Il rompicapo del materialismo
Giacomo Leopardi e i suoi usi
Leopardi, rompicapo per l’interpretazione critico-letteraria e campo di battaglia nel percorso filosofico italiano del Novecento. Filosofo, poeta o moralista? Progressista o rivoluzionario? Materialista, nichilista, democratico? Ottimista o pessimista? La filosofia italiana del «secolo breve» ha scoperto nel poeta recanatese il volto del proprio secolo, a partire dallo «spartiacque» segnato, nel 1947, da due pubblicazioni: La nuova poetica leopardiana di Walter Binni e Leopardi progressivo di Cesare Luporini. Spartiacque «vero e proprio», come segnala Massimiliano Biscuso nel suo Gli usi di Leopardi, edito per Manifestolibri (2019). C’è, infatti, un prima e un dopo nettamente divisi dall’evento-1947 – prima, un Leopardi nella versione vitalista di Tilgher o in quella religiosa di Vossler o nella versione ottimista della critica fascista; dopo, un Leopardi problematizzato, rompicapo appunto, progressista in Luporini, democratico in Timpanaro, sovversivo in Negri.
In questa caosmosi filosofica, dove i piani teoretico, morale e politico si intrecciano e si confondono, è difficile muoversi con la lente della critica letteraria, individuando in questi modi di concepire l’opera del poeta recanatese delle categorie «interpretative». Biscuso, in apertura del suo ultimo lavoro, dà subito l’indicazione del metodo che lo ha guidato in questo studio: non si tratta di interpretazioni, quanto invece di veri e propri «usi». Cioè, «un’interpretazione che risemantizza il testo alla luce di un contesto teorico diverso da quello attribuito canonicamente al testo al fine di rafforzare quello stesso contesto» (p.7, nota 2). Dunque, il campo di battaglia è filosofico, ma il movente – esplicito o meno – è tutto politico.
Leopardismo e idealismo: l’inversione
Proprio perché si tratta di «caosmosi» – è forse la stessa natura del pensiero poetante del Recanatese a richiedere che sia tale – lo spartiacque della guerra disegna sbiecamente anche un’altra traiettoria, le cui cuspidi sono rappresentate da alcuni dei leopardismi trattati da Biscuso. I quali se per un verso incrociano il «prima» ottimista, vitalistico, religioso e il «dopo» enigmatico e ribelle del Leopardi novecentesco, dall’altro rappresentano i momenti in cui è possibile osservare la scansione e il mutamento del neoidealismo.
Non è un caso, infatti, che Biscuso muova da un idealista «pentito», Giuseppe Rensi: a lui, che si spinse a sostenere che fosse «il nostro maggiore filosofo» (anche se non spiegava poi molto bene perché) Leopardi doveva servire anzitutto ad opporre alla fiducia storicistica di Croce, reo peraltro di averlo estromesso dalla sua Estetica, uno scetticismo della rassegnazione, e alla sua netta distinzione tra filosofia e lirica, l’assoluta coincidenza delle due. Un cortocircuito a tutti gli effetti, quello di Rensi, che pur di riconoscere nel recanatese un filosofo finiva con il far evaporare la stessa filosofia in mera «ripercussione» di movimenti interiori. Coerentemente coi precisi confini tetrarchici stabiliti sin dagli inizi del secolo, Croce rimproverava a Leopardi il «didascalismo» della sua arte, denunciando «una produzione poetica che, abbandonando la purezza dell’espressione lirica del sentimento, indulge a proporre al lettore l’esposizione di una serie di pensieri, di un catechismo pessimistico» (pp. 36-37). Né carne né pesce, perciò: mala poesia e mala filosofia. Su questa linea, anche Vossler. E Rensi aveva qualche ragione per storcere il naso, ma nelle pagine che Biscuso dedica al suo «paradossale» leopardismo relativista si possono apprezzare – o meglio sarebbe dire, disprezzare – tutte le conseguenze cui lo aveva menato l’abbandono definitivo dell’hegelismo: l’essere non è riconducibile a nessun senso o razionalità – questo insegnerebbe Leopardi – e perciò è legittimo che il potere lo eserciti chi se lo conquista con la pura forza. Idee, queste, che potrebbero aver influenzato direttamente Mussolini (p. 42).
