Voci inquiete da un corpo multifonico

Su «a capella» di Dorothée Munyaneza

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«a capella» di Dorothée Munyaneza. Foto Claudia Borgia (2024).

L’ascolto non riguarda solo ciò che normalmente riconduciamo al senso dell’udito. L’ascolto è una risorsa trasformativa e rivoluzionaria, che richiede calma e sintonizzazione.
A.P. Gumbs, Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini

La delicatezza è d’obbligo.
A. Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica

Viscous Porosity titola l’edizione 2024 di Short Theatre, appena terminata e che conclude anche l’attraversamento della curatrice (studiosa e dramaturg) Piersandra Di Matteo al suo terzo anno di conduzione del festival performativo capitolino. Programma denso come ormai ci ha abituati Di Matteo, che nel manifesto scrive: «Pensare le relazioni come vischiose – appiccicose, ostinate, scomode, aggrumate, agglutinate – significa prestare attenzione ai punti di criticità, fare spazio a ciò che oppone resistenza […]». È una perfetta introduzione per a capella solo performance di Dorothée Munyaneza, artista multidisciplinare originaria del Ruanda che predilige il canto, anzi, la vocalità impura che con il suo spezzarsi, masticarsi e improvvisamente estendersi destituisce tutto il bel canto in favore di una vocalità che si prende cura delle voci scomparse, di quelle inascoltate, delle «storie di fantasmi», come direbbe Avery Gordon. Nella performance queste voci si rincorrono e fondono, si «appicciano», fanno quel che a loro è stato impedito di fare, mondeggiando a modo loro: trascinandosi insistono e sussistono inquietamente. Nella bella intervista con Sara Innamorati afferma molto chiaramente la performer: «Credo che la ragione per cui ho scelto il canto a cappella sia perché sono interessata alle storie, alle sue voci singolari e collettive, e a ciò che hanno da dire. Voglio porre attenzione su chi ha il potere di dirle, su chi ha il potere di ascoltarle, su chi ha accesso a queste storie e le può condividere»1.

In apertura di Short Theatre, una voce acusmatica attira l’attenzione di noi astanti, un richiamo tondo, quello della «o» che sembra generarsi dall’alto, in una strana dislocazione echeggiante. Poco dopo Dorothée Munyaneza compare dalla sinistra della sala rettangolare dello Studio 2 de La Pelanda e finalmente attribuiamo un corpo a quella voce che dalla rotondità approda al canto, al respiro – «pratica della presenza»2 – e al risuonare dell’Aluminium Reco Reco, l’agevole strumento percussivo che Munyaneza strofina sulle grate dell’aria e che più avanti utilizzerà per misurare la parete sinistra e il pavimento mescolando ruvidità e distanza in una inedita vicinanza propriocettiva, strumento in cui canterà per un momento convocando presenti e assenti nello spazio. Quello spazio negato ai corpi migranti e diasporici e che la voce rioccupa in tutta la sua fragilità e potenza, movimentandosi. È un lento riconoscimento quello che propone la performer, un approdo che può solo essere attraversato da una moltitudine di voci che si diffondono e sintonizzano senza chiedere permesso.

In uno scintillante abito argento e con un sorriso che scalda Dorothée Munyaneza ci dà il benvenuto, lo fa in molte lingue, con molte sonorità. Nessuna quarta parete, la performance si sviluppa come un incontro a tratti dialogico – ci chiede la traduzione di «non piangere più» e ci interroga domandandoci: «come si fa quando si perde un bambino?». Si viene a creare una tensione disarmante, dolce e affilata che corre tra la disponibilità al sorriso, al dialogo, fino ad ammettere la stanchezza, il bisogno di bere – fa caldo a Roma, l’umidità della zona, il capitalocene che tenta di arrostirci tutt3 – si scontrano e amalgamano con l’inesorabilità della domanda, con la quantità di dolore di cui siamo capaci di farci carico (tentiamo).

La performer pratica tutto l’ambiente, lo contamina vocalmente, col sudore, col sorriso, si aggrappa ai pilastri della stanza, cerca volti conosciuti – la svestizione curata dalla curatrice Di Matteo – e si relaziona con quelli sconosciuti mentre la voce scombina canti tradizionali del Ruanda attraverso obliterazioni vocali, masticazioni potenti e scivolose accompagnate da esplosioni di dinamica e alterazioni sulle vocali che s’aprono come ferite. «Come si fa quando si perde un bambino?». È un sanguinamento a cui non c’è risposta verbale ma solo soffi, grida, i legati tra le altezze sonore e la riemersione di ciò che è stato negato, perché «una sparizione è reale solo quando compare»3. E la performer non può scomparire, non ci sono praticabili e orpelli, è lì, nella disponibilità più assoluta della vulnerabilità di un corpo che emette con tutte le sue energie, così si spossessa facendoci impossessare.

La libertà del canto – dalle regole della schola cantorum degli «a capella» occidentali quanto dalle coercizioni del colonialismo – si scontra con il corpo che tenta di resistere: il corpo segue il diffrangersi della voce ed è il bacino, lo stomaco, il ventre, il diaframma che guida questo percorso lungo il tragitto orizzontale che sembra portarla fuori, da quella parete a destra da cui è apparsa ma no, Dorothée Munyaneza continua imperterrita a battere i piedi, le mani, a cantare, a far risuonare il suo costato nella sala con colpi precisi (quanto può risuonare un corpo?), a stancarsi e la resistenza si fa canto che proviene da una temporalità imprevista e confusa: tradizione, trasmissione, traduzione, trasduzione. È un passaggio di energia che non riguarda solo noi.

In un momento della performance è distesa a terra e, stremata, canta, poi all’improvviso tira su le gambe e il busto contraendo il diaframma. È quello che non si deve fare nel «bel canto». Ricordo la mia prima prova in orchestra da flautista, poco più che adolescente, accavallai le gambe e a fine prova mi presi un bel rimprovero. Così il diaframma non si distende bene. E cosa potrà mai accadere? Poco fiato? Strozzature, spezzature, gorgoglii, linearità che saltano facendo entrare respiri inattesi, come quelli di qualcosa che all’improvviso appare, e lo fa perché era scomparso. E infatti è pieno di fantasmi durante la performance di Munyaneza. Appaiono accanto, fuoriescono dal corpo, rimbalzano tra le pareti come la sua voce, il risuonare del suo costato colpito. Senza microfoni, solo corpo e spazio per una inondazione materiale – dal sudore che sembra regolarsi ritmicamente nelle gocce attratte dal pavimento alla voce popolazione piena di dinamiche. Non può essere solo lei, lì c’è un popolo che emerge.

Short Theatre 2024-VISCOUS POROSITY
La Pelanda | Mattatoio
Dorothée Munyaneza
a capella
performance

 

Note

Note
1S. Innamorati (a cura di), L’assolo multiplo di Dorothée Munyaneza, «CUT/ANALOGUE» Combin/azioni, 19 settembre 2024
2A.P. Gumbs, Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini, Timeo (2023), p. 33.
3A. Gordon, Cose di fantasmi. Haunting e immaginazione sociologica, DeriveApprodi (2022), p. 93.

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