Sul concetto di valore / 2

Forme dell'attuale da Marx ad Appadurai

Claire Fontaine - Change (2006) - Courtesy of the artist and galerie Neu, Berlin - Foto Studio Lepkowski (1000x667)
Claire Fontaine, Change (2006).

Questo saggio è la prosecuzione della prima parte dedicata all’analitica e alla genealogia del valore, pubblicata qui

Che nesso vi è oggi tra parole e oggetti o, secondo la traiettoria che si vuole qui intraprendere, tra economia del linguaggio e linguaggio dell’economia? Non assistiamo oggi infatti, alla luce del rapporto tanto efficacemente delineato da Christian Marazzi tra linguaggio ed economia, ad una contemporanea e parallela dissoluzione dell’oggettività (dell’oggetto, della cosa, del bene), muovendo dalle dimensioni dello scambio e del denaro, e a una dissoluzione della soggettività, o dell’in-dividuum, nella forma di un’entità deleuzianamente «dividuale», correlato delle nuove pratiche della finanziarizzazione? Seguiremo qui una linea «eterodossa» che, muovendo dalle germinali analisi marxiane del «feticismo» della merce nel loro nesso con l’evoluzione della figura del «valore», toccherà figure come Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Marcel Mauss e Arjun Appadurai (oltre a classici come Max Weber e Karl Polanyi): tutti accomunati dall’idea di una intima innaturalità dell’economia e dell’homo oeconomicus e dalla predominanza delle dimensioni del politico e della dominazione.

Tralasciamo, o diamo per presupposto qui, il nesso tra le «giravolte del valore» nella prima Sezione del I libro del Capitale di Marx, che si conclude con il paragrafo fantasmagorico sul «feticismo della merce»: dove l’animazione delle cose, permeate dal fantasma del valore che trova il suo compimento nel denaro, corrisponde ad una alienazione o estraneazione degli uomini ridotti a pure «maschere economiche», sottomesse al feticismo quasi religioso che permea la società capitalistica. Nel carattere di «feticcio» della merce, infatti, Marx rinviene quell’arcano che fa del capitalismo un mondo tutt’altro che disincantato come dirà Weber, un mondo bensì incantato, capovolto, in cui merce e denaro fagocitano il carattere cosale e qualitativo dei beni e dei prodotti del lavoro e la trasparenza e immediatezza delle relazioni tra lavoratori. E questo nella misura in cui, come non possiamo approfondire qui, è la fluttuazione del valore a determinare le condizioni per le quali gli uomini hanno accesso a beni e merci. Insieme potenza «soprannaturale» del denaro che crea e anima il movimento delle merci, e effetto «naturale» del rapporto delle merci tra loro, in quella che Marx definisce la loro «società onnilaterale». Ma basti, qui, ricordare quanto Etienne Balibar ha scritto in relazione alla differenza tra il Marx dell’Ideologia tedesca e il Marx del Capitale: ciò che viene descritto nel meccanismo del feticismo della merce determinato dalle giravolte del valore non è infatti altro che un meccansimo di soggezione.

Ed è qui che, seguendo una linea eterodossa, andiamo diritti a quanto Baudrillard ha scritto sulla nozione di «simulacro»: che, ben lungi da quanto apparrebbe dal celebre testo L’uccisione del reale, non corrisponde altro a ciò che Marx ha designato con il termine «valore». Occorrerebbe qui tornare su un testo dimenticato come Lo scambio simbolico e la morte, non per altro che per la ragione che in questo volume il simulacro, con le sue evoluzioni, non è altro che la figura stessa di ciò che Marx chiamava «valore». L’iperrealismo, o l’ipercapitalismo, non rappresentano altro in Baudrillard che il momento del superamento dell’analisi marxiana del capitalismo storico, nella misura in cui – nell’ultimo ordine di simulacro – ciò di cui ne va è dell’aggancio a ogni valore referenziale: sia esso il bisogno naturale, il bene o il valore d’uso. Quella che il filosofo francese denomina come «dimensione strutturale» del valore (l’affermazione incontrastabile del codice segnico come principio) corrisponde infatti all’autonomizzazione del valore da ogni riferimento all’uso, alla cosa, al consumo sensato (cioè, secondo il Capitale, il «bisogno»).

