Un materialismo queer è possibile

Scritti politici per un'alternativa

Un materialismo queer è possibile - Opera di copertina ok
Percy Bertolini, Gesù Bambino del melograno e del triangolo rosa (2024) - Dettaglio della copertina.

Pubblichiamo qui un estratto dal nuovo libro di Federico Zappino, Un materialismo queer è possibile e altri scritti politici, appena pubblicato per Mimesis. Il libro sarà presentato lunedì 20 maggio alle 18.30 presso la Libreria Modo Infoshop di Bologna, insieme a Porpora Marcasciano e Renato Busarello. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

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Salvo eccezioni non prive di significato, né prive di consenso, la maggior parte dei movimenti e dei partiti di sinistra materialista e anticapitalista attualmente esistenti al mondo mostra sensibilità e impegno contro l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza in tutte le loro forme, tra cui anche quelle di genere e sessuali. Tuttavia, se ciò è leggibile come parte di una più ampia e inequivoca presa di distanza da ogni analogia sia con le “ortodossie marxiste conservatrici”1, sia con le traduzioni più autoritarie delle ideologie comuniste, al contempo va segnalato che nessuno di questi movimenti o partiti può dirsi immune da una concezione dell’oppressione di genere e sessuale come un problema di ordine strettamente culturale. Ciò implica che la natura dell’impegno profuso dai movimenti e dai partiti della sinistra materialista e anticapitalista nei suoi riguardi – là dove presente – non è di tipo materialista, ma costituisce semplicemente una variazione sul tema dell’impegno già profuso dai corifei dell’ideologia dominante, cioè quella liberale. Anziché privilegiare esclusivamente la dimensione della tutela della libertà individuale, l’esponente di questo o quel movimento o partito anticapitalista tenderà a focalizzarsi maggiormente sulla tutela dell’eguaglianza, intesa però sempre in modo formale, in relazione all’eguale estensione di diritti da parte dello Stato, alla parità di trattamento giuridico, o alla ferma condanna delle varie forme di violenza e pregiudizio, intese, tuttavia, come fenomeni da deplorare in quanto contrari al “pluralismo etico”, o alla “civiltà”, e non come espressioni di un rapporto di forza da sovvertire.

Questo significa che i partiti e i movimenti che si ispirano al materialismo e che mostrano sensibilità e impegno nei riguardi dell’oppressione, della diseguaglianza e della violenza di genere e sessuale derogano proprio all’analisi e alla critica materialista nei casi in cui si tratta di indagare le cause e le soluzioni di un’oppressione che precede, attraversa ed eccede quella di classe marxianamente intesa. Le volte non rare in cui si esprimono in proposito, infatti, mobilitano un lessico e un immaginario liberale che contrasta proprio con le premesse teoriche del materialismo. D’altronde, se per il materialismo le varie forme di oppressione, di diseguaglianza e di violenza sono prodotte dalla società, per il liberalismo fanno invece capo a “differenze” ritenute naturali, o naturalizzate al punto da essere politicamente irriducibili e inemendabili. Ma soprattutto, se il materialismo mira a sovvertire le diseguaglianze abolendo il rapporto sociale che le produce, il liberalismo le trasfigura invece in differenze suscettibili di riconoscimento giuridico, senza che ciò preveda alcun mutamento strutturale.

Stando così le cose, sembra necessario chiedersi: perché il materialismo mutua dal lessico liberale le parole per contrastare l’oppressione di genere e sessuale? La mia risposta è che ciò accade perché il materialismo si rifiuta attivamente di estendere l’approccio materialista alla necessità di sovvertire la produzione sociale delle diseguaglianze di genere e sessuali – alla pari delle altre diseguaglianze sociali ed economiche –, ed esattamente come fa il liberalismo si limita a trasfigurare queste diseguaglianze in una serie di “differenze” o “diversità” intese come preesistenti a un rapporto sociale diseguale, sul quale la sinistra materialista e anticapitalista, alla pari del liberalismo, non si fa troppe domande. Il problema, tuttavia, è che il materialismo anticapitalista diventa in questo modo un’ancella del liberalismo. Mancando di pronunciare parole proprie sull’oppressione di genere e sessuale, il materialismo contemporaneo le mutua paradossalmente dalla razionalità liberale dominante, che è però responsabile dell’ingente quantità di danni sociali che un approccio materialista mira giustamente a contrastare. Il materialismo, così, tira acqua al mulino dell’ideologia contro cui si batte – e, paradossalmente, lo fa proprio quando cerca di rendersi utile ai fini del contrasto della nostra oppressione.

