Scritture minori
La politica della letteratura e il linguaggio dell’azione
Anticipiamo qui un estratto dal nuovo libro di Vincenzo Binetti «Scritture minori. Letteratura, linguaggio politico e pratiche di resistenza», appena pubblicato per ombre corte. Con una prefazione di Enrico Palandri, l’intento di questo lavoro è quello di indagare e problematizzare tensioni conflittuali e produttive tra lingua letteraria, linguaggio politico e pratiche di resistenza: come può la letteratura farsi espressione di forme di antagonismo e di pratiche sovversive? Come creare momenti comunitari di lotta? Come mettere le parole in azione così che esse possano eventualmente diventare elementi di destabilizzazione politico-culturale? Queste alcune delle domande poste da un libro importante di cui proponiamo l’ultimo paragrafo del secondo capitolo, ringraziando l’editore e l’autore per la collaborazione.
***
[…] e poi v’è d’un tratto un momento d’esitazione inesplicabile,
simile ad una lacuna tra la causa e l’effetto, un’oppressione
che ci fa sognare, quasi un incubo.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del maleL’unica alternativa per non subire una storia è raccontare
mille storie alternative.
Wu Ming, New Italian Epic
Come suggerisce il titolo stesso di questo capitolo, è mia intenzione indagare e problematizzare tensioni conflittuali e produttive tra lingua letteraria, linguaggio politico e pratiche di resistenza: un tentativo, in altre parole, di immaginare in qualche modo, la produzione intellettuale e culturale come strumento politico capace di destabilizzare potenzialmente narrazioni egemoniche e normative e produrre così nuove forme e pratiche rivoluzionarie. Il ruolo dell’intellettuale, il rapporto tra letteratura e politica, tra rivoluzione e linguaggio sono questioni complesse che chiaramente sollevano fondamentali e ormai annose domande: come può la letteratura farsi espressione di forme di antagonismo e di pratiche sovversive? Come creare momenti comunitari di lotta? Come mettere le parole in azione così che esse possano eventualmente diventare elementi di destabilizzazione politico-culturale?
Forse è importante innanzitutto chiarire che il problema non consiste, a mio avviso, nell’individuare l’intenzionalità ideologico-politica di chi scrive, di stabilire eventualmente categorie di giudizio in base alla collocazione di parte del testo o del suo autore, ma di esplorare invece gli elementi impliciti nel discorso letterario in quanto esso stesso potenzialità politica, proprio perché come ci ricorda giustamente Rancière:
La politica della letteratura non è la politica praticata dagli scrittori. Non concerne il loro impegno personale nelle lotte politiche e sociali del loro tempo. Non concerne nemmeno la maniera con la quale gli scrittori rappresentano nei loro libri le strutture sociali, i movimenti politici o le varie identità. La definizione “politica della letteratura” implica che la letteratura faccia politica in quanto letteratura […]. Ipotizza infine che esista un legame concreto tra la politica come forma specifica della pratica collettiva e la letteratura come pratica definitiva dell’arte dello scrivere1.
Ora se è vero infatti che la letteratura “come trasformazione, inveramento, miglioramento del mondo”2 partecipa inevitabilmente nella rappresentazione del reale, nel confronto quotidiano e polemico sulla articolazione di possibili pratiche politiche, allora bisogna cercare di capire meglio e indagare quali significati è possibile attribuire alla parola rivoluzione in quanto elemento concettuale forse imprescindibile di un discorso politico-culturale che aspiri a considerare problematicamente il linguaggio come parte integrante di questo continuo processo di trasformazione della società in cui viviamo.
Forse però è anche importante precisare, per evitare pericolose e fuorvianti astrazioni, che una sia pur breve riflessione sul significato rivoluzionario della letteratura vada collocato e definito sempre all’interno di uno specifico discorso storico-politico, geografico e culturale pertinente appunto, nel nostro caso, ad un momento rivoluzionario italiano che, “sia esso antagonistico o moderato, rivoluzionario o conservatore, rimane pur sempre, – come sostiene Ida Dominijanni – un pensiero del politico, un pensiero che emerge [cioè] da un laboratorio politico di straordinaria densità”3.
