Aldiqua
Other Spaces
Questo focus , a cura di Viviana Vacca e Ludovica Fales, è nato nell’ambito delle riflessioni scaturite dal laboratorio di realtà virtuale di Other Spaces organizzato con Red Shoes Educational – che quest’anno >…
Il confine è una linea o una zona di contatto tra due o più superfici. É un luogo ma anche un tempo.
Il mio confine della crescita è una terra grandissima.
Comincia quando sono partito ancora minore […] e sono finito in una città bellissima.
Bellissima e pericolosa.
Dice M. e il cancello elettronico si chiude sul giardino fiammeggiante di aranci della struttura detentiva in cui risiede, nel cuore antico della città. Ma potrebbe dirlo anche M., “rinchiusa” qualche chilometro più in là in un campo rom alla periferia della stessa città, che sogna di lasciare per andare a conseguire altrove la laurea in giurisprudenza e tornarvi un giorno a difendere la sua gente. La prima volta, i due ragazzi si sono “visti” in un webinar, i volti e i mezzi corpi incorniciati nei riquadri di Zoom sullo sfondo di anonime stanze che avrebbero potuto essere ovunque. Per aiutarli ad entrare “in contatto”, ho proposto l’evoluzione di un bell’esercizio a cui ero stata sottoposta a mia volta: staccate per un minuto gli occhi dal monitor, guardatevi intorno e tornate con tre indizi per far immaginare agli altri gli spazi in cui vi trovate. A quel punto, la connessione di L. e di M. è saltata e ha risposto A., parlando del cielo d’ovatta e lucine che stava incollando sotto il soffitto della sua stanza.
I cieli tornano spesso nelle riprese dei ragazzi del mio progetto di documentario collettivo Border[scapes], che, sfidando il confinamento pandemico, ha coinvolto una ventina di giovani che la sociologia definirebbe di “seconda generazione”, rom e richiedenti asilo e la politica delle “nuove generazioni”, nella narrazione dei invisibili confini urbani. Cieli per rifugiare lo sguardo quando si vive in strada; cieli fissati dalle finestre chiuse dal lock-down; cieli solcati da aerei di carta nella speranza che un giorno possano diventare sedi di lavoro per aspiranti hostess, al momento senza diritto di cittadinanza benché nate in Italia.
Che guardassero cieli analoghi dalla stessa parte, i ragazzi l’hanno capito alla fine di una proiezione intermedia del documentario, proprio nello speciale carcere di M., dove ho portato l’intero gruppo. Le immagini scorrevano sopra un vecchio crocifisso, in improvvisato mini-cinema parrocchiale, e i commenti sommessi nell’afosa penombra rivelavano una città ritrovata, fatta di frammenti distinti e vicini. Quando al termine della proiezione intermedia ho chiesto ai ragazzi di cosa parlasse il film che avevano visto, mi hanno risposto: “Parla di noi. Di ciascuno di noi nel gruppo che siamo diventati e che senza il film non sappiamo come tenere insieme”.
La svolta postmoderna dello spatial turn introdotta dal geografo Edward W.Soja con il testo Postmodern Geographies (Verso, 1989) ha aperto un campo di studio e d’azione interdisciplinare ancora largamente da praticare perché il prefisso “post-“ si arricchisca di contenuti che ne definiscano meglio i contorni. La nuova prospettiva di pensiero che suggerisce – quello del ribaltamento dell’idea di spazio come superficie piana, isotropica, infinita a quella topologica di sfera finita ma prolifica di spazialità relazionali, offre un’opportunità unica: pensare diversamente lo spazio per comprendere le origini della crisi di futuro che inquina il nostro presente.
Se il mondo è uno spazio finito, saturo, strettamente interconnesso, sorretto dalla legge del battito d’ali della farfalla, per cui anche gli eventi più riposti trovano sempre un’eco nello spazio-tempo del mondo, lo spazio diventa particolarmente importante, per paradosso, proprio allorché la globalizzazione sancisce la morte della distanza. Lo è in quanto ambito d’azione e, quindi, fattore costituente del cambiamento.
La rivoluzione di matrice leibniziana portata dall’approccio qualitativo, topologico e non topografico, allo spazio, per la quale questo esiste in quanto campo di relazioni tra entità individuali, implica che saper leggere queste relazioni, in termini di spostamenti e trasformazioni, è il primo passo per abitare il mondo e provare a cambiarlo. Ciò significa andare oltre la Flatland (Sandercock e Attili 2010), l’immaginaria realtà bidimensionale dell’omonimo romanzo di Edward Abbott (1882), un mondo ridotto a un vasto foglio di carta in cui case, alberi e abitanti sono linee rette e figure geometriche, che assomiglia terribilmente alle rappresentazioni cartografiche dello spazio urbano dell’urbanistica tradizionale.