La paradossale dissociazione da sé del materialismo in relazione all’oppressione di genere e sessuale si deve al radicale occultamento di ciò che definisco “modo di produzione eterosessuale”. Infatti, se l’unico modo di produzione per il quale vale la pena mobilitare questa categoria marxiana è quello capitalistico, ne consegue che l’esistenza di fenomeni economici quali lo sfruttamento, la disoccupazione o la povertà dipendono da esso a prescindere da chi li esperisce – in quanto fenomeni “strutturali” –, e che, se pure esistono oppressioni e violenze di altro tipo (di genere e sessuali, così come razziali, o legate all’abilità psichica e fisica), queste devono essere ricondotte appunto alla persistenza di fattori culturali, solitamente intesi come fenomeni “sovrastrutturali”, più o meno residuali. Ciò significa che tali oppressioni e violenze sono ben lungi dal poter rivestire in se stesse una dimensione economica e, forse, dal detenerne la medesima importanza, tanto analitica quanto politica. Nei casi in cui non si farà fatica a riconoscere in termini di oppressione l’allontanamento da casa, la violenza (sessuale e non) o l’uccisione di una persona queer o trans, si farà comunque fatica a riconoscere come parte della stessa oppressione anche la sua disoccupazione, la sua povertà, il suo sfruttamento, la sua condizione di homeless o la sua esclusione radicale dai circuiti dell’economia formale. Ma come può avvenire questo, e perché?

Parte di questa risposta è che mentre, per il senso comune, una persona queer o trans è particolarmente esposta alla probabilità di esperire la violenza per ragioni ritenute connesse all’identità di genere o all’orientamento sessuale, la probabilità di ritrovarsi invece a esperire la disoccupazione, lo sfruttamento o la povertà la spartisce con molte altre persone, a prescindere da qualunque altra variabile. È questo ciò che fa dire agli anticapitalisti che l’oppressione esperita dalle minoranze di genere e sessuali, per quanto possa meritare tutti gli sforzi congiunti per contrastarla e abbatterla, è e resta di tipo culturale, e la sua relazione con l’oppressione materiale non è immediata né tantomeno necessaria.

In questa risposta immaginaria, ma verosimile, c’è chiaramente del vero: lo sfruttamento o la povertà non riguardano affatto solo le minoranze di genere e sessuali. La maggior parte della popolazione mondiale esperisce la violenza determinata dal modo di produzione capitalistico, derivando un salario da fame dallo sfruttamento intensivo, investendo su di sé in modo “utile” alla massimizzazione della propria capacità di produrre plusvalore e competendo, anziché cooperando, con chiunque altro, pena l’esclusione radicale dai circuiti dell’economia formale, oltre che dalla vita stessa. Inoltre, parte della violenza esercitata dal modo di produzione capitalistico sulla stragrande maggioranza della popolazione mondiale si manifesta per mezzo della catastrofe climatica in corso, oltre che, come abbiamo avuto modo di esperire in tempi recenti, con quella pandemica. Questo è ciò che rende necessario e vitale l’anticapitalismo, senza alcuna relativizzazione di sorta.

