Il disagio della performance

Per una tecnica poietica del lavoro vivo

Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito - 3_Lucife3
Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito (2013-2016) 3_Lucifero, 2015 - Courtesy Fondazione Morra, Napoli e Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli.

Partirò da un’immagine, probabilmente fin troppo nota, impigliata nel nostro immaginario di spettatori anche se non siamo stati direttamente spettatori in quella circostanza. Si tratta di un’immagine che mi mette a disagio, che mi disturba allo stesso modo in quanto alla poetica e alla politica che esprime, o più precisamente, in cui essa è inscritta. È un’immagine che mi pare esemplare per confrontare alcune questioni che, in realtà, la trascendono: le riflessioni che propongo di seguito, infatti, eccedono una critica all’immagine in sé. Vogliono risuonare piuttosto nel campo esteso di una riflessione sulle condizioni di produzione, riproduzione e consumo in cui il lavoro performativo esiste nella biopolitica contemporanea.

È l’immagine di Marina Abramovic seduta su una sedia di legno, di fronte a un tavolino e a un’altra sedia, occupata da uno dei tanti visitatori del MoMA di NY, nell’ambito della mostra The Artist is Present del 2010. Su quella sedia l’artista – posando come opera centrale della sua stessa retrospettiva – è rimasta seduta per 793 ore e 30 minuti, offrendo il semplice atto della propria presenza all’incontro con il «presente» di ciascun visitatore. Un incontro, questo, certificato come merce da uno scambio avvenuto in anticipo, garantito dall’acquisto di un biglietto d’ingresso al museo, da una lunghissima attesa in fila per sedere di fronte all’artista, testimoniato dalla presenza di altri visitatori seduti in cerchio attorno alla stanza; un incontro documentato e moltiplicato da una miriade di registrazioni simultanee, orchestrate dall’artista stessa o catturate dai dispositivi di registrazione di ogni visitatore, poi diffuso sulla rete, ben oltre il presente di Abramovic e del singolo visitatore.

Quest’immagine mi disturba, dicevo. E non soltanto per l’evidente complicità della pratica della performance art (rappresentata qui dall’autoproclamata «nonna della performance art», custode della sua storia, della sua supposta autenticità) con il dominio del mercato dell’arte mainstream, né per il modo in cui questo progetto salda indissolubilmente la figura dell’artista a quella della celebrità, che presenta il proprio corpo al pubblico quasi in ostensione e viene consumata nell’incontro dal vivo in una logica del tutto spettacolarizzata. Tanto che il più celebre incontro, tra quelli avvenuti nelle sedute di Abramovic presso il MoMA, è quello con il suo ex compagno di vita e lavoro Ulay, un climax sapientemente costruito con affetti «autentici», suggellati dalle lacrime che scorrono sul volto serafico della performer e da uno scrosciante applauso del pubblico pagante.

Quest’immagine, nella sua semplicità, condensa un tratto fin troppo familiare a tutti noi: la messa al lavoro della pura esistenza in vita, l’efficacia di una supposta soggettività completamente esposta 

Mi disturba, piuttosto, per ciò che questa immagine implica nei termini di un sostanziale depotenziamento della pratica performativa come forma di intensificazione della vita, del suo uso, della potenza intrinseca e imprevista del corpo. Mi disturba perché quest’immagine, nella sua semplicità, condensa un tratto fin troppo familiare a tutti noi: la messa al lavoro della pura esistenza in vita, l’efficacia di una supposta soggettività completamente esposta, la riduzione di questa soggettività a un’immagine sintetizzata, la riduzione dell’attività a una semplice presentazione del suo possibile sviluppo. Ed è significativo, in questo senso, che sia proprio il corpo di Marina Abramovic a esserne protagonista: un corpo che, nei lavori degli anni Settanta – e penso in particolare alle performance realizzate in Yugoslavia, con il gruppo Oktobar – ha depositato nella memoria collettiva tracce importanti di un radicale uso di sé, inscritto in una grammatica precisa e, non sembra irrilevante, peraltro condivisa con un nutrito gruppo di artisti che negli stessi anni, negli stessi spazi, tessevano con i proprio corpi la fabbrica di quello che, davvero, potrebbe considerarsi un temporaneo sensibile comune.

