Vite di uomini infami
Racconti dal carcere di Giancarlo Capozzoli e Gerald Bruneau
Ci sono almeno due modi per mettere in forma la parola legandola agli spazi che si attraversano: una adibita a vedere le cose dal di fuori, come un «oggetto» di studio; l’altra a tradurre gli stessi spazi attraverso l’esperienza soggettiva. In quest’ultimo caso il nesso tra esperienza e spazio diventa vita, intreccio, pratica creativa, opera di corpo e parola che rompe la dicotomia tra un dentro e un fuori, diventa parola nuova. Se poi nominiamo questo spazio come «carcere», ovvero come eterotopia nascosta, a tratti invisibile, in uno spazio più grande che siamo abituati a chiamare «società», il rapporto tra una parola del dentro e una del fuori si complica enormemente. E allora il carcere può diventare quel luogo nominato dagli studiosi di scienze sociali e umane come «non luogo», «istituzione totale», «urbanistica del disprezzo», «ghetto», «panopticon».
Un mondo a parte con le sue regole e con la sua umanità «deviante», a sua volta governata da un «mondo dello staff» –come lo ha chiamato Goffman- o spazio rispondente all’ordine della cella e all’ordine che stabilisce la norma, ovvero «ognuno al suo posto», dentro e fuori, come invece scriveva Foucault, oppure ancora uno spazio da visitare nelle feste comandate il cui eco appare come un brusio occasionale che giunge inatteso e pigro alle nostre orecchie mentre divoriamo l’agnello di Dio e ci «dispiace per loro». Oppure il carcere come un insieme di numeri, statistiche, esercizi demografici a cui aggiungere anche le cosiddette «tipologie di crimini e detenuti», tralasciando l’inutilità gli innumerevoli dibattiti in cui ci si divide tra posizioni diverse che solitamente si inceppano sulla doppia e antitetica formula: abolizionismo o ri-umanizzazione e mille altri vicoli ciechi della parola purificata dalla sua dimensione complessa e significante.
Dall’altro lato, invece, o se vogliamo a partire da un posizionamento radicalmente diverso, il carcere può anche diventare fattore di scombinamento, spazio dell’imprevisto, il dentro portato fuori e il fuori portato dentro con l’aiuto dell’arte o meglio con l’arte che si fa lavoro culturale attraverso la pratica della relazione con chi quel luogo lo vive e a suo modo è costretto a reinventarsi la vita là dentro ogni giorno. È il caso di un libro uscito da poco per Universitalia, casa editrice vicina all’Università di Tor Vergata, e voluto da Giancarlo Capozzoli – che in questa Università tiene un laboratorio di drammaturgia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, così come a Rebibbia – corredato da un notevole apparato fotografico di Gerald Bruneau, Mia Murgese Mastroianni, Massimo Podio, Mary de Cubellis, lo stesso Capozzoli e da molti scritti dal tratto esperenziale, tra cui Erri de Luca, Stefano Anastasia, gli stessi detenuti e tanti altri.
Questo volume, esteticamente denso, dal titolo piuttosto evocativo Signora libertà, Signorina fantasia. Un racconto dal carcere intreccia più narrazioni e più linguaggi tracciando come una sorta di linea evocativa tra l’invisibile che diventa visibile attraverso una fotografia densa e riposta nella potenza dei volti, nonché nella gestualità degli attori-detenuti – sino a rompere tutti i canoni di «estetizzazione» dell’altro – la rappresentazione scenica del linguaggio teatrale e drammaturgico che non cede mai ad una narrazione della pietas o peggio ancora della «vittima» da redimere e il racconto dell’esperienza nel carcere di operatori, nonché dello stesso Capozzoli, filosofo, regista, fotografo.
Una formula plurale atta fondamentalmente a muoversi su due piani del regime visivo e discorsivo perennemente rotto dal suo interno dalla trappola degli stereotipi che finiscono per negare l’esistenza stessa, attraverso l’etichetta di «detenuto», del potenziale creativo e vitale del sé messo all’opera nell’opera. E così l’esperienza di relazione con questi uomini e donne che vivono a Rebibbia, nonché sulla messa in scena con loro dell’Otello e della Tempesta di Shakspeare diventa, come scrive Capozzoli, un modo per ridisegnare il concetto stesso di arte, non sulla pelle dei detenuti, ma a partire da ciò che loro possono fare: «È una questione sull’arte, dunque. Sul concetto di arte che si ha e si dà. E che si mette in netta contrapposizione con chi intende l’arte come moda, perché ha questo come riferimento culturale. Da una parte la moda e la rappresentazione dell’artistico, dall’altra una idea di arte che ha a che fare con una idea dell’uomo. Un’altra idea dell’umano». E così «il detenuto» diventa finalmente attore sociale, come diremmo noi sociologi, e attore nel senso teatrale e artistico del termine perché al fondo ogni vita è, a suo modo, un’opera d’arte per l’intensità e la densità della storia, della biografia di questi corpi.
È difficile distinguere, a partire da queste immagini, chi è l’attore e chi il «detenuto», chi fotografa da chi è fotografato, lo spazio teatrale del fuori e quello del dentro. Un intreccio che rovescia il canone della rappresentazione a tutto tondo rimettendo al centro quelle «vite degli uomini infami» magistralmente ricordateci anche da Michel Foucault. Quest’ultimo, infatti, nella restituzione che ci ha fornito di vite che «sopravvivono solo per il fatto di essersi scontrate con un potere determinato ad annientarle o a cancellarle» insiste moltissimo su quale «ordine del discorso» usare per raccontare le stesse e – sempre ne La vita degli uomini infami– ci insegna che persino i poteri atti a governare queste vite si sono trasformati passando da «una vecchia teatralità artificiale e maldestra», comunque riconoscibile, ad un linguaggio basato sulla neutralità e sull’osservazione, senza più coinvolgimento, senza più relazione. Le trascrizioni, o se vogliamo traduzioni, della struttura narrativa di opere classiche come l’Otello o la Tempesta rintracciabili in questo libro sono altresì portatrici di questo intreccio. Non sono pensate o quantomeno riportate come una sceneggiatura, una trama oggettiva, ma sono già all’interno del perimetro relazionale con queste vite, con questi corpi. Come se le opere stesse venissero direttamente da lì, anziché dalla drammaturgia. Come se fossero già, esse stesse, nelle trame profonde di queste biografie.
Sempre più spesso, in una società come la nostra, il teatro, la fotografia e le arti in genere diventano forme linguistiche residuali rispetto alla parola politica o a quella accademica, spesso utilizzate solo per citazioni o per rafforzare metaforicamente i concetti provenienti da altri statuti disciplinari. Oppure restano imbrigliate all’interno del proprio ambiente, senza grandi connessioni con la stessa politica e la società. Eppure ciò che pare dirimente, all’interno di questo contesto prestazionale nel quale siamo collocati, è proprio quel bisogno, meglio sarebbe dire desiderio, di reintrecciare mondi e linguaggi tenendo al centro la dimensione del corpo e del soggetto. Questo libro compie questo gesto, assume le sembianze di un sassolino che scardina le dicotomie, rompe i canoni linguistici, mescola i saperi e restituisce quella necessità di recuperare il senso del possibile e dell’imprevisto. In altre parole fa del carcere e delle vite che lo attraversano un’opera viva.
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