Il tramonto della socialdemocrazia, là dove si fosse affermata, e pur con tutto il suo carico di diseguaglianze, ha favorito il risorgere di un rapporto tra capitale e lavoro improntato a ciò che, senza mezzi termini, si dovrebbe definire schiavismo, fondato sulla “libera scelta” di sottostare alle condizioni del lavoro schiavile o di morire di inedia. Quale messaggio è sotteso alla precarizzazione indotta dal neoliberismo – una precarizzazione esistenziale, oltre che lavorativa o reddituale – se non che dalle ceneri del lavoratore salariato, titolare di diritti sociali, è risorto lo schiavo? Se il contratto di “lavoro” prevede un salario che serve solo ed esclusivamente a garantire che chi lavora sopravviva per il tempo necessario allo svolgimento del lavoro stesso – se il contratto di lavoro, in altri termini, prevede una forza-lavoro usa e getta – significa che l’analogia con lo schiavo non è metaforica, ma letterale. Se il contratto di “lavoro” non prevede il diritto all’equa retribuzione, alla previdenza sociale, all’autodeterminazione nelle scelte di vita e se non ti consente di vivere una vita in modalità che non somiglino necessariamente a una lotta per la sopravvivenza – in altre parole, se il contratto di “lavoro” si fonda sullo sfruttamento della tua forza-lavoro e mortifica le condizioni materiali della riproduzione della tua vita, sei uno schiavo e dovresti organizzarti con gli altri schiavi per affrancarti. Chiaramente, non c’è alcun pericolo che questo accada se lo schiavo è stato ammaestrato da decenni di ideologia neoliberista a ritenere che la sua condizione costituisca non già una forma di “schiavitù”, ma un’“opportunità” – indubbiamente, l’opportunità di sopravvivere anziché morire di inedia, in un contesto in cui però sono state pesantemente decimate le infrastrutture che renderebbero la vita dignitosa, oltre che possibile. (E non c’è nemmeno alcun pericolo che questo accada se lo schiavo vede nella propria condizione l’“opportunità” di svettare tra gli altri schiavi, in un indefinito e improbabile futuro, per diventare un piccolo padrone.)

La differenza sostanziale tra l’antica condizione schiavile e quella contemporanea è che quella contemporanea rappresenta l’ultima delle produzioni del modo di produzione capitalistico. Nella sua forma più pura, ciò si evince nella coscienza di sé dello schiavo contemporaneo nei termini di “capitale umano”: un capitale da incrementare attraverso l’investimento su di sé, sulle proprie risorse psichiche e fisiche e sulle proprie abilità cognitive e relazionali, così da diventare “l’imprenditore di se stesso” di cui parla Foucault. Se l’antica Grecia, o l’antica Roma, consideravano lo schiavo alla stregua del subumano, in quello stadio intermedio fra l’umano e la bestia, il capitalismo neoliberista non necessita invece di negare allo schiavo lo statuto dell’umano per considerare la sua stessa umanità alla stregua di peculiare mezzo produttivo, dal valore interamente strumentale. È proprio questo processo di trasformazione dell’umano in capitale a marcare una differenza dirimente nel modo in cui compariamo l’antica condizione schiavile alla situazione “lavorativa” contemporanea. Tuttavia, se si approfondisce l’analisi, non si può fare a meno di osservare come questo processo non avviene sempre nello stesso modo. È dunque a questo livello che l’analisi necessita di essere integrata, o sorretta, da una concezione teoricamente più ampia di ciò che significa “modo di produzione”. D’altronde, se esiste un caso in cui ci si può riferire a “l’umano” in modi sufficientemente generici o univoci questo si dà solo in relazione al “non umano”. In tutti gli altri casi, “l’umano” è una categoria altamente diversificata al suo interno – “l’umano”, in altre parole, è un campo di produzioni differenziali, e a ciascuna di queste produzioni fanno capo altrettanti modi di produzione.

[…]

Il modo di produzione eterosessuale presiede alla diseguaglianza di genere e sessuale – la diseguaglianza fra uomini e donne; la diseguaglianza tra forme normative e abiette del genere e della sessualità.

Ma c’è di più: il modo di produzione eterosessuale presiede, in un’accezione decisamente più ampia, alla diseguaglianza sociale. Non esisterebbe la società, d’altronde, se i soggetti non intrattenessero fra loro una qualche forma di relazione. Ogni soggetto, tuttavia, prende parte alle relazioni sociali recando già da sempre, in sé e con sé, un genere. E se questo genere è venuto producendosi per mezzo di una razionalità gerarchica, ciò significa che esso costituisce il perno per mezzo del quale si produce – e riproduce – ogni diseguaglianza sociale. Ecco il motivo principale per cui ogni eventuale gerarchia delle oppressioni dovrebbe prevedere il modo di produzione eterosessuale, al suo apice. Perché il corpo di chiunque, ovunque, sia esso bianco o non bianco, abile o diversamente abile, nato in contesti ricchi o in contesti poveri, subisce un processo di trasformazione in un genere binario funzionale alla ri-produzione della società come eterosessuale. La trasformazione di ogni corpo in un genere binario è la prima forma di oppressione, per chiunque, attualmente.

