Per una curatela performativa

Lo Spazio Esistenziale: Una mostra alla Fondazione Morra

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Liz Magor, Casual - Lo Spazio esistenziale. Definizione #2, Casa Morra - Napoli (2019).

Oggi, 31 maggio alle ore 18.00 , si inaugura a Napoli, presso Casa Morra (Salita San Raffaele, 20c), Lo Spazio Esistenziale. Definizione #2 – a cura di Lucrezia Longobardi. Opere di Berlinde de Bruyckere, Roberto Cuoghi, Helene Fauquet, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Liz Magor, Vettor Pisani e Rachel Whiteread. Qui pubblichiamo il testo programmatico della curatrice. 

Questo che andrò a definire è un lavoro di cucitura tra l’esperienza dell’artista e quella del curatore, il portato concettuale dell’opera e quello filosofico dell’apporto curatoriale. Intendo chiarire che il piano su cui mi interessa far convergere queste due linee di lavoro è quello esistenziale, il punto in cui l’esperienza della vita compenetra la figura dell’artista e del curatore, in una totale immersione, in una relazione che attraversa, come una freccia o come un ago, il piano fisico, quello emotivo e quello speculativo.

Negli ultimi anni ho portato avanti una ricerca sperimentale che mi ha condotto ad un approccio profondamente umano e viscerale rispetto al dispositivo mostra. Abitare il lavoro in senso letterale, biologico, è diventata una possibilità d’indagine critica capace di andare oltre il necessario confronto letterario. Questa modalità è diventata, quindi, la cifra attraverso cui relazionarsi all’opera forzando un principio di reciprocità oltre il suo limite abituale. Essere presente nell’opera, esporsi ad essa non solo nei canonici tempi d’esposizione, ma anche nei tempi morti, nelle distrazioni, nelle confusioni, nella insistenza di una attitudine performativa che si misura anche con le impellenze fisiche del sonno, del nutrirsi, dei cambi d’umore, delle necessità di variazione del contesto, genera qualcosa che indirizza il dialogo opera-fruitore verso una prospettiva più marcatamente dialettica. Ma c’è anche un altro piano rilevante in questa ricerca verso una curatela performativa, quello appunto dell’utilizzo dell’umano come diaframma di risonanza, come superficie vibratorio-armonica. È una meccanica, questa, che affonda il suo senso nelle radici del teatro e che nasce appunto per creare una mediazione che attraverso la fisicità possa tradurre in ulteriori linguaggi sensibili, la lingua dell’opera drammatica. Nel teatro, infatti, l’attore perfetto non è né automa né interprete. Egli somiglia piuttosto a uno strumento, una sorta di prisma capace di scomporre lo spettro di un compatto raggio luminoso derivante dall’opera.

Il mio percorso curatoriale di stampo performativo intende non tanto presentare le opere, quanto sottoporle a una frizione. La stessa che, in fondo, subiscono da parte di ogni spettatore che vi si esponga, ma portata al suo limite, al punto di rottura di ogni distanza, di ogni separazione, facendo dello spazio della performance non uno spazio proiettivo, ma immersivo. Uno spazio in cui lo spettatore possa, al contempo, esporsi all’opera e alle sue conseguenze su tessuti umani. Durante gli anni di studio accademico mi sono avvicinata alle pratiche artistiche da autrice, da artista, e questo mi ha permesso di capire l’importanza di una indagine che volgesse prima di tutto verso una verità umana all’interno di un’opera. Nel maturare un ruolo differente nella filiera lavorativa, e accostandomi quindi alla curatela e alla critica, ho deciso di mantenere le stesse priorità, la ricerca della verità attraverso se stessi e le proprie esperienze. Un approccio strettamente personale: misurarmi fisicamente con la riflessione filosofico-critica, e allo stesso tempo prendere la misura dell’opera attraverso il mio corpo.

