Un rinascimento a freddo

Affresco della città di Napoli e della sua esplosione culturale

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Andy Warhol, Vesuvius (1985)

«Napoli è la caffeina d’Italia». A dirlo, citando disinvoltamente Marinetti è Hans Ulrich Obrist , seduto ad un tavolino di Piazza San Domenico Maggiore, assieme ad Andrea Villani, direttore e autore di un rilancio straordinario del Madre, miglior museo italiano secondo la stampa italiana e straniera, Alfonso Artiaco, gallerista al trentesimo anno di attività internazionale e Gian Maria Tosatti, che proprio qui ha appena concluso il suo titanico progetto triennale Sette Stagioni dello Spirito.

È un caldissimo luglio del 2016 e questa frase, detta davanti ad una pizza fritta, con fare divertito e tranchant, resta impressa come se fosse qualcosa di assai più serio di quel che sembri. Sospesa sulle nostre teste per quasi un anno, quasi ad aspettarsi dal tempo una ulteriore verifica, è poi tornata ad imprimersi come una sorta di sigillo, su quella che, forse, per davvero, è una nuova età dell’oro per l’arte napoletana, un momento di splendore e fermento , onda lunga, piena di creste eccezionali. L’ultima è forse stata la capacità del Madre di stimolare due grandi artisti internazionali, Stephen Prina e Wade Guyton, a sviluppare progetti completamente ispirati a questa città, portando il museo ad essere non solo luogo di esposizione, ma anche di elaborazione, suggestione, provocazione. Così, si presentano attualmente due piani del museo, mentre il terzo è occupato da un’antologica dell’artista italiano del momento, Roberto Cuoghi, in quella che non può essere solo una fortunata coincidenza.

D’altra parte la stessa densità di grandi percorsi si ritrova nel calendario dell’intera città, nei mesi trascorsi, con momenti per certi versi cruciali, a partire dall’ultima mostra di Eugenio Tibaldi, che ha invaso l’Hotel Caracciolo con un lavoro pieno di delicatezza, come nello stile dell’artista, ma, al contempo, capace di porre una questione centrale dal punto di vista storico: la storica povertà, a quarant’anni dalla presentazione del «Rapporto sui limiti dello sviluppo» che teorizzò la decrescita, attraverso un dispositivo che riesce a descrivere con accenti duri la parabola del presente. Perché l’arte non è che questo: una definizione sintetica, bruciante della realtà. Ed è in tal senso che si può leggere l’arte napoletana di questi anni, un’arte nata in strada, proprio perché forse è in strada che questa città vive. Le Architetture minime di Tibaldi, che collocano negli aristocratici corridoi di un grande albergo moduli abitativi di cartone e plastiche sviluppati dai clochard, sono allora l’ennesima metafora fuori metafora per parlare di una generazione estremamente sofferente, una generazione sull’orlo del baratro, colta un attimo prima di una contrazione storica che potrebbe avere l’effetto di un eruzione vulcanica e che qui, ai piedi del Vesuvio, ha trovato l’energia per farsi splendore, finché dura, finché c’è tempo ancora.

Ma sarebbe sbagliato legare a singoli percorsi – per quanto luminosi – tutta l’arte napoletana di questi anni che sembra un inestricabile groviglio di passaggi, di reciproche ispirazioni che, come un sistema di vasi sanguigni, di vasi comunicanti, partono dai gesti esemplari degli artisti e si riverberano sulla nascita di nuove gallerie, nuovi spazi indipendenti, nuovi approdi di altri protagonisti che vengono a scrivere la loro pagina della storia e che si incontrano la sera nella bottega del corniciaio Giuseppe Russo a Montesanto, mettendo attorno ad un bancone sempre ingombro e caotico, alcuni dei titolari della squadra napoletana come Bianco Valente, ricercatori costanti dell’essenzialità degli elementi, Marianna Agliottone, curatrice e studiosa dell’economia dell’arte, Vincenzo Rusciano, plurale artista polimaterico e docente universitario, Umberto Di Marino, gallerista che da sempre volge il proprio sguardo alla trasformazione ed alla questione identitaria di una umanità-comunità, assieme alle giovanili dell’Accademia di Belle Arti. Così la città si anima, come un corpo unico, nei vicoli di un perimetro che coincide col grande romanzo visivo intessuto su questo stesso corpo, da Gian Maria Tosatti con Sette Stagioni dello Spirito, evento di portata storica e attivatore culturale sismico, che in tre anni è riuscito a trasformare in opera d’arte l’intera area urbana, mettendo in cammino oltre 25.000 persone attraverso una mappa che da sempre è spazio analogo dell’anima. Tra le sue strade sono comparse figure che mischiano storico e popolare, Anna Maria Ortese e Maria Callas, Andy Warhol e Madonna, uomini e donne, icone, che a Napoli hanno lasciato una traccia persistente e che nei poster a grandezza naturale di Roxy in the Box, sembrano aver trovato una seconda possibilità d’esistenza, mischiata alla gente comune, una seconda vita.