Ma, in effetti, forse di rivoluzione vera e propria, almeno nel caso italiano, dal ’68 fino agli ultimi anni, non è possibile parlare se per questa intendiamo un processo lineare di capovolgimento radicale dello status-quo e del potere vigente attraverso una strategia a lungo termine ed una finalità programmata tesa alla (ri)appropriazione di un nuovo potere costituito. A questo proposito, Furio Jesi, soffermandosi a riflettere sulla distinzione tra rivolta e rivoluzione, aveva a suo tempo giustamente affermato che mentre si potrebbe definire la rivoluzione come “un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia”4.
Se dunque accantoniamo per ora il concetto direi più categorico e tradizionale di rivoluzione – quello che, in altri termini, richiama, per fare esempi più recenti della Storia, alle grandi rivoluzioni come quella russa o francese – possiamo provare a pensare invece a forme costituenti e comuni di protesta e di rivolta, che proprio perché “ancorata ad un valore presente […] è perciò creativa”5, a manifestazioni autonome di sovversione e antagonismo che proprio per il loro carattere “evocativo”6 di “sospensione” temporanea – la “sospensione del tempo storico”7 come direbbe appunto Jesi – mettono in discussione la prevedibile linearità e continuità del tempo rivoluzionario; insomma provare a ripensare alla rivoluzione e alla letteratura che se ne fa espressione, come crisi, come (processo di) continua transizione e mutamento, e al comune come appropriazione del valore positivo e sovversivo di questa crisi: “la costruzione del comune non rovescia il potere; lo svuota e lo polverizza, lo smaschera e gli toglie credibilità.
Il comune mette in discussione il controllo del potere sulla vita e, così facendo, mette a dura prova la ragion d’essere del potere, aprendo, allo stesso tempo, uno spazio dove una politica che non si identifica col potere può essere pensata ed esercitata”8. Torniamo quindi nuovamente alla domanda iniziale: può la parola poetica, il linguaggio della letteratura raccontare, farsi espressione di questa crisi e partecipare ad una possibile ridefinizione di nuovi spazi comuni di intervento politico? Come utilizzare la parola evitando che essa rimanga sospesa ed immobile in una cristallizzazione astratta e fine a sé stessa e riacquistare invece, come sostiene Wu Ming, “fiducia nel [suo] potere maieutico e telepatico […] e nella sua capacità di stabilire legami”?9 Uno spazio, in altre parole, come ci ricorda Hannah Arendt, “dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà”10.
A questo proposito vorrei fare qui un breve riferimento ad un romanzo di Luca Doninelli, Tornavamo dal mare, pubblicato da Garzanti nel 2004, nel quale l’autore racconta appunto i silenzi e le incomprensioni che caratterizzano un rapporto difficile e conflittuale tra una madre cresciuta negli anni della lotta rivoluzionaria e delle rivolte politico-culturali degli anni Settanta e una figlia adolescente che cerca continuamente e disperatamente di trovare appunto le parole per capire e far luce non solo nel vissuto personale del suo genitore, ma anche e soprattutto fare i conti con un periodo problematico e controverso di una storia pubblica e di una memoria collettiva:
Ma della storia – il fascismo, la guerra civile, la repubblica, il terrorismo, la fine del terrorismo – di tutto questo cos’era rimasto? […] Tutto quel dolore, tutte quelle lotte, tutti quei morti, tutte quelle parole d’ordine non avevano saputo dire una sola parola, nemmeno la più piccola delle parole, su di lei, sulla sua vita, su quello che le faceva male e che lei continuava a non sapere […]. La storia – tutta la storia, quella grande e quella piccola, la storia d’Italia e la sua minuscola storia personale, non aveva saputo produrre la più piccola delle risposte11.
Ecco dunque che la parola perde la sua capacità di farsi momento di dialogo e comunicazione proprio perché rimane ancorata, in questo caso, ad una sua intrinseca funzionalità ideologica, appesantita dalla sua stessa irremovibile ed impermeabile gergalità senza possibilità di trasformazione e di “traduzione” – direbbe Edward Said – e quindi inutilmente sospesa e ingabbiata nella sua propria autoreferenzialità: “le parole […] erano tutte lì, appese ai muri, appuntate alle tende e alle ante e ai ripiani dei mobili come tanti memo”12. L’impasse comunicativo tra le due protagoniste del romanzo, il silenzio e il vuoto che queste parole “appese ai muri” inevitabilmente determinano, diventano così metafora emblematica di un linguaggio incapace di farsi azione, sia a livello testuale che meta-testuale, di stabilire in altre parole una conversazione possibile e implicano provocatoriamente il bisogno impellente di una traslazione e reinvenzione semantica attraverso un processo continuo di contaminazione comune che ne impedisca la loro pietrificazione.
