ripetizione differente dell’essere. Si comprende allora come la libertà del corpo vivente, anche quando Artaud inneggia alla liberazione più violenta o scandalosa, sarà tale soltanto se essa sarà novità relativa: una novità che, prima di ogni cosa, inerisce i suoi stessi vincoli (corporei, ma anche economici, sociali o politici). È dunque in questo senso che la corporeità, ovvero l’istanza che presiede alla scrittura artaudiana, diviene il tramite tra la singolarità assoluta e la relazione col mondo sociale. Lo è senza alcuna pretesa di stabilizzazione pre-formata degli stati di vita: lasciando sul campo qualche germe di virtualità, di aperture a un ri-formare il pensiero. Tale ri-formare non potrà che accadere al termine della guerra con se stesso, della battaglia con il sé, prima ancora che con l’io. La metamorfosi accade solo nei solchi del campo di battaglia che è il nostro stesso corpo, quantomeno quel campo di battaglia che è stato Artaud: «Non fermeremo mai la vita. Ma usciremo almeno nella pianura, intendo nel terrapieno del dopo battaglia. Per annusare i ricordi della lotta? Mai. Ferirsi all’infinito? Raschiare continuamente la piaga. Lacerare infinitamente la ferita nella quale si è formata la piaga? Forse!»21.

Dispositivo e contro-dispositivo

Tutto quanto detto, entra in rapporto – viene messo a valore, pur all’interno della strategia complessa e quasi-nietzschiana di demistificazione dei valori – con la questione del dispositivo sociale di soggettivazione, diremmo oggi in termini foucaultiani, cioè quel motivo, altrettanto fortemente artaudiano di quello della scrittura patetico-ematica, de «l’uomo è malato perché è mal costruito»22. Secondo Artaud, difatti, se esiste qualcosa come l’uomo, è perché la società ha da sempre costretto la corporeità nella camicia di forza del disciplinamento, del nome, dell’auto-costrizione. Margel, tramite il Foucault di Nietzsche, la genealogia, la storia, intende quindi leggere l’archeologia del non-sapere artaudiano tramite un passo genealogico. Una genealogia, però, da intendere essenzialmente come «dissociazione sistematica della nostra identità»23. È da tali dinamiche, da questa archeologia, che si può comprendere appieno il valore anche sociale e culturale dell’inconscio che scrive se stesso, considerandolo come la forma operante della genealogia colta nell’«articolazione del corpo e della storia»24.

Potremmo anche dire che uno dei meriti della riflessione di Margel è quello di rimettere in campo un tentativo di usare assieme i tre “grandi” del pensiero francese poststrutturalista (Deleuze, Derrida e Foucault), in una chiave critica, proprio riproponendo Artaud come elemento paradossalmente unificante. Il riferimento a Foucault, per esempio, mostra in modo consistente come il dispositivo artaudiano, una volta che ne esploriamo la “genealogia”, sia in fondo un contro-dispositivo, una macchina corporea nascente in controfase alla macchina del condizionamento sociopsichico. Se ne avverte la vicinanza non solo sul piano del concetto, ma anche su quello dei plessi semantici: il non essere nato; il suicidio (dato dalla società); la questione dell’induzione di comportamenti auto-inflitti, uno dei nodi di Sorvegliare e punire; il tema del grande internamento, vettore decisivo nel Foucault di Storia della follia e non solo. Artaud, in fondo, non ha fatto altro che parlare dell’internamento e – anche – di farsi parlare dall’internamento, e questo a partire almeno dal 1937, a Dublino, nella prigione di Mountjoy, poi a Havre, in Francia, quindi al Sainte-Anne di Parigi, e via via negli altri istituti in cui fu recluso25, da Rodez sino a Ivry-Sur-Seine, dove si spense, nel 1948. Per tacere di aspetti anche letterali di prossimità, come la questione, assolutamente centrale per entrambi, della contestazione della morale da stato civile. In Artaud, nei Cahiers de rétour à Paris: «Lo stato civile dell’uomo che io sono e che si chiama Antonin Artaud riporta, come problematica data di nascita, il 4 settembre 1896 alle 8 del mattino. – E come luogo della mia entrata in questa vita Marsiglia, Bouches-du-Rhône, Francia, rue Jardin des Plantes, 4, al 4° piano. – Ora, io non sono per niente d’accordo con tutto questo, perché mi ci è voluto molto più tempo, intendo tempo concreto, evidente, verificato, attuale, autentico, per diventare il somaro recalcitrante e prepotente che sono»26. In Foucault, ne L’archeologia del sapere: «Non domandatemi chi sono, e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci si lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere»27.

