Il virtuoso del disincanto
Libertà, consumo, conflitto
Disincanto è sapere che non c’è nessun posto dove andare ma tante situazioni da cercare. Finalità «ultime» nell’agire: out. Ma allora la rivoluzione, la trasformazione del mondo, la società nuova non più soggetta al dominio del capitale, oggi finanziario? Non soggetti, gli individui, ad alcun tipo di dominio, intanto, pensiamo se è giusto far discendere tutto, per via diretta, dal capitale, e pensarci mica vuol dire espellere il capitale dal novero dei dominanti principali, magari si scopre che è il principale. Così obietta il virtuoso del disincanto, novello Glenn Gould (l’inosservante alle prese con i codici bachiani/mozartiani/beethoveniani/weberniani) ora alle prese con i codici del mercato. Lo schiva, il mercato, conoscendolo a fondo, frequentando le sue offerte e i suoi inganni.
Dentro-contro il mercato. Che – lo ricorda Massimo Ilardi nel suo balsamico volume Il tempo del disincanto (manifestolibri, 2016) – è legalità, ordine, controllo, polizia. Il consumatore, protagonista della trama del romanzo disincantato, è un’altra cosa, va da un’altra parte. Anche contro. Per desiderio del piacere, e la quota di desiderio è l’argomento che decide in tutto questo discorso ilardiano. Per desiderio di appropriazione di oggetti, certo, e di spazi di esercizio della propria autonomia di non-legalitario. Il mercato non gli garantisce per niente le risposte soddisfacenti a questi impulsi. Si tratta di dribblarlo, come minimo. Conoscendolo e frequentandolo.
Rivoluzione? Trasformazione di modalità di relazioni, in quali altre modalità non è chiaro perché dopo il Marx del comunismo che significa (significherà, non si sa quando) la mattina a pesca, il pomeriggio a caccia (Marx non era animalista), la sera a fare critica (fare l’amore purtroppo non era previsto) non diventando mai specialista di queste attività – non esattamente modalità di relazioni, piuttosto soddisfazione finalmente dei desideri di godimento individuali, e ci troviamo a intrattenerci con la dimensione dell’individuale senza esorcizzarla – nessuno si è curato di tratteggiarle? Niente di tutto questo se è rimandato a un futuro che semplicemente non esiste. Qui Ilardi, il romanziere del disincanto, assomiglia al Negri recente che parla della morte: non esiste, quando c’è lei non ci sono io. Idem per quanto riguarda il futuro, si potrebbe dire. O no?
Distaccato. Per capire di più. Per godere di più. Per constrastare di più l’ordine disciplinare del vivere. Per stare di più nel presente e solo nel presente. Il virtuoso del disincanto si prende nuovi spazi senza fissarvi un territorio, ha voglia di gratificazioni personali, minime, quotidiane, non coltiva il gigantismo dell’io, è piuttosto vicino al tipo dell’«uomo comune» di Paolo Godani. Naturalmente tiene d’occhio le vie di fuga possibili.
Ma come fa, dài, siamo seri, ammoniscono gli ortodossi. Il consumatore non può consumare se non secondo le leggi del mercato, c’è poco da distaccarsi e differenziarsi. No, ribatte lo scellerato con le parole di Ilardi: «il consumo si rende autonomo non solo dalla produzione ma dalle regole dell’etica e dall’ordine del sistema di mercato…». E invita gli ortodossi, sempre con il suo autore di riferimento, a fare una passeggiata in un centro commerciale, dove vedranno «migliaia di giovani che li attraversano senza magari comprare o consumare nulla ma solo per il piacere di stare insieme, perché è vero che il consumo è un fatto individuale ma è sempre agito dentro un’impresa collettiva. Quando andiamo a fare shopping partecipiamo alla cerimonia comune di fantasticare mondi illimitati che nessuna morale potrà mai comprimere».
Certo, Ilardi ammette che questo fantasticare può prendere anche tinte integraliste, condurre a sua volta verso modi di pensare e di sentire assolutisti. «Ma sono i rischi di una società del consumo che solo il disincanto può tenere lontani». Ecco perché il protagonista nascosto, ma non troppo, di questo libro è il virtuoso del disincanto. Questo personaggio non insegue la liberazione domani ma azzarda la cattura di frammenti di libertà oggi. E azzarda l’affermazione di libertà chiamandola proprio con questo nome. Le migliaia di giovani al centro commerciale devono diventare virtuosi come Glenn Gould, però. Mica facile. Ci si arrovella sul come, in altri contesti culturali, da parecchio tempo. In fondo si parla anche qui di soggettivazione in senso sovversivo dell’odierna moltitudine precaria.
Ma il bello del virtuoso del disincanto è il suo anti-determinismo. Non crede alla fatalità del Grande Moloch che tutto governa, una maniera oggi circolante di connotare il potere biopolitico. L’evasione dalle leggi è l’esercizio quotidiano del nostro Glenn Gould, ha un vero bisogno di piacere, è sventatamente edonista, con le leggi non si ritrova. Nemmeno con la legge del Sistema Generale che fa discendere qualunque gesto possibile, unilateralmente, dalle condizioni poste dal Sistema Generale medesimo. Il capitale entra nelle anime, le mette al lavoro, certo. Il virtuoso del disincanto lo sa e usa il suo potere – una certa dose di distacco conoscitivo-esperienziale, una certa attitudine alla solitudine – per provare a pronunciare le sue parole.
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