Undici tesi sul comunismo possibile
Pubblichiamo qui il documento scritto dal collettivo C17 come sintesi e prosecuzione dei lavori della Conferenza di Roma sul comunismo (18-22 gennaio 2017).
1.Spettro
Dove è al potere il Partito Comunista, il comunismo è scomparso da un pezzo. Vigono mercato e sfruttamento, ma senza parlamenti e libera opinione. Il comunismo è una storia degenerata, sconfitta, rimossa; in Europa e nel mondo. Raramente capita che una sconfitta sia ancora uno spettro, abbia la capacità di spaventare ancora: è il caso, raro, del comunismo. La parola è impronunciabile, il senso o il progetto difficili da chiarire. Il nemico, però, continua ad avere le idee chiare; sicuramente non è terrorizzato come nel 1848, e di certo ha imparato a prevenire. Il capitalismo contemporaneo spaventa per non essere spaventato. Sappiamo, da Hobbes in poi, che la paura costituisce il sovrano: oggi la paura, il ricatto permanente delle vite precarie, rendono possibile lo sfruttamento. Ma se così è, c’è qualcosa che non torna: le vite, pure precarie e sempre al lavoro, sono un pericolo, oltre a essere in pericolo. Comunismo è il nome di questa eccedenza che, nonostante tutto, continua a far paura. La vittoria del capitale, come una nemesi, non smette di produrre questa eccedenza (di relazioni, mobilità, forza-invenzione, cooperazione produttiva, ecc.). La vittoria del capitale, come una nemesi, non smette di produrre le condizioni oggettive del comunismo: la riduzione del «lavoro necessario» alla riproduzione sociale della forza-lavoro.
2. Neoliberalismo
«Capitalizzare la rivoluzione»: dal 1968 in poi, è il segno della grande trasformazione nella quale siamo immersi. Se con le lotte la vita esce dai cardini e dalla fabbrica, occorre inseguirla ovunque, mettere a valore i suoi tratti unici e irripetibili, fare affari con i gusti estetici e le condotte di ciascuno, trasformare il macchinario in protesi del «cervello sociale» (le tecnologie digitali e della comunicazione: dal Pc al Web, dagli Smart Phone ai Social Network) e il general intellect in algoritmo. Questo è accaduto, mentre correva veloce la globalizzazione e una violenta accumulazione investiva l’Est e il Sud del mondo. Pensare i due processi separatamente, o in opposizione, è un errore gravido di conseguenze politiche nefaste: la globalizzazione neoliberale è una trama dalla temporalità multipla ed eterogenea; uno spazio comune quanto segmentato. Capiamo la Silicon Valley con le zone economiche speciali della Cina o della Polonia, e viceversa. Il neoliberalismo, più precisamente, è la contro-rivoluzione, la risposta capitalistica al 1968, evento di lotta – dalla Sorbona al Vietnam, da Berkeley a Praga, da Roma a Tokyo – compiutamente globale. Pensare la globalizzazione senza aver capito le spinte decoloniali significa non pensarla affatto. Soffermarsi sull’economia della conoscenza senza dedicare attenzione ai movimenti studenteschi o a quelli operai del rifiuto del lavoro (ripetitivo) vuol dire consegnare l’innovazione tecnologica, interamente, al comando capitalistico. Il neoliberalismo ha riproposto – su scala globale, con diverse intensità, rendendoli cronici – fenomeni di accumulazione originaria: lo spossessamento, a mezzo di land grabbing, di milioni di donne e di uomini come la recinzione dei saperi, a mezzo dei brevetti; l’erosione del salario indiretto, attraverso fiscalità regressiva e tagli al welfare, come la compressione di quello diretto, con i processi di precarizzazione del lavoro; la carcerazione di massa dei poveri come l’uso della forza-lavoro migrante per destabilizzare le rigidità salariali; il sodalizio, sempre moralmente condannato, tra economia criminale e affari «puliti». Impoverimento, ma accesso generalizzato ai consumi, alle tecnologie; rinnovata mobilità e diffusione dei muri; esaltazione delle differenze e radicalizzazione dello sfruttamento: il neoliberalismo è la combinazione, sempre ri-attivata, di questi processi.