Ed è qui che non vi è più scampo secondo Baudrillard nell’ipercapitalismo contemporaneo, nella misura in cui l’aspetto illusorio del reale non permette più di scorgere la contraddizione reale che si cela dietro l’iperreale: dalla morte della realtà non vi è scampo. Ed è qui che il capitalismo perde ogni caratterizzazione produttiva, iniziando ad acquisire i caratteri del dominio e della violenza simbolica. L’economia politica contemporanea allora va definita innanzitutto come sistema di sfruttamento, o di dominazione, contraddistinto dall’effetto di seduzione su di noi esercitato dal sistema dei segni. Ed è qui che la moda, compimento dell’economia politica, rivela l’ultimo stadio di evoluzione della merce, nella sua passione suicidaria per un passato sempre da resuscitare. La moda: l’assenza del bisogno naturale e la pura seduzione della combinatoria dei segni linguistici e monetari.

Fin qui, in estrema sintesi, Baudrillard. Ma passiamo a un altro spaccato dell’ipercapitalismo contemporaneo, magistralmente fotograto da David Cronenberg in Cosmopolis, tratto dal capolavoro omonimo dello scrittore statunitense Don De Lillo. Entrambe le opere – quella letteraria e quella cinematografica – sono infatti magistrali anticipazioni del cybercapitalismo contemporaneo. Prestiamo attenzione al film: esso può essere suddiviso e analizzato anche da un punto di vista stilistico, componendosi di diverse parti che mettono in scena la parabola distruttiva del capitalismo finanziario, incarnata nella figura del protagonista, giovane rampante miliardario. Appena uscito di casa, quest’ultimo comunica l’assurda decisione di voler recarsi ad aggiustare il taglio dei capelli, quando fuori – per le vie di New York – imperversa il caos a causa delle rivolte. Tutto il film, in effetti, apparentemente claustrofobico, è ambientato nell’enorme limousine del protagonista che sfila lentamente sulle strade di una città preda di riots: ribellioni contro il capitalismo. Al punto tale che, a un certo momento, compare su uno dei grattacieli di New York la scritta icastica «The Spectre of Capitalism is haunting». In altri termini, il film racconta in modo anticipatorio quanto poi toccheremo affrontando l’ultimo testo di Arjun Appadurai, vale a dire la crisi dei subprime. Non si tratta certo, come è ovvio, della prima grande crisi economica della storia, ma di quella crisi che riguardando la nostra generazione ci ha gettati in uno stato di crisi permanente.

Ed è qui che vale la pena soffermarsi sui lavori del sociologo e filosofo Maurizio Lazzarato, il cui lavoro notoriamiente si struttura attorno all’asse della relazione tra credito e debito: relazione, questa, oggi al centro di ampie e vaste riflessioni, che spaziano da Nietzsche a Weber a Walter Benjamin. E tuttavia caratteristica del lavoro di Lazzarato è non pensare all’economia del debito come a una condizione che affonda in un deficit ontologico, ma di riportarla alla peculiare condizione economica dell’epoca contemporanea che solitamente si fa risalire alla crisi del 2007/8. In effetti, tuttora ci troviamo nel mezzo di una discussione riguardante i parametri della governabilità – ormai posta su scala europea – che si gioca essenzialmente sulla trasfusione di somme di denaro pubblico ad enti privati (le banche).

