Vivere e pensare nell’attuale pandemia
La sfida del cambiamento climatico
Il 25 febbraio arriva in libreria, per ombre corte, il saggio di Dipesh Chakrabarty «La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene» (prefazione e cura di Girolamo De Michele, traduzione di Carlotta De Michele), che riunisce una serie di interventi ancora inediti in Italia. L’Antropocene costituisce un terreno di intersezione fra la crisi economico-sociale globale e la crisi climatica. Qui la critica ai processi che hanno prodotto un’umanità differenziata e con disuguaglianze di classe, e la consapevolezza della crisi ambientale, mettono in questione la concezione antropocentrica del mondo, e alludono alla necessità di decentrare l’umano. Proponiamo ai nostri lettori un estratto della raccolta, in particolare il breve intervento «On Living and Thinking Through the Current Pandemic» (2020), apparso in traduzione italiana anche per Nottetempo.
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Ogni cosa, nella mia vita accademica in America, è rimasta in stallo per mesi, mentre il numero delle vittime del Covid-19 negli Stati Uniti continuava a crescere: i colleghi non lavoravano, le conferenze e le riunioni rimanevano cancellate. Abbiamo appena finito di tenere lezioni online, sorprendentemente con più successo e soddisfazione di quanto ci aspettassimo. Le linee aeree stanno ancora volando senza passeggeri o cancellando voli, sono ancora in vigore embarghi per chi arriva da certi paesi. Ma al tempo stesso è evidente che la pazienza umana – ormai al limite, ma critica verso le nostre strategie di contrasto della pandemia in assenza di un vaccino o dell’immunità di gregge – è stata messa duramente alla prova.
Alcuni stati americani stanno riaprendo, a prescindere dalla diffusione dell’infezione; alcune persone hanno iniziato a socializzare, seppure cautamente e all’interno delle loro “bolle sociali”. I giovani hanno ignorato volontariamente e animatamente la minaccia della pandemia per protestare contro l’omicidio grottesco e razzista di George Floyd. La pandemia ci ha già lasciato alcune lezioni: (a) ha reso visibile in molti luoghi come, quando gli esseri umani sono obbligati a ridimensionare la loro presenza e le loro attività, l’aria diventa più pulita, il cielo più blu e le città ritrovano alcuni degli uccelli e degli animali che sembravano aver perso; (b) che potremmo essere pronti ad abitare un mondo con meno spostamenti e più presenze online; (c) che un mondo basato su tanti spostamenti ci rende in effetti vulnerabili nei confronti di future pandemie di questo tipo; (d) che gli umani sono i più grandi agenti di devastazione dell’ambiente di questo pianeta.
Tutto questo è diventato ovvio grazie a una minuscola forma di semi-vita, un virus, il Nuovo Coronavirus, che non possiamo nemmeno vedere ma che mette in pericolo la vita umana proprio perché molti esseri umani alla ricerca di profitto, potere e prosperità hanno convertito questa Terra in un globo tecnologicamente connesso. Quest’ultimo processo ha avuto di certo inizio con l’espansione e la colonizzazione europee, ma ha subito un’accelerazione nei secoli diciannovesimo e ventesimo, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando abbiamo visto il numero e i consumi degli esseri umani salire alle stelle (nonostante la grande povertà di molte persone).
La popolazione mondiale è più che raddoppiata dalla Seconda guerra mondiale, mentre la popolazione indiana è cresciuta di oltre quattro volte nell’arco della mia vita. Le tecnologie, comprese quelle che contribuiscono alle scienze mediche, sono state rese possibili dalla disponibilità dell’energia abbondante e a buon mercato derivata dai combustibili fossili, che ora supporta più di sette miliardi di esseri umani sul pianeta. Alcuni scienziati della Terra sostengono che, privato della tecnologia che trasforma questo pianeta in un globo, il numero di esseri umani collasserebbe su una piccola frazione dell’ammontare attuale. In altre parole, la globalizzazione del capitale e della tecnologia non è solo un fenomeno storico e sociologico, ma ha anche una dimensione biologica molto estesa: è ciò che ha permesso agli esseri umani di aumentare di numero così velocemente e di vivere in megalopoli dove gli ultra-ricchi, le classi medie emergenti e crescenti numeri di poveri urbani si aggregano.