La letteratura, quindi, può e deve intervenire in questo processo di reinvenzione continua della parola per evitare che essa diventi, come anche accade nella vuotezza disarmante e omologante del linguaggio massmediologico a cui siamo purtroppo abituati in questi ultimi tempi, inutile, vuoto e banale “logorio di tópoi e cliché”13, ma anche per sottrarsi allo stesso tempo al pericolo di una sua strumentalizzazione ideologica; e di questo, come sappiamo, ne è testimonianza emblematica – ci ricorda ancora Jesi – “l’indubbio fallimento della letteratura regolata dai canoni del realismo sociale [che è appunto] un esempio evidente e drammatico dello scarsissimo frutto che può maturare dall’incontro di forme letterarie cristallizzate con un’ideologia altrettanto cristallizzata […] la letteratura ideologica perde [in questo caso] vitalità e valore: non è più – appunto – né buona letteratura né buona propaganda”14.
In tale ambito vorrei menzionare un altro romanzo apparso in Italia negli ultimi anni, Il tempo materiale, di Giorgio Vasta, pubblicato da Edizioni Minimum fax nel 2008; la storia, ambientata a Palermo nell’anno del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse vede appunto un gruppo di ragazzini, marginalizzati ed esclusi da una società e da una cultura scolastica sterile ad alienante che essi stessi rifiutano, fondare una cellula rivoluzionaria e cimentarsi così, appena undicenni, col linguaggio violento della lotta armata e con le conseguenza tragiche delle parole. Nimbo e i suoi piccoli compagni “brigatisti” elaborano quindi l’alfamuto, “un linguaggio gestuale che permetta loro di liberarsi dalla lingua abusata e fiacca della comunicazione comune”15 proprio perché consapevoli essi stessi del fatto che il “loro modo di esprimersi”, le loro parole, non permettono un movimento comunicativo verso gli altri e li rendono perciò inevitabilmente invisibili:
La conseguenza del nostro modo di esprimerci – il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono. Per loro siamo delle anomalie. Degli idioti. Quando poi sentono di che cosa stiamo parlando – le larghe analisi del presente politico italiano, la crisi spregiudicata del potere – ci fanno le battute, ci lasciano soli16.
Ecco allora che proprio il linguaggio dogmatico e violento, ma allo stesso tempo per certi versi semplicistico delle Br diventa per questi ragazzini, proprio perché “semplifica” il mondo, rivelazione improvvisa, punto di riferimento imprescindibile e quasi ossessivo attraverso il quale tentare di decifrare in qualche modo la realtà circostante e dar voce allo stesso tempo alla loro rabbia e al loro desiderio di rivolta e ribellione:
Bocca […] ha estratto una serie di pagine nelle quali sono riportati alcuni comunicati che le Br hanno scritto nel corso del tempo. Dopo il sequestro di Moro i giornali li hanno ripubblicati […]. Hai visto le frasi? Mi domanda […] Sì le ho viste […] Ogni frase semplifica, dico. In che senso? Nel senso che semplifica. Non te ne accorgi? […] Perché l’obiettivo di queste frasi è distinguere. Come quando si divide in due la lavagna con il gesso per segnare i buoni e i cattivi […]. A cosa servono? Te l’ho detto: a separare, a ordinare il mondo17.
Se la lingua delle Br è, dunque, “un animale mitologico inservibile, un unicorno degradato”18 allora è proprio questa semplificazione semantica di una parola che non può farsi azione, il suo irrigidirsi ancora una volta nella pesantezza di un linguaggio ideologico tautologico a diventare irreparabilmente ostacolo insormontabile alla comunicazione reciproca e comune e spinge perciò inesorabilmente questi personaggi verso l’accettazione tragica della loro incapacità di esprimersi e raccontarsi: “Io non ne potevo più del linguaggio, dico. E la militanza, dice, è la soluzione. Non parlo, non so più cosa dire. Così rinunci al piacere, Nimbo. Abbasso il capo. Così rinuncio al dolore, dico”19.
