Una giovinezza rubata
Memorie di guerra fredda di Daniela Ripetti
Non era insolito che nel 1968, a scopo «pedagogico», la polizia pescasse a caso qualcuno negli ambienti politicizzati o controculturali e, altrettanto per caso, rinvenisse in automobile o in casa o in una giacca qualche traccia di droga, con relativo scandalo mediatico, arresto e più o meno lunga detenzione preventiva (all’epoca quasi illimitata). Prove generali per la grande repressione che sarebbe scattata di lì a poco. In quello stesso anno viene pronunciata, dopo quattro anni di processo, la vergognosa sentenza contro Aldo Braibanti, otto anni per plagio ovvero per conclamata omosessualità. Ma la droga come «perversione» tirava meglio, era suscettibile di applicazione di massa e ancora nel 1971 restò famosa la macchinazione contro Pierre Clementi, che si fece 18 mesi di carcere prima dell’assoluzione ed espulsione dall’Italia. Quella era la molto rimpiante epoca d’oro della Prima Repubblica.
Nell’aprile del 1968 una ragazza diciottenne, modella occasionale e frequentatrice degli ambienti musicali, poi poeta e performer, una dei protagonisti del festival di Castelporziano del 1979, viene selezionata quale capro espiatorio e gettata in pasto alla stampa scandalistica per presunto possesso di 0,5 grammi di hashish e tenuta a Rebibbia per 14 mesi prima dell’assoluzione con formula piena. Un bel pezzo di giovinezza rubata. Ma Daniela Ripetti ha voluto rievocare quella vicenda, che pure l’ha profondamente segnata ed è stata anche occasione di produzione poetica, non come caso personale ma in un contesto storico-politico, esempio di una campagna internazionale mirata volta a «smagnetizzare» i movimenti di sinistra e il loro prestigio culturale con una gamma di infiltrazioni e provocazioni che andava dalla ben pagata critica destrutturante alla diffamazione e persecuzione personale con vieti metodi polizieschi. Infatti il sottotitolo del libro recita: Memorie di Guerra Fredda (Books&Company, 2019).
Una lunga storia di ingerenze, che prende il via dalla guerra «calda» e dalle attività dell’Oss in Italia, i cui protagonisti sono Donovan, il vero fondatore della Cia, l’assai ambiguo o paranoico Angleton e Brennan, che organizza il supporto della mafia italo-americana allo sbarco in Sicilia e poi alla gestione dei territori occupati nel 1943-1945. Ma il salto di qualità è il 1947, l’avvio ufficiale della guerra «fredda» e della rottura della coalizione di governo Dc-Pci, con ulteriore accentuazione dopo lo scoppio della guerra di Corea.
Il punto di svolta è l’applicazione anti-comunista effettuata dal National Security Council e dalla Cia, in occasione delle elezioni del 1948, delle tecniche di guerra psicologica già in precedenza studiate dall’Oss, in particolare le psy-ops clandestine e le covert ops svianti, esplicitamente autorizzate nel 1947 con la direttiva 4/A, poi integrata con altri documenti riservati e solo di recente declassificati, con cui in sostanza vengono lanciate azioni di propaganda, infiltrazione, appoggio a gruppi clandestini ecc. senza assunzione diretta di responsabilità Usa. Vi rientra il reclutamento di elementi ex-fascisti, la graduale eliminazione dei comunisti dagli apparati statali ed educativi e tutta la preparazione di strutture finalizzate all’organizzazione di quella che sarà nota come rete Gladio e alla futura strategia della tensione.