Questo riferimento al condizionamento sociale e, di nuovo, il conseguente spessore sociale di quanto chiamiamo inconscio, si declina in Artaud nel tema della totalità, della vita e del vuoto, di Dio e della Legge, macrodispositivo storico-culturale ma, al contempo, sempre ed anche psichico, direi fisico-ematico, cui si tratta appunto di sottrarsi e di “farla finita” all’interno di una strana «familiarità»28, come sottolinea Margel. Di nuovo, lasciando parlare Artaud:

Ha disposto di me fino all’assurdo, questo Dio; mi ha tenuto in vita in un vuoto di negazione, di accanite negazioni di me stesso, ha distrutto in me anche i più piccoli slanci della vita pensante, della vita sentita. Mi ha ridotto a essere un automa che cammina, ma un automa che sente la rottura della sua incoscienza.29

Il delirio di Artaud, simultaneamente razionale e poetico, può funzionare da eccesso interno di ogni discours? Difficile spingersi così lontano. Di certo, sempre seguendo Margel, se ridiscendiamo da Foucault a Deleuze il delirio può incarnare un divenire opzione critica, un divenire altro: opzione tanto più efficace quanto più interna all’ordine discorsivo, alle forme di soggettivazione che ci predeterminano e ci ventriloquano inconsciamente. Così letta, in ultima analisi, la verbalizzazione dell’inconscio è allora, “in” Artaud, l’accadimento di una paradossale convergenza che ci riguarda. Tale verbalizzazione intreccia esemplarmente, pur con tutti i suoi limiti intrinseci legati alla non sistematicità dell’opera artaudiana, sia l’inconscio sociale, nei suoi non detti e autoinganni (cioè nella sua capacità produttiva di gabbie e dispositivi, nelle forme dell’etero-direzione poi ampiamente messe a tema nel Novecento) sia la corporeità automatica più profonda, la chair vivente, intesa però nella forza della propria continua, quasi-immanente auto-confessione inattesa, inavvertita, in un senso nietzschian-deleuziano, ma anche foucaultiano30.

Entra in scena, con Artaud, qualcosa di inaudito: la contemporaneità dell’extrasoggettivo e dell’intersoggettivo, entrambi vissuti nello stesso luogo e tempo di scrittura. Nel corpo. La genealogia ibrida è questo incrocio tra il sociale e l’intimo, tra il culturale e la sottrazione a ogni cultura, nella continuità della vita. Dove il valore della continuità risiede, precisamente, nell’ibridarsi morfogenetico dell’interno e dell’esterno, elementi che, d’altra parte, in Artaud perdono ogni validità assoluta: «non c’è mondo esterno, nessun mondo interno che noi esteriorizziamo».31

Per un’economia della perdita

È questa l’economia della perdita, di cui nella parte conclusiva di Alienazione. Un’economia tutta giocata sull’impossibilità dello scambio ma anche – di nuovo la contraddizione – sulla reversibilità tra attività e passività della soggettivazione, data nell’espressione stessa del corpo. L’economia della perdita sarà, seguendo l’intuizione di Margel, «un’economia attiva, che non solo produce perdita, lingua, pensiero o vita, ma soprattutto fa di questa perdita una produzione di lingua, pensiero e vita, come la genealogia di una nuova scrittura di sé»32. In tal senso, le genealogie ibride (di cui nel titolo) equivalgono a una forma di alienazione, l’alienazione che Artaud ci offre e che prenderà ogni volta un’altra forma: un continuo cadere, un alienarsi che diviene però ingresso, come l’esterno di un interno non esplorabile (se non nel delirio). Una continua introduzione (che a ogni ripetizione manca il bersaglio: fallisce meglio, come insegna Beckett) nel nocciolo materiale ed esistenziale che ha la forma di una extraduzione33 logica nel senso e nel valore. Economia come sospensione all’adesione automatica allo schema che ci precede e ci forma, al nostro divenire meri esecutori di spartiti scritti da altri: accesso (uscita) allo spazio in-visibile, in-udibile, persino in-immaginabile, dell’improvvisazione vitale come rovescio “critico” degli automatismi acquisiti contro cui ha lottato, tutta la vita, Artaud.