Ne viene che per incontrare il Leopardi filosofo era necessario imboccare altre vie. Sul versante «rensiano» il testo di Biscuso ha l’innegabile merito di porre sotto il riflettore il semisconosciuto Giovanni Amelotti, il cui Filosofia del Leopardi (1937) rappresentò un’originale lettura dello Zibaldone alla ricerca di quella «logica diversa» in cui il recanatese s’imbatté a partire dal 1819, quando scoprì che «la contraddizione è il fondamento primo» (p. 63) dell’essere stesso; e nel suo tentativo di non pensarla come «altro» bensì come «nulla» risulta sorprendentemente accomunabile a taluni esiti dialettico-nichilistici della filosofia tedesca: Hegel, Heidegger. Il terzo capitolo dell’opera di Amelotti è infatti tutto incentrato sul confronto tra Leopardi e Heidegger, e colpisce la particolare affinità emergente tra la noia leopardiana e l’Angst heideggeriana, in quella che può considerarsi anche «una delle prime testimonianze italiane dell’interesse per l’autore di Sein und Zeit» (p. 64). Leopardi, insomma, fu uno dei varchi ermeneutici che consentì ad Heidegger di valicare le alpi.
Ma è di fatto in Gentile che «accade» la vera e propria Kehre del leopardismo italiano: se anch’egli, sulla scorta del maestro e amico Croce, fu portato a pensare che le dottrine leopardiane non sono tanto da considerarsi dei veri e propri filosofemi, bensì solo, com’ebbe a dire in uno dei suoi saggi giovanili dedicati al Recanatese, «credenze di uno spirito addolorato»1, a commiato filosofico e umano avvenuto, il pensatore siciliano «svolta» e insieme «torna» decisamente a De Sanctis, rigettando ogni forma di antileopardismo. Se studiata in maniera non soltanto erudita, da puri «letterati», la lirica di Leopardi non risulta affatto pessimista: essa non fiacca gli animi ma li rinvigorisce, perché la filosofia cui il Poeta in cuor suo pervenne, lungi dal farlo rassegnare al materialismo, lo indusse a ribellarvisi con tutte le sue forze. Per questo Gentile valorizza soprattutto le Operette morali, silloge filosofica ben più compiuta e puntuale dello Zibaldone, che ha «nell’amore l’ultima parola» (p. 77): l’amore e la magnanimità etica redimono l’uomo dalla sua misera condizione e nell’«ultrafilosofia» egli può finalmente avvertire il sentimento mistico dell’infinità della Natura e cantare «il dolce gusto dell’eterno»(p. 77). Il leopardismo gentiliano è perciò «doppio»: per una metà esso nega ciò che dovrebbe costituire l’umanità dell’uomo, per l’altra nega questa negazione, riaffermando la libertà, ossia la «possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un suo mondo»2. Nell’ostinatezza della ginestra, Gentile scorge l’infinita irriducibilità dell’Atto puro.
Ma anche dopo la guerra, lo slancio idealistico non si è esaurito, pur malconcio, ed è approdato a nuove piagge, che hanno di fatto significato una novità d’approccio nei confronti dello stesso recanatese. Quel che in Severino rimane dell’eredità gentiliana è sicuramente l’acquisizione inconcussa che Leopardi è un filosofo, anzi il filosofo occidentale per eccellenza: «se la civiltà occidentale vuol essere coerente alla propria essenza, deve riconoscere che la sua filosofia è la filosofia di Leopardi»3. Ma Occidente, per Severino, significa follia, negazione strisciante del principio di non contraddizione, che in Leopardi diviene finalmente patente: lo «scolorar del sembiante» che diviene «supremo». E proprio per questo Leopardi è la forma estrema del negativo, il nichilismo nella sua forma adamantina, l’errore, per dir così, «in purezza» (qui, appunto, la sua grandezza): la follia dell’Occidente che il neoeleatismo stesso, nel Novecento, ha avuto il ruolo di dimostrare assurda; il diamante nero che l’eternità dell’essere è destinata incontrovertibilmente a illuminare della sua luce gloriosa. Secondo Severino, quindi, l’importanza di Leopardi sta nel fatto che egli svolge, prima di Nietzsche e Heidegger, le conseguenze intrinsecamente nichilistiche della modernità: egli vede prima di loro e con maggior chiarezza l’obsolescenza egli eterni. Ma una volta giunti a questo punto, Biscuso giustamente si chiede, con Leopardi oltre Leopardi, cosa bisogna fare: «oltrepassare la soglia oppure prendere coscienza che siamo già da sempre oltre a soglia, oltre il nichilismo e la sua angoscia, oltre anche l’alternativa che l’opera del genio costituisce rispetto alla volontà di potenza» (p. 201)?
Leopardi reloaded, o del suo uso marxista
Il prima e il dopo 1947 sono quindi anche un prima e un dopo politici: Binni e Luporini strappano Leopardi dal «leopardismo e antileopardismo» dei primi trent’anni del XIX secolo che segnalavano lo schieramento, rispettivamente, dei fascisti contro i liberali, dei vitalisti contro gli idealisti, religiosità contro razionalità moderna. «Per chi, invece, non si è lasciato affascinare dalla conclusione nello scacco e nel mistero, la crisi è apparsa premessa del riscatto, pensato nella forma del rinnovamento radicale, della trasformazione decisiva, dell’opportunità di ricominciare l’opera di civilizzazione dalle fondamenta»(p. 11), continua sempre nell’introduzione Biscuso.
