Tutta n’ata storia
Forcella Strit: un manifesto
«e nun mme può dà
tutta ‘nata storia
ca se po’ cagnà
si te ‘ncazze è tragica e nisciuno ce vo’ penzà
e pè me resta cielo ‘e notte
cu’ ‘nu filo mmano s’aspettava ‘o sole
e pè me resta solo addore
terra c’ammesca ‘a vita e se ne va»
Pino Daniele, Tutta n’ata storia, da Bella Mbriana, 1982.
Noi siamo nati per fare il bene. Ad bene agendum nati sumus. Sono queste le parole incise sullo stemma del quartiere Forcella. Le potete rileggere e ricercare increduli, ma scolpite nella pietra furono pensate esattamente per questo luogo di Napoli continuamente maltrattato o, ancor peggio, ignorato. Ed è di questo che narra lo spettacolo ideato da Nino D’Angelo e diretto da Abel Ferrara (in collaborazione con Raffaele Di Florio) dal titolo Forcella Strit – laddove strit musicalmente richiama la parola strada (street) in inglese e, trasversalmente, il significato di stretto nella lingua napoletana. Parla del bene che siamo chiamati a fare, parla del bene che noi stessi sentiamo di dover fare. Un lavoro che parte da un progetto di teatro sociale, organizzato in laboratori gratuiti per ragazzi di Forcella e che punta all’emersione di talenti – spesso inconsapevoli o «oppressi» da situazioni di difficoltà – e alla diffusione di una cultura della relazione umana. Un’ingerenza questa del Trianon che spudoratamente – e menomale! – interviene direttamente sul tessuto sociale perimetrale ad esso, aiutando il territorio a rivendicare la sovranità sul proprio presente.
L’obiettivo di D’Angelo punta a far divenire questo progetto il primo passo di un laboratorio permanente del Trianon, il teatro del popolo, agendo in maniera puntuale ad accogliere e formare le nuove generazioni, ponendo attenzione su quelle che sono le esigenze di autorappresentazione e riflessione – sulla scia del modello tragico greco – di un quartiere troppo spesso al centro di cronache nere e troppo poco «curato» dalle istituzioni del territorio. Ricorre in più punti l’interrogativo che vede protagoniste le istituzioni e i loro ruoli. Da notare in sala la presenza di un attento Presidente della Camera Roberto Fico e l’assenza visibilissima di Luigi De Magistris. Partendo da una descrizione antropologica e storica del quartiere, attraverso la narrazione di una vicenda comune d’amore, si diramano momenti incisivi per lo spettacolo che, in maniera alternata, gli attori stessi, uscendo dai propri personaggi, descrivono e approfondiscono, come in una sorta di autoanalisi, di seduta partecipata, di momento umano. Ecco la parola chiave di tutta questa operazione che ritorna: umano, umanità. L’essenza di tutto è l’umanità, con i suoi limiti ed i suoi picchi altissimi, ma soprattutto con le sue domande ricorrenti: dov’è questa decantata, vagheggiata, promessa giustizia sociale?
Lo spettacolo non abbatte solo la quarta parete, ma ne abbatte una quinta, la parete di fondo del palcoscenico, abbatte forse, tutte le pareti del teatro, rendendo labili o addirittura annullando i confini tra arte e vita, ci porta in strada. Difficile allora dire se sia solo una sensazione quella di trovarsi seduti in via delle Zite, ad osservare uno stralcio di vita comune di una Napoli indipendente e autonoma che si batte con se stessa per riuscire a svincolarsi dai problemi a cui è abbandonata da ormai secoli, o se siamo realmente seduti lì convocati da una comunità consapevole di dover fare la voce grossa e di dover elargire gentilezza, in un limbo infinito ed autoconservativo. Ad orchestrare questa cerimonia rituale fra sembianza e realtà è un fantomatico Direttore, modellato sulla sagoma del Pazzariello, una figura in bilico tra reale e fantasmatico, che comanda il procedere dello spettacolo nei suoi vari momenti, ritmando confessioni e narrazioni con l’autorità di un traduttore interno alle dinamiche della storia o come un Caronte partenopeo che traghetta gli attori dentro e fuori il velo che divide realtà e interpretazione. E non è una figura casuale se quest’opera – scritta da Maurizio Braucci – è il racconto di chi esisteste nell’impermanenza, di chi si sente un fantasma vivo, e forse ha il privilegio di un distacco che fa ridere nell’infelicità e non si lascia spegnere dall’oscurità.
Questo Forcella Strit, in fondo è qualcosa di più di uno spettacolo. È probabilmente il manifesto di chi vuole altro da ciò a cui è «destinato miseramente», di chi ha la volontà di costruire un’altra storia. Tutta n’ata storia. Un manifesto divenuto sempre più necessario e urgente a Napoli, ma anche in un paese in cui Napoli ha sempre mantenuto il ruolo di coscienza. Per questo non c’è solo Napoli o Forcella in questa storia, c’è un universalità che non scade nella retorica prevedibile dell’elogio alla povertà e al colorito partenopeo, restituendo Forcella come uno spazio dell’anima, un quartiere di quella contraddittoria città esistenziale che ci portiamo dentro.
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