Ed è infatti proprio il tentativo di riscrittura da parte di questi ragazzi dei comunicati delle Br, nel tentativo di riformare ed immaginare un nuovo linguaggio, si rivela fallimentare perché appunto imprigionato in quella stessa fraseologia:
Mi sono messo d’impegno a studiare i comunicati delle Br […]. Ho cercato di smontarli e rimontarli, di torcere la sintassi e immaginare un altro lessico. Volevo modificare lo stile, una lingua diversa; […] con un valore esclusivamente nostro. Quando mi rileggo sul giornale mi rendo conto di avere fallito. Mio malgrado sono rimasto imprigionato nella fraseologia che intendevo riformare20.
L’atto rivoluzionario, la parola militante attraverso cui ci si vorrebbe liberare “dalla propria angusta storia personale per entrare nel tempo infinito della mitologia rivoluzionaria”21, nello spazio comune di un noi collettivo ed uniformante, si traduce invece in questo caso nel riconoscimento inconsapevolmente auto-ironico di parole e slogan “paradossali”:
Seguono tre slogan, tre grida di guerra, che soltanto in questo momento, rileggendoli sul giornale, ci rendiamo conto di aver reso, senza volerlo, paradossali.
PORTARE L’ATTACCO ALLA SCUOLA IMPERIALISTA.
DISARTICOLARE LE STRUTTURE E I PROGETTI DEI SERVI DEL
PROFITTO.
BEATO CHI CI CREDE, NOI NO NON CI CREDIAMO.
Nella foga rivoluzionaria non abbiamo valutato l’ordine delle frasi con le quali volevamo sintetizzare il nostro pensiero. La terza, la riconversione della canzonetta in oscura minaccia, ci si ritorce contro prendendoci in giro22.
Ma è proprio difronte a questo fallimento della parola come atto comunicativo, a questo inevitabile e tragico sprofondare del linguaggio, anche in questo caso, nella vuotezza semantica della propria autoreferenzialità che riaffiora in entrambi i romanzi sul finire del racconto un sia pur tenue e delicato tentativo di ristabilire un momento di aggregazione momentanea proprio attraverso il recupero di una parola altra o anche di un semplice gesto di affettività; appropriazione temporanea e transitoria di uno spazio comune dove le parole questa volta si muovono liberamente dando vita a un linguaggio minore: sia che si tratti dell’intimità sfuggente di un brevissimo ma significativo e toccante scambio di gestualità affettive tra padre e figlia in Tornavamo dal mare che del pianto di Nimbo ne Il tempo materiale; pianto liberatorio, quest’ultimo, rivelatore di nuove potenzialità dell’essere. È infatti proprio nelle pagine conclusive del romanzo di Vasta che assistiamo, grazie all’innocenza disarmante della piccola Wimbow – anch’ella vittima sacrificale del linguaggio disperato e disarticolato che caratterizza la violenza del gruppo di sedicenti bambini-rivoluzionari – ad un emblematico e significativo tentativo di dar voce, attraverso una forma poetica altra, al proprio silenzio:
Wimbow mi guarda e non capisce […] e nel silenzio, convulso, le braccia che mi tremano, mescolo ancora tutte le forme dell’alfamuto, l’ennesimo linguaggio disperato nel quale non esiste, per me, una postura per dire amore, per dire che era solo amore, fino a quando sono stremato e giro a vuoto nella disarticolazione […]. Ed è solo adesso, quando nella fabbricazione della nostra notte le stelle esplodono nel nero, che alla fine delle parole comincia il pianto23.
Ora, qualcuno potrebbe obiettare che questa spazio-temporalità all’interno della quale si stabilisce invece, a mio avviso, una comunicazione efficace e profonda, sia pur transitoria ed evanescente, tra queste soggettività in crisi e frammentarie, ma bisognose di affettività e desideranti un cambiamento radicale delle dinamiche comportamentali e di un linguaggio che possa esprimere appunto il loro essere alla ricerca di un gesto o di una parola rivoluzionaria, si riveli alla fine semplice fantasia letteraria. Una fuga romanticheggiante impossibile e velleitaria al di fuori della realtà, una forzatura escapista in un fuori inesistente che quindi corre il rischio di sconfinare in una fuorviante dimensione utopica proprio perché “è una fantasia – qualcosa di non realizzabile e infatti irrealizzabile in quella forma parziale”24.