3. Crisi
Dicono gli economisti che la crisi nella quale da dieci anni continuiamo a sprofondare è una Grande depressione. Grande, come quella degli anni Settanta dell’Ottocento, come quella esplosa nel 1929 e sopita, solo dopo diverse decine di milioni di morti, nel 1945. Riprendendo il lessico degli anni Trenta (del Novecento), alcuni economisti parlano di «stagnazione secolare»: decenni di crescita bassa, salari bassi, disoccupazione alta, povertà. C’è di che sperare… La crisi, in questo senso, non è più solo una malattia, ma la «cura» ogni giorno adottata perché il morbo divampi. La domanda si impone: perché, se il capitalismo ha vinto ovunque, c’è bisogno della crisi per governare il mondo? Una prima risposta ci indica che il mondo è tutt’altro che governato: l’egemonia americana tramonta; un nuovo multipolarismo si presenta minaccioso; la guerra uccide in periferia e al centro, e si fa con le armi, gli attentati, la moneta, il commercio. Una seconda risposta, invece, ci dice che la crisi è una forma di governo della forza-lavoro. Proprio perché la vittoria del capitale non smette di produrre, suo malgrado, le condizioni oggettive del comunismo, allora il comando del capitale ripristina senza sosta quel portato di violenza extra-economica che ne aveva caratterizzato le origini a partire dal XVI secolo. Tanto più il robot si sostituisce al lavoro umano, tanto meno il capitalismo può permettersi giustizia sociale e democrazia. Tanto più i soggetti incorporano strumenti produttivi, tanto più sarà necessario demoralizzarli, impoverirli, disciplinarli. La gestione neoliberale della crisi connette il controllo delle condotte con il rilancio delle discipline, siano esse la coazione al lavoro, la violenza maschile contro le donne, la repressione dei poveri e dei migranti (dall’internamento alle espulsioni). Il volto più noto del capitalismo-crisi è Donald Trump: miliardario vicino alla Goldman Sachs, dunque a Wall Street, non disdegna, anzi difende e quando può fomenta la destra nazionalista e razzista. Il neoliberalismo, che per anni ha fatto rima con globalizzazione, rafforza il suo polo aggressivo e autoritario; lo spazio della finanza si sposa con quello dei muri, della discriminazione, della patria. Di più: nella crisi, riemerge l’arcaico della Sovranità, la guerra civile e quella contro i poveri. In questo scenario, se la sinistra neoliberale – quella in voga ai tempi di Clinton, Blair e Schröder – rattrappisce quasi ovunque, la destra (neoliberale) si riscopre sciovinista e non esclude retoriche fasciste.