In Luporini, Leopardi appare prima come «pienamente nichilista», predecessore di Heidegger, nella misura in cui però la Stimmung fondamentale non è l’angoscia ma invece il dolore. Luporini, scrive Biscuso, usa Che cos’è metafisica? «per descrivere l’esperienza leopardiana del nulla: l’Angst diventa il dolore di fronte all’indifferenza della natura» mentre la noia diventa «il massimo di coscienza» (p. 94). Nell’uso progressista di Luporini, inquadrato da Biscuso nell’immediato secondo dopoguerra, il nichilismo leopardiano non è assoluto, ma funziona assieme al vitalismo, rapporto che definisce «attualissimo il messaggio di Leopardi». Il secondo elemento della critica marxista italiana dell’opera del recanatese è da situare in a Timpanaro, la cui lettura Biscuso la inquadra nella «spinta a riflettere sui mali dell’uomo e a combatterli». Importante è la citazione del critico riportata in apertura al capitolo ad esso dedicato: «mi ha appassionato per ciò che non c’è in Marx né in altri»4. Infatti, «ciò che non c’è in Marx» è appunto il doppio progresso (storico-sociale, ma anche biologico) dal momento che il marxismo, in particolare quello gramsciano, tende a identificare il secondo come sintomo del primo. Problematizzare, invece, questa duplicità dei progressi significa riconoscere l’apertura infinita della rivoluzione come processo sempre da compiere e mai già finito. Leopardi, per Timpanaro, è allora una possibilità di rottura con il programma di Gramsci, «scorgeva invece i rischi […] di limitare la «spontaneità della cultura del proletariato» (p. 138). La scissione dei due progressismi trova la sua unità in Leopardi, nel suo «illuminismo per tutti».
Gli elementi tracciati da Luporini e Timpanaro ritornano anche, seppur differenti e anche stravolti, nella riflessione di Negri che ne è «la punta estrema», per quanto distante dalle «speranze di una nuova fase storica» di Luporini e dallo «sforzo eversivo del Sessantotto» di Timpanaro. Lenta ginestra, che «si rivolge ai non pentiti», è dunque un libro «unzeitgemäß, fuori tempo, contro il proprio tempo, per un tempo a venire» (p. 146), che Biscuso individua come anticipazione di rompicapi che, appaiandosi con la riflessione spinoziana, apriranno al tempo della moltitudine. Lettura che si accorda, anche se non citata, con quella di Montefusco e Sersante nel loro Dall’operaio sociale alla moltitudine. Negri traccia una cesura netta con la visione dialettica di Leopardi che lo aveva preceduto – il recanatese è un «anti-Hegel», «un sovvertitore dell’essere». Inoltre, il progressismo (sia di Luporini che di Timpanaro) è rotto da Negri: la prima lettura è eliminata con il rovesciamento dell’interpretazione anti-progressista delle «magnifiche sorti e progressive», la seconda è annullata nell’assunzione del «materialismo come ontologia della seconda natura». Infatti, «per Negri la poesia è produttrice del vero in quanto crea, evocandone l’essenza, quel mondo altro rispetto al mondo dato»(p. 166).
Leopardi e noi, dunque, grazie all’uso contro l’interpretazione, che Biscuso strategicamente assume come metodo. L’inattualità del Recanatese ne fa un campo sempre aperto, un dispositivo che il pensiero – come si nota dalla genealogia di quello italiano novecentesco – può sempre fare proprio per affrontare il proprio tempo, esserne all’altezza. Perché «Leopardi ci insegna questa divinissima umana atea via di liberazione»5, perché in lui «[l]’ontologia si scuote dall’artificialità. Si ricerca come soggetto. Di nuovo l’antagonismo, il manicheismo, il grido di rivolta del poeta. Dentro la forza del suo apprezzamento critico del mondo noi comprendiamo, dunque, l’attualità della poesia di Leopardi» (p. 21).
Note
↩1 | G. Gentile, La filosofia del Leopardi in Manzoni e Leopardi, Sansoni, 1960, p. 42. |
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↩2 | G. Gentile, Introduzuone a Leopardi in Manzoni e Leopardi, cit., p. 91. |
↩3 | E. Severino, Il nulla e la poesia, Rizzoli, 2010, p. 7. |
↩4 | S. Timpanaro, Leopardi e la sinistra italiana degli anni Settanta in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, ETS, 1982, p.196. |
↩5 | A. Negri, Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, Mimesis, 2001 p.438. |
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