Ma se è vero che questo testimonia in qualche modo il nostro timore e in fondo l’ansietà che tutto alla fine si riveli irrealizzabile e quindi utopico – come viene spesso argomentato quando si parla dei discorsi visionari degli anni rivoluzionari – è anche vero, come ci ricorda a proposito Fredric Jameson, che “le utopie sono non-finzionali, anche se esse sono allo stesso tempo non-esistenti”25, proprio perché “l’utopia esige proprio queste ansietà e senza di esse le nostre visoni di futuri (mondi) alternativi e trasformazioni utopiche rimangono politicamente e esistenzialmente inoperative, semplici esperimenti e giochi mentali senza nessun impegno reale”26.
È dunque proprio in questi spazi comuni, attraverso queste temporalità “inattuali”27 e non lineari, che diventa immaginabile una qualche forma utopica e rivoluzionaria di destabilizzazione autonoma e sottrazione sovversiva, un “linguaggio dell’azione” – come direbbe Pasolini – in grado di trasformare ontologicamente il reale e immaginare nuove pratiche di resistenza. È importante precisare, però, che tutto ciò “non ha a che fare con una esteriorità assoluta o anche con l’utopia di una buona società”28, non è scontro diretto per la presa di potere, confronto manicheistico tra i linguaggi tautologici e categorici di due opposte fazioni funzionali unicamente alla sopraffazione dell’altro e quindi alla sostituzione di un discorso egemonico con un altro: “L’egemonia [infatti] è sempre egemonia sia che essa si proponga come rivoluzionaria oppure no, lo scopo del processo di liberazione è quello di abolire l’egemonia, non di perpetuarla. Il più grande ostacolo al processo di liberazione può infatti non essere un tipo particolare di egemonia, ma proprio l’inabilità di immaginare la vita senza egemonia”29. La pratica resistenziale diventa perciò sovversiva e rivoluzionaria quando essa si propone fondamentalmente come contro-egemonica e nomadica, portata avanti da soggettività antagoniste e comunitarie in continuo divenire identitario, proprio perché, nelle parole di Toni Negri, “la resistenza si costruisce in maniera moltitudinaria […] costituisce esodo [e] l’esodo non è mai semplicemente estraneazione, ma sempre alterità, rapporto, creazione altra”30.
Basti pensare, a voler richiamare in questo ambito un episodio insurrezionale e rivoluzionario della storia recente, a quello che il movimento Zapatista nelle lotte degli anni Settanta ha sostenuto rispetto alla necessità di rifiutare in maniera radicale l’evolversi lineare di una processo rivoluzionario che porti alla riaffermazione incondizionata ed inevitabile di forme di potere egemonico, sostenendo invece il bisogno di creare nuove territorialità comunitarie e dar voce così a “soggettività non-egemoniche che possiedono comunque l’integrità di voler perseguire una ricerca di libertà”31.
Un parola, insomma che operi una deviazione semantica e spaziotemporale – una deriva come la definirebbero i Situazionisti – e che quindi permetta una (ri)mappatura continua del linguaggio dando vita così a nuovi spazi comunitari ed imprevedibili, pratiche di microresistenza e di lotta e di espressività rivoluzionarie: soggettività antagoniste alla ricerca di “nuove prospettive comuni e di nuove figure di libertà e uguaglianza”32, non individualità, ma “singolarità comuni” della moltitudine in grado di condividere momentaneamente uno spazio comune in grado di generare cioè nuove forme di socializzazione e militanza politica che destabilizzino la logica alienante del neo-liberalismo e del capitalismo globale. Se dunque possiamo immaginare queste nuove soggettività come dei commoners e cioè, nelle parole di Negri e Hardt, come una sorta di “partecipante costituente […] necessario per la costituzione di una società democratica basata sulla condivisione del comune”33 e alla crisi come “la premessa ineludibile per poter affermare l’autonomia del potere costituente e quindi la possibilità del suo riproporsi e riaffacciarsi nella storia, [insomma] la possibilità della rivoluzione”34, allora dobbiamo anche pensare ad un linguaggio capace di dar voce e credibilità a queste potenzialità.