Ma ciò che conta sottolineare è come Lazzarato ponga nei suoi lavori a fondamento del capitalismo contemporaneo la relazione tra creditore e debitore che – pur non corrispondendo alla tradizionale logica di classe – rimane nondimeno una relazione di sfruttamento giocata sul piano temporale. Visto che io, soggetto, assolvo al mio debito in uno specifico lasso di tempo, cos’è questo debito se non un apparato di cattura del tempo della mia vita, inteso come possibilità dell’esistenza? Il tempo viene contratto, instradato e messo sui binari di un continuo gioco tra insolvenza e solvibilità dei propri debiti. E da questo punto di vista un aspetto di rilievo della riflessione di Lazzarato – che ci riporta a Baudrillard e a Marcel Mauss che in questa sede per ragioni di spazio non possiamo trattare – riguarda la peculiare natura di tale economia del debito, che nulla ha a che vedere con la produzione e quasi tutto ha a che fare con il politico. Una guerra di classe a bassa intensità che Lazzarato riporta ai lavori di Gilles Deleuze e Felix Guattari: non vi è alcuna situazione di eguaglianza alla base dell’economia ed è proprio questo che rende l’economia un ambito eminentemente politico. Ma Deleuze e Guattari si diceva: per i due filosofi «il paradigma del sociale non è dato dallo scambio». Ma vi è di più: attraverso l’era dell’economia finanziaria si intende produrre un uomo indebitato che può essere definito come uomo del controllo, come recita Deleuze nel Poscritto alla società del controllo.

Ma si passi brevemente ad Arjun Appadurai, il quale sostiene molto chiaramente come il cedimento dell’economia finanziaria, l’esplosione della bolla immobiliare e quindi della crisi del 2008 (una crisi del debito privato che come un virus è arrivata in Europa ed è divenuta una crisi del debito sovrano), sia dovuta a un cedimento linguistico, nella misura in cui l’economia si fonda sul linguaggio e le transazioni finanziare non sono altro che transazioni linguistiche: quelle transazioni che coinvolgono quei prodotti, poi rivelatisi tossici, chiamati «derivati»… là dove non si tratta che della cartolarizzazione di mutui ipotecari, impacchettati in strutture finanziarie. E tuttavia Appadurai fa una distinzione tra economics, come scienza economica che si insegna nei dipartimenti di economia, ed economia finanziaria, qualcosa che coinvolge altri elementi, come il sacro, il linguaggio, la performatività – elementi che vanno al di là dello strumentario dell’economia classica fondata sull’individuo interessato e utilitaristico. Vi è ad esempio, nel testo di Appadurai, la domanda sul perché il denaro susciti un desiderio illimitato: dove non può che esservi un eccesso simbolico, che richiama un elemento pulsionale, irrazionale, che va al di là di ogni lettura utilitaristica dell’economia.

Senza entrare nel merito dell’analisi della critica del «contratto» che Appadurai mutua da Marcel Mauss (e basta qui ricordare le parole con cui si apre il Saggio sul dono), va sottolineato come per Appadurai la forma derivata sfrutti il potere linguistico del contratto, facendo giocare la forma sui generis che il denaro assume nel mercato finanziario. Qui vediamo tornare la questione del valore e le modalità in cui il valore, incarnato nel denaro, prenda una forma sui generis.

Vi è infatti per Appadurai (memore della lezione di Durkheim) una dimensione rituale, quasi magica del mercato contemporaneo, un mercato che dunque sfugge ai parametri della razionalità di calcolo di weberiana memoria: il derivato è piuttosto, secondo la lettura dell’antropologo, una forma di potlach, nella misura in cui è una promessa agonistica non mantenuta. Un icastico modo per comprendere la natura del derivato si trova d’altronde in un altro film sul tema del capitalismo contemporaneo, The Big Shot: film intercalato da piccole scene in cui ad esempio Margot Robbie da una vasca con un flute di champagne in mano ci fa intendere la natura del capitalismo contemporaneo o ristoratori giapponesi spezzettando il sushi illustrano la formazione stessa dei derivati. Ma ciò che rileva nella lettura di Appadurai è che il derivato è fatto di rischio, un rischio fondato su un altro rischio: dove ciò che è da tenere a mente è come la carattersitica del prodotto derivato sia quella di trasformare il rischio (che in economia sarebbe ciò da dover evitare) in fonte di profitto. Eccedendo la formula marxiana «denaro-merce-denaro» per arrivare alla diretta formula «denaro-denaro»: un denaro che cioè non fa che autoalimentarsi.