Non appare casuale, in un certo senso, che l’ascesa del valore della performance art nelle più importanti istituzioni museali abbia coinciso con l’assoluta preminenza che il termine performance ha assunto in molteplici sfere del linguaggio e dell’economia neoliberale e quasi sempre denoti l’attribuzione di valore a una prestazione nel tempo: la performance lavorativa, la performance sessuale, la performance finanziaria e così via. Questo ha certamente a che fare con il carattere esemplare, già sottolineato molto bene da Paolo Virno, della figura del performer come esempio emblematico di virtuoso, il cui prodotto coincide completamente con il processo di produzione e dipende dalla sfera pubblica per realizzarsi, dunque come incarnazione esemplare della dinamica intrinseca al lavoro immateriale.

Ma ciò su cui mi interessa riflettere è cosa implica, questo processo di valorizzazione e domesticazione di una pratica, in termini di tecnica e tecnologia di produzione. Mi interessa riflettere, riecheggiando il pensiero di Benjamin nell’Autore come Produttore, quello di Brecht nei Versuche – sull’urgenza di pensare alla produzione artistica in primo luogo in termini della tecnica, che è al cuore della sua potenzialità di trasformazione politica. In questo senso, è importante sottolineare che quando parlo di produzione mi riferisco a un’attività allo stesso tempo individuale e sociale, che è in primo luogo trasformazione di materia creativa – e dunque di sé stesso e degli altri: la definizione, cioè, che emerge nei Manoscritti economico-filosofici di Marx del 1844. Convoco quindi un’idea di produzione radicalmente altra rispetto a quella capitalista in cui il lavoro oggi è quasi interamente iscritto: una produzione che pur articolandosi nei termini del suo linguaggio, forza dal di dentro la logica del suo discorso.

È in questo senso che l’esempio di Abramovic offre uno spunto significativo per pensare alla performance come produzione. In The Artist is Present, la performance è ridotta, in un certo senso, all’ambiguità intrinseca all’etimologia del termine: la totale saturazione di una forma. La forma è qui quella di un corpo e di un comportamento. Questo comportamento – che si inscrive in una storia dell’arte di cui Abramovic, tra gli altri, è tenacemente impegnata a farsi testimone e archivista – nasceva come possibilità di interruzione di un certo tempo, di un certo spazio: come rifunzionalizzazione – Umfunktionierung, per dirla ancora con Brecht – di una certa grammatica del dominio capitalista e della sua disciplina dei corpi, dei gesti, delle azioni. Era una pratica produttrice di spazi e di tempi altri. Non è soltanto l’entrata nel museo che depaupera la performance del suo potenziale di interruzione: lo è anche l’affermazione dell’unicità dell’artista che esegue un determinato gesto, il suo rapporto di proprietà con una certa disciplina, con una certa tradizione, con un certo lignaggio, con una specifica storia – che per l’appunto deve essere raccontata in modo appropriato, che afferma ciò che è il proprio di una data tecnica. In questo senso, l’immagine di Abramovic seduta al MoMA parrebbe un’espressione purissima del dispositivo che tiene insieme aura e plusvalore, nonchè di una posizione marcatamente borghese rispetto ai meccanismi di validazione di certe competenze, discipline, eredità.