Ed è ritornando per un attimo su un autore come Calvino che vorrei cercare di arrivare ad una possibile conclusione di questo excursus sul linguaggio e sulla possibilità di immaginare processi comunitari di dialogo, di espressività linguistico-letterarie e condivisione tra soggettività rivoluzionarie, attraverso un riferimento ad un concetto a mio avviso fondamentalmente importante per quanto riguarda la sua produzione letteraria e intellettuale, ma anche appunto la nostra breve riflessione sulla parola rivoluzionaria: la leggerezza. In una delle sue lezioni americane intitolata, appunto, come sappiamo “Leggerezza”, Calvino sostiene che, nel suo lavoro di scrittore, “la [sua] operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”35; e, appunto, per avvalorare la sua visione di una “scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo”36, Calvino fa riferimento ad una serie di immagini letterarie; tra queste, ce n’è una particolarmente emblematica e significativa per quanto riguarda il nostro discorso, che richiama un racconto di Kafka del 1917, Il cavaliere del secchio.
In questa storia, ambientata “in quell’inverno di guerra, il più terribile per l’impero austriaco”37, il protagonista vaga alla ricerca “di carbone per la stufa. Per la strada il secchio gli fa da cavallo, anzi lo solleva all’altezza dei primi piani e lo trasporta ondeggiando come sulla groppa d’un cammello”38. Ora è proprio “l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca”39, che diventa metafora del nostro muoverci disperatamente e caparbiamente tra realtà e immaginazione, tra sofferenza e volontà di trasformazione e di innovamento, nel tentativo appunto, anche attraverso la “leggerezza”, di trovare una parola desiderante che possa permetterci di stabilire un incontro con l’altro e costruire così forme costituenti di aggregazione comune. Se, inoltre, “la letteratura non è mai del tutto innocente. Nemmeno la più innocente”40, se la letteratura, ci ricorda ancora Wu Ming, “non deve, non deve mai credersi in pace”41 perché partecipa ad una sua imprescindibile intenzionalità politica, ad un desiderio appunto di ricerca e di comunicazione, allora forse diventa possibile cercare e immaginare, proprio nella alterità di uno spazio comune come “presupposto [ma anche] come risultato di una cooperazione sociale”42, attraverso un processo di ripensamento e riappropriazione della crisi del linguaggio – una crisi intesa perciò non come elemento concettuale negativo o una sorta di amorfa e degenerata flânerie intellettuale, ma come pratica politica – una spazio transitorio e costituente di incontro e prossimità. Un luogo comune, in altre parole, all’interno del quale, senza negare l’importanza del conflitto e della differenza, la “leggerezza” sovversiva di una parola in crisi, l’invenzione di un linguaggio dell’azione altro possa anche diventare espressione di un desiderio rivoluzionario per un ripensamento ontologico del nostro essere ed una trasformazione radicale del mondo in cui viviamo.