Le città stanno diventando l’habitat naturale della specie umana. Tuttavia è evidente che il punto effettivo dell’essere connessi gli uni agli altri – non tanto nello spirito, dato che, sfortunatamente, non c’è alcuna penuria di pregiudizio religioso o razzismo nel mondo, ma in modo materiale – e dell’essere tanto popolosi, urbani e mobili rende le nostre vite vulnerabili in modi nuovi. La connettività, sia virtuale che reale, è di certo la chiave del sostentamento delle vite globali. I migranti globali non sono come i membri della Comune di Parigi o i galeotti britannici che venivano esiliati nelle isole del Pacifico o in Tasmania nei secoli scorsi: l’esilio implica un contatto nullo o scarso con le persone lasciate a casa. Le cose sono molto diverse adesso: gli emigrati indiani dipendono, ad esempio, da Skype, Facebook, WhatsApp e dalle email per godere ogni giorno delle gioie della parentela e dell’amicizia. C’è sempre, inoltre, la possibilità di viaggiare, d’importanza critica. Il mio volo di ritorno in India durante le vacanze dagli Stati Uniti è pieno di giovani e orgogliosi genitori indiani che tornano a casa per presentare i propri bambini ai rispettivi genitori rimasti a casa, o di genitori anziani in visita ai propri figli e nipoti. Se questa è la storia dell’India, immagino che la storia della Cina non sia molto diversa, nonostante i cinesi abbiano le loro particolarità storiche.
I cinesi, per giunta, hanno la tradizione di mangiare animali “selvatici”. Ci si può immaginare, inoltre, come il rapido sviluppo di estese popolazioni urbane con denaro a disposizione abbia posto le condizioni per un’espansione della domanda di articoli alimentari “di lusso” che un tempo figuravano come “esotici” sui menù riservati alle persone molto ricche. Sono apparsi “wet market” (letteralmente “mercati umidi”), dove il sangue e i fluidi corporei di diversi animali appena uccisi spesso scorrono mescolati assieme, creando un ambiente congeniale alla proliferazione di nuovi batteri e virus: adesso sappiamo che questo nuovo virus è stato originato dall’uccisione di animali selvatici in uno di questi mercati. La storia cinese rende solo più drammatica la situazione attuale degli esseri umani.
C’è stato un tempo, centinaia di migliaia di anni fa, nel quale i protoumani non erano una specie biologicamente dominante; ma i loro discendenti, noi Homo sapiens, lo siamo: i maestosi animali selvatici non ci danno più la caccia. Ma nel processo attraverso cui, distruggendo i loro habitat per fare più spazio alla nostra popolazione in crescita, abbiamo distrutto anche loro, li abbiamo costretti ad avvicinarsi troppo a noi. Inoltre, mangiamo una gran parte degli animali da allevamento e del pollame: i polli da carne sono oggi gli uccelli più popolosi del pianeta. Gli esseri umani dominano completamente la vita animale: il novanta per cento della biomassa attuale di tutti i vertebrati è costituito da umani e dagli animali che alleviamo o teniamo con noi, solo il cinque per cento è costituito da animali genuinamente selvatici come elefanti, leoni, tigri, ghepardi, leopardi, gorilla eccetera. È chiaro che questi animali selvatici sopravvivono alla nostra mercé: se i vari governi non avessero avuto la volontà politica di tenerli in vita, non sarebbero sopravvissuti. Al tempo stesso, le città stanno incrementando le proprie dimensioni e gli esseri umani stanno consumando più carne e invadendo gli habitat della fauna selvatica, molti dei quali ora non hanno altra opzione se non “imparare” a essere urbani o a vivere vicino alle popolazioni umane.
Nel complesso l’interfacciamento tra esseri umani e animali selvatici sta diventando più frequente: ho letto che il sessanta per cento dei mali subiti dagli esseri umani a partire dagli anni Sessanta ha avuto origine dagli animali. È ironico: non siamo più prede degli animali e degli uccelli, ma lo siamo dei microbi nei nostri corpi, e questi ultimi sono predatori molto più difficili da gestire rispetto ai leoni e alle tigri. La pandemia è dunque connessa al periodo della storia globale che gli scienziati del sistema terrestre e i loro collaboratori hanno denominato “la Grande Accelerazione” – circa dagli anni Cinquanta fino ad oggi –, ma di certo ha colto l’umanità di sorpresa, a differenza, diciamo, dei tifoni letali o delle frane o delle tempeste di fuoco che abbiamo imparato ad aspettarci da tutto ciò che sappiamo sui deleteri effetti del riscaldamento globale antropogenico. Tuttavia, nel momento in cui l’oms ha definito il covid-19 una pandemia, i funzionari delle Nazioni Unite nella loro sezione sull’ambiente hanno subito tracciato una connessione tra la deforestazione, la distruzione dell’habitat delle specie selvatiche, l’aumento dell’affluenza umana e la pandemia.