Lo spazio esistenziale, progetto curatoriale nato nel 2017, è lo studio attraverso il quale ho compreso la necessità dell’essere nello spazio dell’opera e di viverlo come luogo. Tale determinazione, seppur lontana dalla abituale dimensione in cui opera il curatore, è assimilabile a ciò che avviene, in parte, nello spazio di fusione dell’immagine costituito dall’artista – che riversa nel quadro, nell’installazione o nella scultura, il portato di un tempo esperienziale composito e processato – e nell’esperienza estetica dello spettatore che stabilisce con l’opera una connessione profonda capace di accedere a tempi e spazi archiviati riportandoli sensibilmente alla luce. Fra questi due piani, tuttavia, mi pare di percepirne almeno un altro possibile, quello in cui quei tempi-spazi umani e contingenti all’opera diventano luoghi reali, fisicamente attraversabili, esperibili.

Per usare ancora una volta un gergo teatrale, si potrebbero definire luoghi in cui mettere l’opera alla prova. Ed è essenzialmente quel che accade a ogni attore o performer che, per restituire quegli elementi empatici propri della dimensione fisica della scena, del suo hic et nunc che va oltre il piano del testo stampato, necessita l’istituzione di un collaudo, di una scalata dell’opera stessa, un suo inghiottirla (e quindi conoscerla) e da essa farsi inghiottire (e dunque farsi conoscere) fino ad esserne parte, ad esserne superficie ulteriore paradossalmente necessaria. Conoscere l’opera attraverso la sua esperienza estesa e condividere questa circostanza di estensione come momento di confronto anche per il visitatore è il mio interesse critico.

La prima definizione del mio progetto (2017) è partita dalla costruzione di uno spazio che riflettesse, per certi versi, il mio spazio vitale. Era stata realizzata in un appartamento dalla pianta identica a quello in cui vivevo allora e le opere scelte, dal letto di Gregor Schneider alla libreria di Renata Lucas, riproducevano le medesime e controverse meccaniche abitative che in quel momento mi trovavo a vivere. In quell’appartamento, esposta impunemente, c’era la mia casa, e con essa i conflitti da essa generati, che diventavano universali grazie alla verticalità delle opere e alla spogliazione assoluta del soggetto autore di una scrittura allestitiva che si poneva come dispositivo profondamente empatico.

La seconda definizione (2019) è stata, il passo successivo. Lo spazio di lavoro si è trasformato in spazio vitale vero e proprio. L’appartamento non riproduce, ma costituisce lo spazio in cui si svolgerà la mia vita per circa due mesi e mezzo. Le opere non sono più dispositivi di decodificazione di uno spazio reale, ma sono, a loro volta, superfici d’uso, d’attrito.

Questo approccio, che certo parte da una forte impostazione accademica nella fase di costruzione del perimetro di concentramento in cui la performance va a svolgersi, non ha però la tradizionale attitudine assertiva della critica. Esso si pone piuttosto come una sorta di misurazione empirica. Si costituisce a partire da un orizzonte di ricerca che non si esaurisce nella dimensione storico-artistica, ma attraverso di essa rovescia l’interrogativo verso il punto da cui è venuto: quello della necessità di una ricerca esistenziale che è ciò da cui muove ogni autore, ogni artista. La mia presenza come superficie di ulteriore lettura, e la costituzione di uno spazio che si connota come estensione e amplificazione dell’esperienza estetica, è la possibilità che mi è data di istituire un tempo in cui mi possa immergere integralmente in una ricerca e al contempo di condividere questo spazio e le mutazioni che esso provoca su di me con il visitatore. L’istituzione di una esperienza estetica estesa, in cui le opere non costituiscono i singoli campi di indagine, ma partecipano consecutivamente alla definizione di una condizione esperienziale complessa, comporta anche la perdita di senso di ogni distinzione disciplinare che possa porsi fra opere visive, letterarie, cinematografiche, teatrali. All’interno dello spazio performativo ogni opera entra in soluzione con gli altri elementi configurando esclusivamente la dimensione dell’esperienza. L’entità reale della mostra risiede, quindi, nel flusso di pensieri del singolo visitatore o dei suoi scambi col curatore stesso, o finanche di uno di questi soggetti con l’artista autore di una delle opere fagocitate in questa sorta di flusso di coscienza condiviso.