All’immobilità di Marina nell’atrio del MoMA, voglio contrapporre un’altra immagine di stasi: non è casuale l’utilizzo di questo termine, dal momento che – com’è stato rilevato da altri prima di me– il termine greco stasis non si traduce semplicemente come «inerzia», ma marca una presa di posizione, uno stare di fronte, una cessazione solo temporanea dell’attività, che è essa stessa attività. È l’immagine di Erdem Gündüz, immobile in piazza Taksim a Istanbul, di fronte al Centro culturale Ataturk, il 13 giugno 2013, nella cornice, o meglio a latere, delle proteste scaturite in difesa di Gezi Park dalla speculazione edilizia (e chiaramente dirette a uno scenario di oppressione ben più ampio, legato al pericoloso abbraccio della sovranità autoritaria di Erdogan con il capitalismo neoliberista). Gündüz, egli stesso un performer, ha sostato immobile nello spazio pubblico della piazza per diverse ore, prima che alcuni passanti si unissero silenziosamente al suo atto di stasi.

C’è una differenza radicale tra queste due immagini, non soltanto perché una avviene nella gratuità di una piazza e l’altra in un’istituzione lussuosa e a pagamento. Non soltanto perché l’una oppone l’unicità dell’artista allo spettatore, la cui unicità è ridotta a un mero gesto di consumo, benché inscritto nella retorica della partecipazione e dell’incontro. È una differenza che ha a che fare con il valore d’uso della performance come tecnica e con la sua capacità di trasformazione di materia creativa. Ha a che fare con l’affermazione di un diverso rapporto di «proprietà» dell’esecutore con la tecnica stessa, con la storia di questa tecnica, con la sua potenzialità di produrre quello che Paolo Virno ha definito come «atteso imprevisto»1: un enunciato che esibisce una necessaria incompletezza, che apre alla difesa dell’uso di una certa tecnica del corpo dalla sua immediata trasformazione in consumo, che si inscrive in una grammatica condivisa, benché declinata in un gesto singolare.

Ha a che fare con la capacità poietica di questa stasi, con la presa di posizione di un corpo in un campo di forze, con la produzione di una narrazione possibile, l’apertura a diverse possibili intellegibilità e alla demarcazione di uno spazio comune, l’affermazione di un «materialismo dell’incontro» (echeggiando l’ultimo Althusser) piuttosto che l’autenticità spettacolarizzata di un incontro in presenza. È un incontro, questo, carico di storia, di passato e di futuro, un incontro che nel suo stesso orizzonte di intellegibilità non può che convocare, con urgenza, uno spazio del comune, quantomeno sul piano dell’immaginazione. Non è un caso, dunque, che proprio l’uso imprevisto di questa tecnica performativa ha convertito i casuali spettatori in potenziali collaboratori, che nel giro di poco si sono posizionati attorno a Gündüz creando, sebbene temporaneamente, uno spazio comune.

L’orizzonte del comune, in questa lotta, non può prescindere dall’identificare quali meccanismi stanno appropriando, depotenziando e domesticando tecniche che, nel passato, hanno costituito la base per una grammatica di sovversione 

Benjamin scriveva che «un autore che ha pensato attentamente alle sue condizioni di produzione non sarà mai preoccupato esclusivamente del solo prodotto della sua attività, ma della funzione organizzativa che questo prodotto ha al di là e prima del suo carattere di opera finita»2. La lotta intrapresa nella costellazione di episodi di protesta paralleli all’episodio di Gezi Park, nel 2013, non è finita, la necessità di immaginare nuove tecniche per prefigurare il futuro, per prendere posizione rispetto al passato, è sempre più urgente. L’orizzonte del comune, in questa lotta, non può prescindere dall’identificare quali meccanismi stanno appropriando, depotenziando e domesticando tecniche che, nel passato, hanno costituito la base per una grammatica di sovversione. Non può prescindere dalla riappropriazione di queste tecniche per un orizzonte di organizzazione funzionale, per l’affermazione di diverse forme di incontro e di un’idea radicalmente altra di produzione.

Note

Note
1Paolo Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita. Quodlibet, Roms 2015, p. 148-152.
2Walter Benjamin, L’autore come produttore, trad. it. in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino 2012.

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