4. Proletariato
Se vale quanto scritto fin qui, non è più possibile definizione di proletariato che non tenga in conto l’ibridazione di produzione e riproduzione, la globalizzazione (e la sua crisi), l’eterogeneità dei tempi storici del capitale («contemporaneità del non contemporaneo»). Il lavoro, infatti, fatica a distinguersi dalla vita; non tanto e non solo perché tempo di lavoro e tempo di vita tendono a coincidere, ma anche e soprattutto perché per lavorare e produrre plusvalore è fondamentale attingere a quelle risorse affettive, relazionali, simboliche che articolano la vita stessa e la sua riproduzione. Così come è impossibile descrivere i soggetti produttivi senza mettere al centro la mobilità; anche quando quest’ultima viene impedita o viene largamente utilizzata per favorire nuovi processi di gerarchizzazione del mercato del lavoro. Ancora: in uno stesso territorio possono coabitare imprese hi-tech, caporalato e semi-schiavitù nella produzione agricola, lavoro di cura sotto-pagato, economia informale e criminale. Proletariato dunque deve sempre dirsi attraverso tre sensi: differenza sessuata; dimensione transnazionale (nuovo regime migratorio; gerarchie secondo la linea del colore); moltiplicazione del lavoro (e delle forme dello sfruttamento). La classe operaia bianca, «maschile troppo maschile», non è mai stata tutto il proletariato. La Rivoluzione russa, per esempio, inizia con lo Sciopero delle donne, l’8 marzo del 1917 (il 22 febbraio nel calendario giuliano). Il proletariato, che evidentemente comprende anche la classe operaia globale (con maggiore attenzione alla Cina o al Bangladesh, ecc.), oggi più che mai è donna, è giovane scolarizzato, è nero, è migrante. Nell’intersezione di questi elementi, poi, ritroviamo i soggetti sfruttati della scena contemporanea. Un proletariato che è maggioranza, ma è fatto di minoranze, un tessuto ibrido che sfugge alle identità.
5. Lotta di classe
Quando produzione e riproduzione si intrecciano, fino spesso a confondersi, non c’è lotta di classe che non sia anche conflitto per l’affermazione e la difesa delle forme di vita. La lotta economica, quella demandata storicamente al sindacato, perde i suoi confini, esonda continuamente sul terreno della sessualità, della formazione, del diritto alla città, dell’antirazzismo, della comunicazione. In questo senso, viene meno la tradizionale distinzione tra lotte economiche e lotte politiche; semmai assistiamo a processi di politicizzazione che insistono e si dislocano tanto nella scena produttiva quanto nella cooperazione sociale, nelle condotte come nella difesa dei commons, nell’intimità come nelle relazioni. Lotta di classe è tanto lo Sciopero globale delle donne quanto Gezi Park, Black Lives Matter quanto gli scontri – aspri e duraturi – per gli aumenti salariali in Cina e in India, o i primi scioperi dei lavoratori Uber e Foodora. Come le donne in particolare ci hanno saputo mostrare, lo Sciopero non è più uno strumento esclusivo dei sindacati, ma una pratica che innerva le lotte contro la violenza patriarcale, quella contro lo sfruttamento e la disparità salariale, quella per la riappropriazione democratica del welfare, per i diritti sociali e per quelli civili. Sciopero, dopo l’8 marzo globale, è (finalmente) processo di politicizzazione. Negli esempi citati, i momenti che ancora apparivano disposti in sequenza nel Manifesto di Marx ed Engels – «collisione» tra proletariato locale e singolo capitalista, «coalizione» degli operai, lotta politica – sono da subito compresenti e conquistano terreni prima considerati estranei alla lotta di classe. Ma questa compresenza o co-articolazione mantiene intatta, semmai la rafforza e la complica, la spinta del processo costituente: dal basso – della vita e della sua potenza, dei rapporti sociali e di sfruttamento, dalle lotte molecolari, del linguaggio e dei suoi contagi, ecc. – verso l’alto – del potere. La violenza, che pure è componente ineliminabile della lotta di classe e dell’esercizio del potere, riscopre i tratti dello ius resistentiae: non è tanto l’inimicizia, politica e militare, a definirne la fisionomia e il ritmo quanto la «difesa delle opere dell’amicizia», della cooperazione sociale, delle forme di vita alternative.