Si tratta, dunque, di un’auto-sospensione il cui senso resta ancora da pensare: un’auto-sottrazione che ha il carattere della pratica attiva e trasformativa dell’esistente, della presa in carico delle pratiche sociali di soggettivazione incessantemente ri-formate. Una sospensione, intendiamoci, non neutra, che nulla ha a che vedere con la rinuncia politica. Artaud insegna, paradossalmente, che l’alienazione è anche desiderio, desiderio di farla finita con ogni dualismo sé-altro. Sul filo del delirio, ovviamente: alienazione vuol dire divenire altro, desiderio di alterazione, ma non di ribaltamento dialettico sé/non-sé. Qualcosa di deleuziano prima di Deleuze, come vergato negli straordinari Cahiers de Rodez: «Io voglio divenire altro, ma non l’altro»34.

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Artaud potrà sempre essere considerato, evidentemente, un episodio, una singolarità instabile autoimplosa: un errore per il pensiero. Il suo delirio potrà in fondo tacere, dissipato nel suo stesso abisso o Ab-grund. Oppure, Artaud potrà essere cautamente ripreso, lasciandone risuonare le eccedenze costitutive. Costitutive per noi. Come per Derrida, cui Margel biograficamente deve molto, che si interroga sul senso dei suoi resti, oggi, nell’epoca della moltiplicabilità delle tracce, della scrittura, della registrazione della vita. Capacità di risuonare e di riprendere corpo anche laddove non lo attendevamo più. Come nelle voci di Artaud35, che continuano ad assillare la nostra lettura: «la voce di Artaud […] una volta ascoltata non la si può più fare tacere», poiché, spiega Derrida, in riferimento soprattutto a Per farla finita col giudizio di dio, «occorre leggerlo con la sua voce, con lo spettro, il fantasma della sua voce che va serbata nell’orecchio»36. Ed aggiunge:

Per me, l’archiviazione della voce è una cosa sconvolgente. Contrariamente alla fotografia, la voce archiviata è “vivente”. Vive di un’altra vita […]. È nella voce che si intende (on entende) [qualcosa] come il rapporto a sé, l’auto-affezione della vita per mezzo di se stessa. Queste varie registrazioni della voce di Artaud sono una parte essenziale di ciò che ci resta del suo corpo.37

È appunto questa corporeità stravolta, laicamente unheimlich, il livello da cui verosimilmente riprendere in mano, mettere al lavoro, il testo di Artaud. A patto di non farne un’opera e di lasciarne lavorare, in noi, il delirio. Come un sogno che mangia il sogno:

Cado./ Cado ma non ho paura./ Vomito la mia paura nel rumore della rabbia, in un barrito solenne […]./ Grido in sogno./ Ma so di sognare,/ e sui DUE VERSANTI DEL SOGNO/ faccio regnare la mia volontà./ Grido in un’armatura di ossa, nelle caverne della mia cassa toracica che agli occhi impietriti della mia testa assume proporzioni smisurate./ Ma con questo grido folgorato, per gridare bisogna che io cada./ Cado in un sotterraneo e non esco, non esco più. […]/ Quel grido che ho lanciato è un sogno./ Ma un sogno che mangia il sogno.38