Ovviamente, il momento performativo è preparato tramite una ricerca delle fonti narrative, visive e filosofiche che andranno a costruire una rigorosa griglia la cui esattezza semiologica è l’unica condizione possibile affinché la performance possa avere senso e il percorso possa condurre verso una via d’uscita, esattamente come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, in cui proprio dall’esattezza dipende la salvezza degli abitanti di una casa che non è poi troppo dissimile dai dispositivi che fin qui ho inteso realizzare.

In questo senso, devo ammettere che la presente ricerca si trova meno a suo agio in una dimensione professionale come quella attuale, estremamente legata alla distinzione di piani, di carriere e di identità rispetto quella dimensione fluida che è stata propria della storia dell’arte in periodi e contesti come quelli legati a Dada e al Surrealismo. Il rapporto con gli artisti, che intendo ricercare in questo percorso, infatti, dovrebbe non limitarsi al semplice corpo a corpo con le opere, ma a uno scambio degli archivi personali di entrambi i soggetti di creazione, arrivando a concorrere al componimento di un lavoro corale in cui i riferimenti divengono comuni e si equilibrano, disperdendo le origini e divenendo corpo unico, luogo capace di produrre un’eccedenza di significato rispetto alla norma, capace anche di dare scandalo, vivo, in grado di ospitare ciò che è osceno alla mostra stessa, l’inquietudine come dimensione performativa, la vibrazione del soggetto che ha evocato quell’immaginario e vi è entrato in risonanza. Finendo poi per esporre il proprio corpo come superficie di tale risonanza.

La figura cui mi riferisco per questa ricerca, quella di un curatore performativo è dunque un ibrido, una figura forse inedita, per certi versi, ma che ha riferimenti precisi, parentele dirette nella storia delle arti e di cui forse Tadeusz Kantor è il più evidente rappresentante. Con la sua presenza fisica in scena, né attore, né regista, padrone di ricordi che sfuggono al suo controllo e con i quali tenta di ristabilire un rapporto provando a riorchestrarli, ad ammansirli, talvolta arrendendosi alla loro vitalità e finendo al massimo per osservarli laconicamente.

Immagino questa pratica come un’edificazione architettonica dotata di sentimenti e passioni. Come una macchina capace di tremare e di far tremare. La figura del curatore, in questo modo, si espone in modo del tutto scoperto, divenendo interfaccia umana nell’abolire ogni limite fra privato e pubblico, fra esperienza e pensiero, fra vita e professione. Essa va ad esporsi impudicamente e così a costituire un termine integrale di rifrazione empatica, di compenetrazione umana, gesto inscindibile dall’identità di chi l’assorbe e riproduce nello spazio di riflessione di una mostra. Ciò conduce ad essere presenti come individui di riferimento di una comunità che si pone al centro della riflessione, e come punto di misura della riflessione stessa.

Le pareti dello spazio espositivo, una volta composto con meticolosità, divengono il recinto di uno sforzo, un perimetro all’interno del quale anche la mente del curatore, giunta all’apice della sua costruzione, si rovescerà, senza ordine e distinzioni, mostrando il rapporto di fusione fra fonti ed elaborazione, tra originario e mutato, fra originale e processato, abolendo ogni irrealistica distanza fra nutrimenti e digestione, fra definizioni e autodefinizione. In una danza di corpi, l’artista, o gli artisti, e il curatore, compongono a più mani il piano d’esposizione.

Affrontare attraverso questa dinamica un progetto in creazione deriva dalla necessità (da parte del curatore) di mettersi completamente in discussione, a viso aperto, sul campo, esperendo ogni momento del processo creativo e sconfinando in questo, operando a servizio dell’opera, assieme a questa. Performare, appunto. Dare forma. In senso generico, realizzazione concreta di un’attività, di un comportamento, di una situazione determinata (cit. Treccani alla voce performance). Ciò che qui si vuole unire alla pratica curatoriale classica è una drammaturgia cucita tra le costole dell’opera e che ospita al suo interno diverse sequenze capaci di tradurre in scala, in laboratorio, i meccanismi di produzione della realtà\delle realtà, aggiungendo vitalità all’apparato.

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