6. Comuniste e comunisti
Chi sono, oggi, le comuniste e i comunisti? Meglio: cosa fanno? Ripartiamo, schematicamente, dalle indicazioni del Manifesto di Marx ed Engels: fanno «emergere gli interessi comuni», oltre i perimetri locali/nazionali delle lotte; si dedicano pazientemente e con determinazione alla «formazione del proletariato in classe»; si battono per prendere il potere politico; esprimono in modo generale i «rapporti di forza di una esistente lotta di classe» («cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi»). Le comuniste e i comunisti dunque, in primo luogo, conquistano o costruiscono il comune nelle lotte. Uno sforzo tanto più necessario se si intende fare i conti, seriamente, con la molteplicità irriducibile e l’orizzonte globale delle stesse, con la disparità dei ritmi storici, con il primato delle differenze sulle identità. Formare il proletariato in classe, quando il primo sfugge a codificazioni omogenee, significa spostare l’attenzione dal soggetto ai processi di soggettivazione. La classe a venire non potrà che essere «un pachtwork a prosecuzione infinita» o «un mantello di arlecchino»; il metodo delle comuniste e dei comunisti, la composizione. Affidiamoci ancora alle metafore dei filosofi: comporre il proletariato in classe significa fare arcipelago, delineare costellazioni. Solo nel mezzo di questo processo, che è sempre anche un laboratorio di auto-apprendimento, è possibile generalizzare le lotte, coglierne gli aspetti trasversali. Le comuniste e i comunisti, nel combattimento, esprimono questi aspetti con la propria vita, non li rappresentano con le chiacchiere.
7. Comunismo
Lo si confonde spesso con la comunione dei beni, siano essi naturali o artificiali. Vale la pena, invece, essere letterali: comunismo è «abolizione della proprietà privata borghese». Consapevoli che quest’ultima è un rapporto sociale di sfruttamento; equivale al furto del lavoro altrui. Meglio ancora: del lavoro altrui viene rubato quello eccedente, ovvero quello che non è necessario alla riproduzione della vita di chi lavora. Se non si afferra questo nocciolo duro, si confonde il comunismo con un semplice problema di equa distribuzione della ricchezza. È vero, però, che non c’è sfruttamento senza spossessamento (della terra, dei mezzi di produzione, in generale delle condizioni oggettive della riproduzione): vende al mercato la propria forza-lavoro il povero, chi non dispone di altro, cioè, se non di essa. Ma oggi, a differenza del XVI secolo, il povero è da subito gettato in una rete di comunicazione e di mobilità che il nuovo modo di produrre e la globalizzazione, malgrado tutto e secondo differenti regimi di inclusione, hanno reso possibile. In una parte significativa del mondo, tra l’altro, gli strumenti produttivi sono stati ampiamente socializzati (tecnologie informatiche, digital labour, ecc.), la riproduzione della vita largamente finanziarizzata (debito). Il capitale, in questo senso, si qualifica come un insieme, assai articolato, di «operazioni estrattive». L’estrazione del valore avviene a monte del processo produttivo (terra, risorse naturali, rendita urbana, ecc.), attraverso meccanismi di spossessamento e recinzione; avviene nel processo stesso, ovviamente, succhiando plusvalore assoluto e relativo; ma avviene anche – e sempre di più – a valle, nella cattura e nel comando, a mezzo di algoritmi e finanza, della cooperazione e della creatività sociale. «Espropriare gli espropriatori» (o lotta di classe), allora, significa abolire questa proprietà privata: il comune del comunismo riguarda tanto i beni e il welfare – il loro uso condiviso, la loro gestione democratica – quanto il rifiuto del lavoro sotto padrone, l’invenzione di nuove misure monetarie quanto l’autonomia dell’intelligenza collettiva e della sua costruttività (scientifica, economica, politica, artistica).