L’intento di una teoria del modo di produzione eterosessuale non è solo di contribuire a una maggiore e più precisa interconnessione tra la lotta anticapitalista e quella queer. Il suo vero intento è di inquadrare entrambe queste lotte, dal punto di vista teorico, in una prospettiva materialista che assuma la posizione strutturale del modo di produzione eterosessuale. Se il modo di produzione eterosessuale è ciò che offre al capitalismo le risorse umane e simboliche – gli uomini, le donne e le loro relazioni – per affermarsi storicamente e continuare a riprodursi, la sua sovversione costituisce senza dubbio uno dei requisiti per la sovversione del modo di produzione capitalistico stesso. E se insisto su questo punto non è per una smania fine a se stessa di ribaltare la gerarchia tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo: lo faccio piuttosto per sottolineare che il capitalismo non costituisce l’inizio e la fine di ogni oppressione o diseguaglianza, e che il suo ipotetico superamento, pertanto, non le eliminerebbe automaticamente tutte. Nel considerare il modo di produzione eterosessuale come logicamente e storicamente anteriore a quello capitalistico intendo dire che il primo sarebbe tranquillamente destinato a sopravvivere al secondo, nel caso in cui il superamento del capitalismo non fosse preceduto da una sovversione del modo di produzione eterosessuale, col bel risultato di trovarci in una società forse non più permeata da processi di soggettivazione e da rapporti sociali e di produzione capitalistici, ma perfettamente sorretta da processi di soggettivazione e da rapporti sociali e di produzione eterosessuali: l’assegnazione del genere, il binarismo di genere e sessuale, le disuguaglianze e le violenze di genere e sessuali, le forme di sfruttamento e di esclusione sociale che si dipanano lungo il genere e la sessualità (che non sono nemmeno percepite come tali), la partizione tra lavoro “produttivo” e lavoro “riproduttivo” o la persistenza di differenziali di potere che strutturano le possibilità (o le impossibilità) di relazione dei corpi tra loro – ebbene, tutte queste pratiche sociali non necessitano affatto del capitalismo per continuare a restare tali e quali. E il fatto che la trasformazione dei due distinti modi di produzione non possa avvenire seguendo le stesse modalità, o sulla base di medesime temporalità, non esclude in ogni caso che un impegno materialista contro il capitalismo – da cui dipende l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza attualmente esperita dal maggior numero di persone al mondo – deve farsi carico delle singole modalità che lo sfruttamento o l’esclusione assumono, perché ciascuna di quelle modalità riferisce di una specifica matrice di oppressione che concorre nella definizione di ciò che, in termini generici, definiamo poi “sfruttamento”, “esclusione” e, innanzitutto, “capitalismo”.

Torniamo alla domanda da cui abbiamo preso le mosse per questa dissertazione: perché il materialismo mutua dal lessico liberale le parole per contrastare la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale? Lo fa perché nonostante concepisca ogni relazione e ogni diseguaglianza sociale come prodotta dalla società, concorda con il liberalismo nel concepire nei termini fuorvianti di una “differenza sessuale” inerte, naturale e presociale ciò che sto illustrando schematicamente nei termini di modo di produzione eterosessuale. Che il modo di produzione eterosessuale sia precapitalistico – ed è questo che manda in crisi gli assunti di base dell’anticapitalismo – non autorizza a definire i suoi prodotti (i generi e le relazioni di genere) come inerti, naturali e presociali. È proprio dalla produzione eterosessuale dei generi e del rapporto sociale di genere che deriva l’insieme delle risorse materiali e simboliche di cui il capitalismo necessita per affermarsi e riprodursi incessantemente: ciò è dimostrato dalla persistente divisione sessuale del lavoro, dalle varie e complesse forme di segregazione occupazionale e dallo sfruttamento del lavoro sessuale e di genere. E nonostante l’adozione di questa prospettiva teorica potrebbe segnare un cambio di passo nella politica anticapitalista, quest’ultima preferisce continuare a mutuare dal liberalismo le litanie sull’“odio per la diversità” o a battersi per la “tutela delle differenze”, finendo così per tutelare solo ed esclusivamente le diseguaglianze, lavorando di concerto con il liberalismo nell’ostacolare un’autentica trasformazione sociale.