Come in Flatlandia, nella città colta dalla prospettiva a volo d’uccello e proiettata su una superficie grafica, mappata e misurata, scompaiono molte dimensioni. A mancare, sono i mondi plurali di chi abita le città, le loro vite fatte di emozioni, relazioni, sentimenti, ricordi, le loro voci e storie che non solo stratificano ma determinano la qualità dell’urbanità come dimensione eminentemente relazionale, spazio umano per eccellenza. Le cartografie urbanistiche tradizionali non possono rappresentare l’invisibile, che pure elusivamente pulsa nella città come negli interstizi delle mappe urbane. Il cinema può.
Negli ultimi anni la crisi del sapere tecno-scientifico ha aperto un dialogo tra una scienza “dura” come l’urbanistica e le scienze sociali dell’etnografia e dell’antropologia visuale, riconoscendo il valore delle storie per restituire i processi di trasformazione urbana (Attili 2007, 2008; Eckstein e Throgmorton 2003; Mandelbaum 1991; Maris 1997; Sandercock 2003, 2004; Sandercock e Attili 2010), interpretando la pianificazione come quel continuo “conversational process of making sense together” di cui scriveva John Forester (1989): un processo che si fa spazio di interazione attraverso le storie per mettere in connessione forme complesse di conoscenza ordinaria ed esperta e allargare i processi decisionali allapluralitàdei quadri di significato che popolano la città (Giuliani, Piscitelli 2018).
In questo solco che lo spatial turn ha contribuito ad aprire, si muove da qualche anno la mia ricerca, nel tentativo di comprendere cosa accade quando discipline dello spazio come l’urbanistica, la geografia, la sociologia e l’etnografia urbana si rivolgono al cinema documentario per ripensarsi. Percorrendo l’intreccio tra l’interdisciplinarietà dello spatial turn e la svolta postcoloniale di autori come Spivak, Said, Bhabha e Appadurai dentro una città come Napoli, storicamente segnata da una stratificazione di domini coloniali e nelle ultime decadi da flussi migratori sempre più stanziali che si sovrappongono alla trama invisibile dei confini interni, con Border[scapes] ho inseguito queste domande predisponendo lo spazio per l’incontro tra mondi vitali contigui ed estranei, nonostante la comune appartenenza generazionale e contingentemente geografica.
Coinvolgere i ragazzi in una rappresentazione collettiva dei confini urbani risponde alla chiamata del geografo Ash Amin (2019) di produrre “ecologie dell’incontro”, dimensioni interattive che ribaltino la dinamica dell’incontro sociale effimero negli spazi della città per costruire occasioni prolungate e reiterate di relazione. Dover fare insieme un film è stato il modo, con il quale si è provato a rispondere anche alla domanda se il cinema possa “fare città”. La risposta è sì, per almeno tre vie. Anzitutto, per l’azione fondamentale del cinema di illuminare come una lanterna magica frammenti di mondi urbani – proprio come gli artisti medievali illuminavano le pergamene e, nell’epoca barocca, i pittori illuminavano gli interni con paesaggi. Il cinema è un avventurarsi nel mondo al seguito della vista, per Aristotele il senso principale, per il suo essere attivo e non passivo nella relazione con l’esterno. Mentre produce rilocazioni percettive, il cinema inietta nello spazio dell’ocularità linee culturali ed etiche (Resina 2009).
Si riflette poco su quanto il cinema, specialmente documentario, condivida con la geografia umana la capacità di produrre orientamento critico nello spazio e nel mondo. In secondo luogo, perché il cinema costruisce relazioni al contempo contestuali e imperiture con i luoghi che mostra. La telecamera può più difficilmente della macchina fotografica svincolare i suoi oggetti dal sistema di relazioni in cui si trovano, restando un dispositivo essenzialmente locativo, che(ri)colloca lo spettatore all’interno delle coordinate specifiche di una data rappresentazione. Al tempo stesso, però, il film è la porta attraverso la quale l’intenzionalità dello spettatore si relaziona a ricostruzioni dello spazio situato. E in questo modo, il film costruisce una relazione tra chi guarda echi/ciò che si guarda, tra l’occhio e lo spazio con le sue relazioni incarnate, che slega queste ultime dai tempi contingenti alle riprese, riscattandoli dalla frammentazione e dalla dissoluzione prospettica nel flusso delle percezioni mutevoli.
Infine, per la sintesi dei due punti precedenti: il cinema fa “sentire la città”. Sia che si prediliga la narrazione più o meno lineare che le esperienze percettive e sinestetiche aperte dalla realtà virtuale, l’esperienza cinematografica ben costruita che si rivolge agli spazi urbani fa sentire la città, coi i suoi corpi, i suoi ritmi, le sue storie intrecciate, l’intrico di significati dal quale ne costruisce di nuovi. Non solo perché la mostra per quello che è anche nelle pieghe più nascoste, ma perché insinua la visione dell’altro che può essere, portando l’immaginario dentro la realtà. E, parafrasando Fellini, quale migliore, più auspicabile realtà della visione?
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