Negli anni Cinquanta cominciano a svilupparsi due canali più direttamente contro-egemonici sul piano della manipolazione dell’opinione pubblica. Si tratta, per un verso, della promozione di attività culturali e riviste aventi carattere anti-comunista in nome della libertà della cultura, per l’altro della disgregazione dell’egemonia culturale del Pci. Il suggestivo termine adottato per la seconda serie di operazioni è «demagnetize», cioè discreditare e in ogni modo depotenziare il mondo comunista in termini di rispettabilità e influenza ideologica, suscitare scissioni e compromettere uomini e istituzioni del Pci. Tattica man mano estesa a tutte le forme di «sovversione» che negli anni Sessanta fuoriescono dall’area picista e vengono prima aizzate a fini disgregativi, poi infiltrate e combattute come forme più insidiose e dilaganti di egemonia di sinistra.
Esemplare è la formula del Programma dottrinale di rieducazione ideologica (PSB D-33/2 del 1953) che si propone di «disarticolare in tutto il mondo gli schemi dottrinari di pensiero che forniscono una base intellettuale alla dottrina comunista e ad altre dottrine ostili agli obiettivi americani». Le direttive del NSC e della Cia si concretizzano mediante il crescente coinvolgimento di strutture ufficiali e ufficiose italiane, che diventano essenziali quando la guerra fredda, impiantati si suoi apparati militari e diplomatici, deve volgersi alla conquista delle coscienze e alla produzione di marasma nelle file dell’avversario.
Un passaggio rilevante è lo slittamento della guerra psicologica dal condizionamento mentale cosciente a strati più profondi, dalla Psy-war alla Neuro-war, che comporta lo studio degli effetti della droga e la sua intenzionale diffusione con il duplice scopo di screditare oggettivamente e indebolire soggettivamente i movimenti controculturali, diventati nemici domestici ben più temuti delle organizzazioni comuniste ufficiali. Gli anni della guerra in Vietnam sono quelli decisivi, soprattutto per la sperimentazione a vari fini del Lsd e la distribuzione di massa dell’eroina. Il piano Chaos della Cia, fortemente implementato dall’amministrazione Nixon, è in qualche modo la risposta perfino «culturale» ai movimenti libertari e al marcusiano Uomo a una dimensione, scegliendo di intervenire proprio sul piano di quello che si chiamava l’allargamento dell’esperienza percettiva per sabotarla dall’interno. L’antiautoritarismo è rigirato contro il movimento con il classico metodo dell’infiltrazione, che aggiornava sul piano «chimico» lisergico una vecchia prassi sbirresca anti-anarchica.
La gestione delle droghe, nella duplice funzione di indebolire i movimenti e di inchiodarne gli esponenti con false accuse «la droga come arma politica e trappola» si intitola un capitolo), si affianca in Usa alla repressione poliziesca e militare (esemplare il caso delle Black Panthers) e svolge il suo ruolo anche presso i servizi «deviati» italiani e l’Ufficio affari riservati della Polizia, che ben presto però privilegeranno (tolti alcuni isolati episodi) il canale della provocazione terrorista in combutta con i neofascisti. La galassia delle organizzazioni «nere» nel nostro Paese è ricostruita con attenta cura in stretta connessione con la strategia della «guerra rivoluzionaria» ovvero non ortodossa elaborata a partire dall’esperienza algerina e francese dell’Oas e per cui la splendida Battaglia di Algeri di Pontecorvo servirà da paradossale manuale operativo. Un sostegno discreto all’epidemia da eroina si verificherà poco più tardi, alla fine degli anni Settanta.
Con retrospettiva generosità Daniela Ripetti incastona la sua sfortunata vicenda in quella lunga catena di complotti e provocazioni nel momento in cui tocca la grande stagione ribelle italiana fra il 1968 e il 1977 – come del resto aveva fatto in termini poetici e non storiografici come adesso, per esempio in Virus e in Furto di Atlantide. Ne risulta un libro composito e istruttivo, che testimonia un’epoca conclusa di contrapposizione polare, anche se gli stessi metodi continuano ad applicarsi in un universo multilaterale di imperi, servizi, sopraffazioni e congiure, dove il potere, per essere «post-ideologico», non ha certo perso i suoi tratti inquinanti e criminali di sempre.
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