È possibile che sottesa a questa strategia sia la convinzione per cui un approccio più radicale condannerebbe le sinistre “radicali” a insuccessi ancora maggiori, specialmente alla luce del fatto che, come dimostra dal secondo dopoguerra la scienza politica, un movimento, o un partito, ha tante più possibilità di ottenere consensi quanto più si rivela catch-all (“pigliatutto”)2. Tanto minore sarà il bagaglio ideologico e il riferimento a classi specifiche, tanto maggiore sarà l’elettorato, reclutato in modo trasversale alle classi, nella popolazione in generale. Questo è ciò che hanno fatto ininterrottamente i grandi partiti di massa, dal secondo dopoguerra a oggi, spingendo gradualmente, ma inesorabilmente, ai margini della rappresentanza i partiti portatori di specifici interessi di classe. Così facendo, tali partiti hanno costruito come ineluttabili e insuperabili quelle che per i gruppi sociali oppressi erano le strutture dell’oppressione, mascherando la loro ideologia dietro alla gestione apparentemente post-ideologica del “reale”. Ma nel momento in cui i partiti e i movimenti della sinistra radicale imitano questo approccio, cosa ottengono? La risposta è questa: nulla. In questi termini, infatti, non può esistere una sinistra radicale. Qualunque progetto di rifondazione di una sinistra radicale non può ambire a un consenso trasversale tra i gruppi oppressi rifacendosi però allo stesso stratagemma con cui i partiti di massa si sono rapportati alla popolazione in generale, ossia occultando il proprio intento ideologico, che, nel caso dei partiti e dei movimenti materialisti, consiste nella costruzione del modo di produzione capitalistico come origine di tutte le forme di oppressione alle quali contrapporre un generico anticapitalismo che però si trova costretto a mutuare dalle ideologie conniventi col grande capitale le parole per dire tutto ciò che sfugge alla sua logica basilare. In sé e per sé, i partiti di sinistra non rappresentano infatti alcuna lotta specifica contro nessuna specifica oppressione, dal momento che l’attenzione nei riguardi del rapporto tra capitale e lavoro è vana se non è essa stessa attenzione nei riguardi della totalità dei rapporti sociali fondati sulla diseguaglianza e sulla violenza che strutturano e articolano il rapporto tra capitale e lavoro – che strutturano, cioè, la relazione tra le parti di questo rapporto. Al di là del modo in cui possiamo definirle dal punto di vista nominale, per distinguerle da quelle moderate e dichiaratamente liberiste, le sinistre radicali abbracciano una concezione tutt’altro che radicale, ma piuttosto superficiale, delle oppressioni che pure dovrebbero combattere. Una superficialità calcolata, chiaramente, dovuta a una volontà di occultare la pluralità dei modi di produzione che confluiscono in ciò che, superficialmente, definiamo “capitalismo”. Ed è proprio questa superficialità a contribuire alla consegna del mondo intero alla violenta minaccia rappresentata dall’ascesa al potere delle destre. Non dovrebbe sorprendere, ma certo dovrebbe preoccupare che i tentativi compiuti da alcuni progetti di sinistra radicale di recuperare il proprio elettorato si fondino su una ostentata, e opportunistica, concezione delle questioni di genere e sessuali che ricalca proprio quella delle destre, a riprova del fatto che nessun partito o movimento materialista, finora, è stato in grado di dire nulla di materialista in proposito. Se non è liberale, ciò che dicono i partiti o i movimenti anticapitalisti in proposito è reazionario. E se è molto facile scorgere cosa c’è che non va nei discorsi anticapitalisti reazionari, più difficile è invece scorgere cosa c’è che non va nei discorsi anticapitalisti e, paradossalmente, liberali.