Note

Note
1A. Artaud, Per farla finita col giudizio di dio, Nuovi Equilibri, 2001, p. 53.
2U. Fadini, “I miei amici non sono ancora venuti”. Artaud e l’interruzione, introduzione a AA. VV., L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud, a cura di A. Amendola, F. Demitry, V. Vacca, ombre corte, 2018, pp. 11-16.
3Cfr. G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, 1996.
4G. Deleuze, Conversazioni, ombre corte, 2006, p. 47 e p. 50.
5Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, 1994; Id., Politiche dell’amicizia, Cortina, 1995; Id., Nietzsche e la macchina. Intervista con Richard Beardsworth (a cura di I. Pelgreffi), Mimesis, 2010.
6Su questi elementi di “emancipazione complessa” via Nietzsche, cfr. J. Derrida, Nietzsche e la macchina, cit., p. 34 e ss.
7J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, 1982, p. 39.
8A. Artaud, Paul les oiseaux ou la place de l’amour, in Id., Œuvres Complètes, t. I, vol. 1, Gallimard, 1976, pp. 54-56.
9Cfr. S. Margel, Alienazione. Antonin Artaud. Le genealogie ibride, Astragali Edizioni, 2023, p. 22.
10S. Margel, Alienazione, cit., p. 44.
11A. Artaud, Il pesanervi, in Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, 1979, p. 37.
12G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 1975, p. 315.
13Cfr. L’insorto del corpo, Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud, cit.
14Cfr. V. Cuomo, Aporie d’Artaud. Crudeltà, anima, danza, KE edizioni, 2018.
15Su questo aspetto specifico, cioè sulla necessità di andare oltre l’alternativa tra due paradigmi, quello del teatro della crudeltà e quello del corpo senza organi, approfondendo, per esempio, il ruolo teorico-pratico della danza, si veda il saggio di V. Cuomo, Perché noi al mondo non siamo, in Id., Aporie d’Artaud, cit., pp. 65-98. Nelle conclusioni: «La danza alla rovescia […] potrebbe indicare l’uscita di Artaud dalla sua aporia fondamentale, perché danza crudele che sospende e interrompe, insieme all’organizzazione biologica del corpo, anche la sua organizzazione simbolica; perché danza in cui l’anima può mostrarsi “nascondendosi” dietro la danza visibile dell’anatomia di un corpo organico trasformato in una macchina celibe che gira a vuoto. Artaud mis à nu par ses célibataires, même, per dirla con Duchamp» (ivi, p. 98).
16S. Margel, Alienazione, cit., p. 21.
17Ivi, pp. 14-15.
18U. Fadini, “I miei amici non sono ancora venuti”. Artaud e l’interruzione, cit., p. 12.
19Ibid.
20A. Artaud, Lettre à André Rolland de Renéville du 8 avril 1933, in Œuvres Complètes, t. V, Gallimard, 1967, p. 148.
21A. Artaud, Lettera a Peter Watson, Parigi, 27 luglio 1946, citata in S. Margel, Alienazione, cit., p. 20.
22A. Artaud, Per farla finita col giudizio di dio, cit., p. 53.
23Citazione di Foucault, più volte utilizzata da Margel in Alienazione (cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, 1972, p. 50).
24Ibid.
25Cfr., su questo, S. Margel, Alienazione, cit., p. 64 e ss.
26A. Artaud, Cahiers du retour à Paris (octobre-novembre 1946), in Œuvres complètes, t. XXIV, Gallimard, 1988, p. 151.
27M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, 1971, p. 14.
28S. Margel, Alienazione, cit., p. 78.
29A. Artaud, Sul suicidio, in Id., Sul suicidio e altre poesie, Via del Vento, 2001, p. 11.
30Quantomeno di un Foucault molto meno esplorato, che va dalle autoconfessioni in Il bel rischio (Cfr. M. Foucault, Il bel rischio, Cronopio, 2013), alla posizione di tematiche in qualche misura affini, come nel recente Les aveaux de la chair (Cfr. M. Foucault, Histoire de la sexualité IV. Les aveaux de la chair (ed. de F. Gros), Gallimard, 2018).
31A. Artaud, Cahiers du retour à Paris (août-septembre 1946), in Œuvres complètes, t. XXIII, Gallimard, 1987, p. 472.
32S. Margel, Alienazione, cit., p. 86.
33Devo il termine extraduzione, in questo uso, ad Andrea Spreafico; cfr. Id., L’onestà dei forti. La potenza nella filosofia di Nietzsche, il Melangolo, 2008.
34A. Artaud, Cahiers de Rodez (février-avril 1945), in Œuvres complètes, t. XV, Gallimard, 1990, p. 239. Su questi aspetti, cfr. S. Margel, Alienazione, cit., p. 8 e pp. 25 e ss.
35J. Derrida, Les voix d’Artaud, “Magazine littéraire”, n. 434, sept. 2004, pp. 34-36.
36J. Derrida, Les voix d’Artaud, cit., p. 36.
37Ibid.
38A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968, p. 259-60.

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