8. Forme di vita
Appropriazione comunista – ovvero rifiuto del lavoro salariato, democratizzazione del welfare, ecc. – è anche abolizione della persona. Nella società borghese, ricordano Marx ed Engels, a essere «indipendente e personale» è soltanto il capitale, mentre «impersonale» è il lavoro vivo. Dove finisce il capitale, lì finisce anche la finzione individuale, con i suoi perimetri. La tradizione politica liberale e oggi, in modo assai più spiccato, la governamentalità neoliberale insistono sul primato indiscusso dell’individuo nei confronti della società. Agli inizi della contro-rivoluzione, mentre schiacciava i minatori e più in generale i sindacati inglesi, Margaret Thatcher ripeteva il mantra: «non esiste la società, esistono solo gli individui». Slogan incarnato nell’estensione a dismisura della forma impresa (l’imprenditore di se stesso), nelle celebrazioni del capitale umano, nella proliferazione del lavoro autonomo. Farla finita con lo sfruttamento, oggi che questo si presenta nella cattura del valore oltre i confini della fabbrica, nella sussunzione della cooperazione sociale, nella coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, significa farla finita con l’individualismo competitivo. Comunismo è autonomia del lavoro vivo, primato del presente sul passato (capitale, lavoro accumulato), dunque affermazione del carattere irriducibilmente sociale dell’individuo. Di più: non c’è abolizione della personalità del capitale senza abbattimento della famiglia e del patriarcato, senza invenzione di nuove istituzioni amorose. Non è tutto. Ripetiamo, proprio ora che la creatività e la dimensione estetica si combinano in modo inedito con l’innovazione tecnologica e produttiva, l’adagio del giovane Marx: «la soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa emancipazione di tutti i sensi». Oltre Marx, diciamo che la conquista di nuovi modi di sentire non è solo punto d’arrivo, ma accompagna ogni processo di liberazione.
9. Programma
Come la classe, il programma si compone. Da questo punto di vista, non sono tanto le «domande sociali» a essere decisive, quanto le lotte e i processi di soggettivazione. Vale la pena insistere, anche per distinguere la politica comunista da quella populista. La molteplicità irriducibile delle domande fa del popolo un «significante vuoto», da riempire attraverso un insieme di mosse discorsive ed egemoniche. La molteplicità irriducibile delle lotte e dei fenomeni di politicizzazione a esse legati, invece, incarna le pretese, le svolge su un piano polemico e costruttivo nello stesso tempo; l’egemonia non riguarda più solo i discorsi, ma insiste sulle forme di vita. In questo senso, il programma comunista non è, semplicemente, un programma di governo. Formare il proletariato in classe vuol dire «conquistare la democrazia», qui e ora. E conquistare la democrazia, qui e ora, significa espropriare gli espropriatori, fare il comune contro il capitale e le sue operazioni estrattive. Presentiamo dunque, senza gerarchia alcuna, un programma già forte nei tanti conflitti fin qui ricordati: reddito di base universale, sganciato dalla prestazione lavorativa e a carico della fiscalità generale; salario minimo globale; riduzione dell’orario di lavoro; libertà di circolazione delle donne e degli uomini; tassazione dei patrimoni, delle transazioni finanziarie, dei robot; eliminazione dei paradisi fiscali; sviluppo delle produzioni del comune e per il comune (salute, cura, innovazione tecno-scientifica, ecc.); sostegno senza sosta alla formazione pubblica; lotta senza quartiere, e a partire dalla scuola d’infanzia, contro il patriarcato; implementazione della bellezza (urbana, del paesaggio, culturale); ecc.
