Un piano di immanenza
Le sculture di Sergio Scognamiglio
È stata come una camera magica, dove lo spazio e il tempo sono diversi da quelli che accadono fuori, l’installazione in ceramica maiolicata che l’artista Sergio Scognamiglio, dopo le recenti esposizioni a Madrid e Parigi, ha portato a Roma, dal 14 al 18 aprile. Ad ospitare questa stanza-porta è stata la Casa della Cultura del V municipio, una villa di un altro secolo, dipinta di rosa e dotata di una certa poeticità ambientale (un parco nel mezzo della via ininterrottamente trafficata), che ospita il centro di documentazione storico e artistico del quartiere. Al primo piano le opere di Scognamiglio hanno aperto questo luogo alle suggestioni dell’altrove: la grande sala dedicata all’esposizione è diventata un mare aperto, un mare sognato dai bambini, con le «sculture pesce» capaci di entrare e uscire dal pavimento. Code e bocche, blu e verdi, una danza in movimento, l’euforia del branco quando lo scorgi muoversi attorno ai tuoi piedi.
Ma la danza dei pesci di Scognamiglio era una danza pericolosa, perché ruotava attorno ad un amo, l’amo che toglie la vita. La fine dei colori. Degli schizzi. Del clamore che fa l’esistenza. Noi, in quanto esseri moltitudinari, possiamo ricordarci, di fronte a quest’opera semplicemente bella, che la gioia non va confusa con l’euforia, che l’avidità del boccone può farci perdere i giorni, il sogno, il futuro. La potenza delle creazioni di Scognamiglio sta forse in questa forza materica. In questo agire col pensiero su un piano di immanenza. In questo non dimenticare che è il reale il campo di lotta, che è il reale sul quale abbiamo il dovere di creare la storia della nostra danza. Danza di vita, danza comune, danza di insorgenza, danza che evita ogni amo perché ha già in bocca il gusto della verità.
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