Diverse sono le teorie del denaro che non si sono potute trattare in questa sede: la teoria del denaro marxiana, o la teoria del denaro di Marcel Mauss (autore abbondantemente utilizzato da Appadurai), che ne rinviene un’origine magico-religiosa piuttosto che logica. Per Marx com’è noto vi è una necessità logica del denaro, derivata dallo scambio: il denaro è logicamente necessario e che esso si incarni inizialmente nell’oro non è altro che un momento convenzionale e contingente. Appadurai definisce invece il denaro come qualcosa di sconfinato che il desiderio umano non potrà mai esaurire, interrogandosi su questa brama insaziabile, alla radice del carattere potenzialmente illimitato dei nuovi prodotti finanziari. E tuttavia ci si può interrogare, a partire da un autore spagnolo come Villacanas, su come la struttura psichica dell’uomo – quale descritta da Freud e Lacan – possa sostenere questo carattere illimitato del desiderio e del godimento: in una fase in cui si è dato, secondo studiosi che fanno leva sugli studi di Jacques Lacan, il passaggio da un soggetto edipico a un soggetto post-edipico, un soggetto non più governato dal principio di realtà, ma dal godimento, da quello che Lacan chiama «plus-godere» – che non è che l’altra faccia del «plus-valore».

Un ultimo appunto riguarda l’importante analisi che Appadurai conduce del pensiero di Max Weber, nella misura in cui l’antropologo indiano rinviene due tradizioni divergenti scaturite dal pensiero weberiano. La prima tradizione ha a che vedere con il calcolo, con la razionalità-di-scopo, con il rapporto mezzi/fini, là dove la seconda si sofferma sul «magico». Se per Weber il profetismo scalza il pensiero magico dal mondo occidentale, rendendolo la «gabbia d’acciaio» della razionalizzazione burocratica, le altre tradizioni del globo mantengono tuttora un rapporto con il religioso, dall’India all’Islam. Questa seconda tradizione derivata da Weber dunque si interessa delle teorie vernacolari, le teorie dal basso, che ruotano attorno a temi come la salvezza, la fortuna, il rischio, il caso, la divinazione. Ma ciò su cui occorre appuntare l’attenzione è come per Appadurai l’etica razionalistica sia un’etica contingente, un’etica storica, accanto alla quale possono esistere ed esistono (gli esempi del’antropologo provengono dall’India) etiche alternative che possono governare il mercato, etiche di tipo non calcolante.

È sorprendente trovare Weber in una tradizione di pensatori che – da Pascal a Einstein – si sono interrogati sul ruolo della fortuna, dell’azzardo, del caso e della probabilità in relazione alla vita umana e al progetto divino. E tale fatto è tanto più importante perché mette al centro il problema dell’incertezza. Carattere dirimente del lavoro di Appadurai è infatti quello di mettere in evidenza il fatto che oggi non ci si trovi in una fase in cui il problema è quello del «rischio», poiché anzi il rischio è ciò che viene messo a frutto… Al contrario di quanto scritto da Ulrich Beck, teorico della seconda modernità, non ci troveremmo oggi nella società del rischio, ma nell’era dell’incertezza. Nella società, meglio, che capitalizza la ricchezza dei «dividuali». Il concetto di «dividuale» (l’individuo scomposto e reso fungibile da banche dati, big data etc.) è concetto eminentemente deleuziano: a indicare un soggetto appunto ridotto a «dividuo», a qualcosa di scomponibile che può essere ricomposto dalla società contemporanea e rimodellato a seconda delle esigenze del valore: quello che, oramai, viene definito «capitale umano».

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Bibliografia

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