Note
↩1 | Jacques Rancière, Politica della letteratura, Sellerio editore, 2010, p. 13. |
---|---|
↩2 | Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2008. |
↩3 | “[…] be it antagonistic or moderate, revolutionary or conservative, is a thought of the political, a thought that stems from a political laboratory of extraordinary density”. Un paese, non bisogna dimenticare, che – come ci ricorda ancora Dominijanni – between the 1960s and the 1990s turned from a case study of the greatest expansion of democracy in the West into its opposite, a case study of the greatest deformation of democracy”. Ida Dominijanni, Wounds of the Common, in “Diacritics”, 39, 4, 2009, p. 136. |
↩4 | Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, 2000, p. 19. |
↩5 | Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 116. |
↩6 | Jesi, Spartakus, cit., p. 100. |
↩7 | Ivi, p. 18. |
↩8 | “The construction of the common does not topple power; it empties it and pulverizes it, unmasks it, takes away its credibility. The common disputes power’s hold on life, and, in so doing, it also challenges power’s reason for being, opening at the same time a space in which a politics that does not identify with power can be thought and acted upon”. Dominijanni, Wounds of the Common, cit., p. 144. |
↩9 | Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, 2009, p. 22. |
↩10 | Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Giunti Editore, 2017, p. 146. |
↩11 | Luca Doninelli, Tornavamo dal mare, Garzanti, 2004, p. 108. |
↩12 | Ivi, p. 118. |
↩13 | Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 24. |
↩14 | Jesi, Spartakus, cit., p. 11. |
↩15 | Giacomo Raccis, Giorgio Vasta: la militanza del linguaggio, in “Nazione Indiana”, 23 luglio 2013, http://www.nazioneindiana.com/2013/07/23/giorgio-vasta-la-militanzadel-linguaggio/, p. 3. |
↩16 | Giorgio, Vasta, Il tempo materiale, Minimum fax, 2008, p. 56. |
↩17 | 102 Ivi, p. 72. |
↩18 | 103 Ivi, p. 73. |
↩19 | 104 Ivi, p. 172. |
↩20 | 105 Ivi, p. 181. |
↩21 | Ivi, p. 252. |
↩22 | Ivi, p. 183. |
↩23 | Ivi, pp. 272-4. |
↩24 | “[it] is a fantasy, and has precisely the value of a fantasy – something not realized and indeed unrealizable in that partial form”. Fredric Jameson, The Politics of Utopia, in “New Left Review”, 25, gennaio-febbraio 2004, p. 50. |
↩25 | “Utopias are non-fictional, even though they are also non-existent”. Jameson, The Politics of Utopia, cit., p. 54. |
↩26 | “Utopia demands just such anxieties, and that without them our visions of alternative futures and utopian transformations remain politically and existentially inoperative, mere thought experiments and mental games without any visceral commitment”. Ivi, p. 53. |
↩27 | Jesi, Spartakus, cit., p. 100. |
↩28 | “It is not about an absolute externality or the utopia of a good society”. Anna Curcio e Ceren Özselc, Introduction a On the Common, Universality, and Communism: A Conversation between Ètienne Balibar and Antonio Negri, in “Rethinking Marxism”, 22, 3, luglio 2010, p. 9. |
↩29 | “Hegemony is hegemony whether it is revolutionary or not, and the goal of liberation is to abolish hegemony, not to perpetuate it. Indeed, the greatest obstacle to liberation may not be hegemony of one kind or another but the very inability to imagine life without hegemony”. Arif Dirlik, After the Revolution: Waking to Global Capitalism, Wesleyan University Press, Middletown 1994, p. 104, cit. in Alvaro Reyes, Revolutions in the Revolutions: A Post-counterhegemonic Moment for Latin America?, in “The South Atlantic Quarterly”, 111, 1, Winter 2012, p. 21. |
↩30 | Marcello Tarì, Movimenti dell’ingovernabile. Dai controvertici alle lotte metropolitane, ombre corte, 2008, pp. 156-157. |
↩31 | “Non-hegemonic subjectivit[ies] that still have the integrity to pursue the quest for liberation”. Nelle parole del subcomandante Marcos, infatti: “What always remained unresolved was the role of people […] in what became ultimately a dispute between two hegemonies. There is an oppressor power which decides on behalf of society from above, and a group of visionaries which decides to lead the country on the correct path and outs the other group from power, seizes power and then also decides on behalf of society. For us that is a struggle between hegemonies, in which the winners are good and the losers bad, but for the rest of society things basically don’t change […]. You cannot reconstruct the world or society, nor rebuild national states now in ruins, on the basis of a quarrel over who will impose their hegemony on society”. Cit. in Reyes, Revolutions in the Revolutions, cit., pp. 21-22. |
↩32 | Antagonistic “subjects that seek a new common prospect and new figures of liberty and equality”. Curcio e Özselc, On the Common, cit., p. 320. |
↩33 | Michael Hardt e Antonio Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, 2012, p. 101. |
↩34 | Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, 2012, p. 193. |
↩35 | Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, 1988, p. 5. |
↩36 | Ivi, p. 27. |
↩37 | Ivi, p. 29. |
↩38 | Ibidem. |
↩39 | Ivi, p. 30. |
↩40 | Leonardo Sciascia, Porte aperte, Adelphi, 1987, p. 29. |
↩41 | Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 60. |
↩42 | Curcio e Özselc, On the Common, cit., p. 313. |
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