10. Soviet
Scriveva Lenin nell’aprile del 1917: «Il problema fondamentale di tutte le rivoluzioni è quello del potere dello Stato». Partiamo dunque dalla domanda: cos’è, oggi, il potere dello Stato? Lo Stato è ancora, così come appariva a Lenin, e con lui ai comunisti del Novecento, il luogo di massima concentrazione del potere politico? Conveniamo con chi, descrivendo la razionalità neoliberale, ha contestato le retoriche che in questi anni molto hanno insistito sull’evaporazione dello Stato, o celebrato i fasti dello «Stato minimo». Il modello ordoliberale europeo, per un verso, ma più in generale il peso degli stati nei processi di neoliberalizzazione che hanno travolto l’Est del mondo (Cina e Russia in particolare), mostrano uno scenario del tutto diverso. Altrettanto, però, sappiamo quanto la globalizzazione neoliberale abbia stravolto lo spazio e i poteri. Ai confini nazionali si sono sostituiti le zone economiche speciali, i corridoi, i flussi, gli accordi transnazionali, ecc. Tanto che non è più possibile far coincidere il potere politico, la sua efficacia, con il potere dello Stato. Quest’ultimo, semmai, è un attore importante dei processi di neoliberalizzazione («riforme strutturali»), senza mai essere il regista unico o privilegiato degli stessi. L’esaurimento dell’egemonia americana, la definizione di un mondo propriamente multipolare, non cancellano la globalizzazione; la articolano secondo traiettorie inedite, anche dal punto di vista delle crisi belliche. Il breve testo di Lenin di cui sopra, interrogando il potere dello Stato dopo la rivoluzione di febbraio, qualifica un fenomeno politico decisivo: il «dualismo di potere». Da una parte il governo della borghesia, dall’altra, seppur embrionale, il governo dei Soviet degli operai, dei contadini, dei soldati. Il secondo è un potere – parole di Lenin – «dello stesso tipo della Comune di Parigi del 1871»: alle norme e ai parlamenti si sostituisce l’iniziativa diretta e dal basso, agli eserciti e alle polizie il popolo in armi, alle burocrazie il mandato imperativo. Senza dualismo di potere, senza esemplificazione e approfondimento di un’altra forma di governo, non è possibile la rivoluzione, l’abbattimento del governo borghese. Nel criticare i sindacati, Antonio Gramsci presenta il consiglio di fabbrica – dove al semplice salariato si sostituisce il «produttore», un soggetto che decide sulla cooperazione sociale – come «il modello dello Stato proletario». Ancora: la dittatura del proletariato non è che la confluenza di nuove «esperienze istituzionali della classe oppressa». Proprio ora che lo Stato non concentra più l’interezza del potere politico, proprio ora che nuovi assemblaggi articolano la governance globale, oggi che il lavoro vivo ha conquistato densità relazionale, linguistica, affettiva, il dualismo di potere perde il suo carattere temporaneo per divenire il terreno privilegiato e permanente dell’iniziativa comunista. Ciò non impedisce, anzi, di cogliere le occasioni e di andare al governo, quando congiunture positive lo consentono. E non cancella la consapevolezza che il regime neoliberale spesso mobilita e cattura i processi di auto-organizzazione, facendone terreno di contesa. Ciò vuol dire, però, che senza una fitta rete (fortemente) transnazionale di contro-poteri, di Soviet, anche la conquista della Stato non fa la differenza, è destinata a non lasciare tracce durature. Alla Comune si devono dunque affiancare fenomeni di sindacalismo rivoluzionario, vere e proprie istituzioni del lavoro vivo dove lotta di classe e processi di politicizzazione, conflitto e auto-governo procedono di pari passo.
11. Futuro
Pur stando nel movimento reale del lavoro vivo, nelle lotte che fanno valere gli interessi immediati, i comunisti esibiscono l’«avvenire del movimento» stesso: così si conclude il Manifesto del 1848. Esibire l’avvenire, farlo vivere nelle lotte singolari, significa – lo abbiamo appreso poco fa con Gramsci – consolidare «esperienze istituzionali della classe oppressa». Significa, anche, riconquistare il futuro, la prefigurazione, dopo troppi anni nel segno della distopia, con un presente che tiene stretti e senza fiato, come fosse una gabbia; anni di svalutazione neoliberale della raffinata arte proletaria dell’organizzazione e del progetto. Fare piani, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato. Ma vuol dire, nell’orizzontalità delle lotte, allargare a dismisura il possibile; stare nel movimento elaborando – istituzionalmente – le sue virtualità; delineare paradigmi e strumenti per una governamentalità del comune. Progetto comunista, allora, è un nuovo costruttivismo, dove produzione, riproduzione, decisione politica e forme di vita si fanno (finalmente) inseparabili.
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