È fin troppo facile, a questo punto, capire che sottesa alla necessità di mutuare dal liberalismo parole per dire un’oppressione non riducibile al conflitto tra capitale e lavoro è la vecchia e presunta distinzione tra l’oppressione materiale (della quale si occupa il materialismo) e l’oppressione culturale (per la quale può andare bene che se ne occupi il liberalismo). E sul punto occorre ripetersi, occorre ribadire che questa distinzione mina alle basi la stessa lotta anticapitalista: l’elevazione del modo di produzione capitalistico a unico modo di produzione dell’oppressione e della diseguaglianza, al limite affiancato da goffi tentativi di non mostrare totale indifferenza nei riguardi di “altre” forme di oppressione, “diverse” rispetto all’oppressione di classe, sortisce l’unico effetto, per i movimenti e i partiti della sinistra anticapitalista, di non pervenire mai alla comprensione generale del fatto che è a partire da specifiche condizioni di violenza e di oppressione di per sé non capitalistiche che il capitalismo poi deriva e modella le diverse forme di sfruttamento e di esclusione, riproducendo specifiche condizioni di vulnerabilità economica e sociale. Come dimostra l’attuale scenario globale, è solo a proprio rischio e pericolo che i movimenti e i partiti di sinistra anticapitalista continuano a trascurare questa limpida constatazione: ciò che ottengono, in cambio, è una frammentazione sociale che sfiora ormai le soglie dell’irreversibilità. E se i gruppi sociali minoritari e oppressi non trovano alcuna motivazione per convergere verso una comune visione anticapitalista è proprio perché non viene considerata affatto “comune”. Ciò è testimoniato dall’esistenza di una pluralità di movimenti la cui stessa esistenza sta lì a indicare che l’anticapitalismo genericamente inteso non ha la forza di costituire il comune denominatore della pluralità delle lotte, e che è piuttosto ogni specifica lotta a detenere il potenziale, tra i molti altri, di un esito anticapitalista.

D’altronde, si è mai avuta la curiosità di chiedersi come mai, nel bel mezzo di una delle fasi più feroci del capitalismo, emergano così tanti movimenti che necessitano di focalizzare l’attenzione sulla violenza e l’oppressione di genere, sessuale, razziale – così come anche su quella sistematicamente esperita dalle persone con disabilità, o su quella perpetrata nei riguardi dei non umani o dell’ambiente, come testimoniato dalle lotte antispeciste e da quelle contro il cambiamento climatico? La risposta, per molti, consiste nel dire che tali movimenti emergono proprio per distrarre dal conflitto tra capitale e lavoro, così da frammentare “la classe” e renderla più debole sul fronte dell’anticapitalismo – cosa che potrebbe anche essere vera, se si considera che è spesso difficile cogliere un po’ di materialismo in ciascuno di quei movimenti. Ancora più vero, però, è che la simultanea necessità di queste lotte, connessa all’effettiva frammentazione e all’impotenza istituzionale delle sinistre radicali – testimoniata dal fatto che la distribuzione del potere, a livello globale, segna un vantaggio schiacciante a favore di una ricombinazione di neoliberismo e neoconservatorismo – è stata prodotta proprio dalla storica noncuranza dei partiti e dei movimenti della sinistra radicale, che anziché porsi come campi di convergenza comune per lotte specifiche, hanno declassato ogni altra lotta che non fosse strettamente concepibile “di classe” al rango di stratagemma borghese di distrazione – oppure, hanno usato ciascuna di quelle soggettività politiche a mo’ di massa di manovra per continuare a gerarchizzare le oppressioni tra primarie e secondarie.

Note

Note
1Cfr. J. Butler, Meramente culturali (1997), in N. Fraser, Il danno e la beffa. Un dibattito su redistribuzione, riconoscimento, partecipazione, a cura di C. Lo Iacono, Pensa Multimedia, 2012.
2O. Kirchheimer, Politics, Law and Social Change, Columbia University Press, 1969.

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