La strada resta sempre l’agone di questa sorta di Rinascimento a freddo. Mentre la città continua costantemente a trasformarsi con l’apertura di nuovi spazi ibridi, non definiti, non convenzionali, come Made in Cloister, che traina la rinascita di un intero quartiere, Porta Capuana, attirando attorno a sé presenze pensanti e produttive, come quelle di Jimmy Durham e Maria Thereza Alves, della Galleria Dino Morra, che definisce la sua identità come luogo di lancio per una giovane generazione di artisti napoletani e che vede, dall’altra parte della città, e al rovescio di quell’estetica, un’ avventura analoga come quella della Galleria Acappella di Corrado Folinea, che attraverso una ricerca di respiro internazionale traina giovani artisti stranieri nel capoluogo campano. Anche la politica sembra in stato di grazia nel momento in cui apre le porte del proprio patrimonio immobiliare alla cultura, all’uso civico di spazi che non hanno più bisogno di essere occupati ma che si concedono ad una rigenerazione partecipata da strati compositi di società civile al servizio dello sviluppo culturale del territorio.

È il caso degli otto spazi «assegnati alla comunità», tra cui spicca per valore culturale ed artistico l’Ex Asilo Filangieri e per valore sociale Santa Fede Liberata. Anche la curia dal canto suo ha mostrato un’apertura dando fiducia al progetto di Christian Leperino, impegnato artista e fondatore dall’associazione Smmave, nuovo centro per le arti contemporanee, che ha recuperato e riaperto la chiesa abbandonata della Misericordiella alla Sanità. Dall’altra parte dell’arco legislativo, che pure nella sua logica composita sembra mantenere forse solo qui una solida tensione unitaria, due delle fondazioni principali del territorio: la Fondazione Morra Greco, che si prepara ad riaprire il suo palazzo a seguito di un restauro integrale, artistico e architettonico, e la Fondazione Morra che ha aperto recentemente la sua nuova sede di oltre 4000 metri quadrati per ospitare una collezione immensa che va da Duchamp a Vettor Pisani, da Julian Beck ad Allan Kaprow, tutti impegnati iperbolicamente in un programma che animerà i prossimi 100 anni.

Un altro diagramma sismografico dell’incessante attività vulcanica nell’arte di questa città è dato dalla presenza delle gallerie, di quelle che continuano ad investire sul territorio e di quelle che qui si stabiliscono creando un tessuto intergenerazionale molto interessante e che fa incontrare figure come quelle di Lia Rumma e Tiziana Di Caro, nei cui spazi si incrociano percorsi internazionali e autoctoni proseguendo la tradizione inaugurata da Lucio Amelio con avvenenza e maestria. Mentre per l’autunno si prepara l’arrivo di una delle gallerie internazionali più interessanti, quella della londinese Thomas Dane. Ma un vero Rinascimento è esplosione culturale che va oltre i confini disciplinari e anzi li abbatte. Così, il sempre alto livello della produzione cinematografica d’autore, fa un salto in questi anni proprio attraverso le collaborazioni fra artisti differenti. È il caso di Edoardo De Angelis, che dopo l’ottimo Perez (2014), si supera con una perla quale Indivisibili (2016), storia di periferia, piena di grazia e amarezza, in cui la colonna sonora di Enzo Avitabile, altro protagonista assoluto della scena musicale napoletana, ha il ruolo e la solidità di una vera e propria colonna vertebrale.

O ancora è il caso di Bella e perduta (2015) di Pietro Marcello, recentemente proiettato al MoMA di New York, la cui prima parte è girata quasi per intero all’interno di una delle installazioni di Tosatti. Tutto questo riflette un intreccio di sceneggiatori, attori, registi, artisti, dal cui dialogo nascono evoluzioni esponenziali, come il recente Sindaco del Rione Sanità, messo in scena da Mario Martone, tornato a lavorare nei luoghi non convenzionali della città dopo oltre vent’anni, per resuscitare, con interpreti di periferia, un testo di Eduardo che così rivoltato sfugge alla sua stessa tradizione e si consegna ad una reale immortalità. È forse questo consistente sistema di equilibri ad aver portato proprio a Napoli la prima edizione dello Sky Arte Festival, tutto incentrato sul tema della Rigenerazione e sull’assecondare un dialogo fra una schiera di artisti, attori, musicisti, uomini di cultura, in uno scenario che, da sempre, è tra i più vivaci e consapevoli.

In questo ruggito di un mare creativo in tumulto, come quelle di Obrist, restano impresse le parole che il ministro Franceschini pronunciò alcuni mesi fa: «Napoli potrebbe essere una capitale mondiale della cultura», o quelle rimbalzate sui social dal gallerista Francesco Annarumma: «Napoli potrebbe essere una nuova Berlino». Esse, tuttavia, sembrano auspicare qualcosa che nei fatti è già in corso. La verità è che Napoli non deve diventare proprio niente altro da ciò che già è: una città nella sua piena età dell’oro, una città che sta vivendo un Rinascimento artistico cui forse nessuno presta tutta la fiducia necessaria, un Rinascimento a freddo, appunto, come l’eruzione congelata del vulcano di Warhol, che per poter essere vera chiede solo a chi la osserva di crederci, stavolta, fino in fondo.

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