Alcuni di loro sono addirittura arrivati a descrivere la pandemia come un “avvertimento” della natura agli esseri umani. Hanno sottolineato – e lo hanno fatto anche altri studiosi – che, negli ultimi vent’anni o giù di lì, il settantacinque per cento delle nuove malattie infettive per gli umani è stato di tipo zoonosico, vale a dire che hanno avuto origine quando un virus o un batterio ha fatto il salto di specie, spostandosi dagli animali selvatici agli umani. Questo spostamento di virus e batteri dai corpi di animali o uccelli a quelli degli umani è stato accelerato dalla distruzione degli habitat della fauna selvatica, grazie al rapido aumento della deforestazione dovuto all’estrazione mineraria, al disboscamento, alla conversione delle foreste in terreni coltivabili, all’espansione delle abitazioni umane, al commercio illegale di prodotti della fauna selvatica e così via. Queste affermazioni sono supportate anche dalla ricerca di virologi come Nathan Wolfe (si veda il suo libro The Viral Storm, “la tempesta virale”) e di divulgatori scientifici come David Quammen, l’autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie1.
La catena delle causalità mostra la connessione fra l’Antropocene e la pandemia: l’aumento dell’accesso all’energia abbondante e a buon mercato porta all’aumento del numero degli esseri umani e alla loro prosperità (che a sua volta comporta una crescente richiesta di sviluppo e consumo da parte degli esseri umani) e quindi, infine, alla distruzione degli habitat della fauna locale e a un incremento dell’interfacciamento fra umani e animali selvatici. Tutto questo si accorda alla perfezione, anche se tristemente, con la narrazione della Grande Accelerazione che è alla base dell’ipotesi Antropocene. Cosa dovrebbero fare gli esseri umani? Certe questioni acquisiscono un’importanza immediata in questa situazione. Per prima cosa – e assumendo che i leader dell’economia globale non stanno per invertire la rotta, almeno non a breve termine – la pandemia ci fa realizzare l’esistenza di un immediato bisogno di creare istituzioni globali in grado di prevedere, se possibile, l’emergere di future pandemie e di sovrintendere alla loro gestione globale.
Alcuni economisti hanno inoltre suggerito di lanciare un Fondo di solidarietà internazionale che renda possibile per le nazioni più ricche del mondo aiutare le nazioni più povere ad affrontare meglio l’impatto devastante delle pandemie sulle loro economie, di modo che i poveri del mondo non siano costretti a compiere un’orribile scelta tra morire di fame e morire di pandemia. Con la recessione della pandemia, che inevitabilmente accadrà, ci si presenterà inoltre un momento in cui potremmo introdurre una tassa globale sul carbonio, per assicurare e preservare i benefici della riduzione forzata delle emissioni di gas serra durante il periodo di shutdown. Ma esiste anche una prospettiva a lungo termine: il momento attuale non appartiene solo alla storia globale degli esseri umani, ma rappresenta anche un momento nella storia della vita biologica di questo pianeta in cui gli esseri umani hanno agito da amplificatori di un virus il cui serbatoio ospite potrebbero essere stati alcuni pipistrelli in Cina per milioni di anni. I pipistrelli sono una specie antica, sono stati in circolazione per circa cinquanta milioni di anni (a paragone coi nostri 300.000).
Nella storia darwiniana della vita, tutte le forme di vita cercano di incrementare le proprie possibilità di sopravvivere. Il nuovo Coronavirus, grazie alla domanda di carne esotica in Cina, ha fatto il salto di specie e ha trovato oggi negli esseri umani un agente meraviglioso che gli permette di espandersi su scala mondiale. Perché? Perché gli esseri umani, creature molto sociali, oggi esistono in un numero molto esteso su un pianeta che affollano, mentre la maggior parte di loro è estremamente mobile: questa è, in breve, la storia della globalizzazione. E il virus riceve di certo molto aiuto dal fatto che le persone possono essere infettive prima di essere sintomatiche. Quindi, dal punto di vista dell’agente patogeno, questa è stata una grande mossa: gli esseri umani possono aver vinto la loro battaglia contro il virus – lo spero davvero – ma il virus ha già vinto la guerra.
Questo è senza dubbio un episodio nella storia darwiniana della vita, e i cambiamenti che causa saranno epocali sia nella nostra storia globale sia nella storia planetaria della vita biologica. La domanda davvero critica e fondamentale che dobbiamo porci è: vogliamo, in quanto esseri umani, continuare a espandere un’economia che continua ad aumentare il rischio di malattie zoonosiche per noi? Nathan Wolfe, il virologo che ho menzionato prima, afferma che le epidemie causate dal trasferimento di virus e batteri tra esseri umani e animali domestici ha raggiunto una sorta di equilibrio circa 5.000 anni fa, e che le più recenti infezioni con il potenziale per causare epidemie o pandemie sono state causate dall’aumento di contatti tra esseri umani e animali selvatici. Gli animali selvatici non ci cercano, siamo noi ad andare a distruggere i loro habitat, costringendoli a venire a contatto con noi. Molti scienziati del sistema terrestre, biologi evoluzionistici e studiosi dell’Antropocene ci hanno ricordato che l’economia globale sta distruggendo la biodiversità e che, su scale umane di tempo, la biodiversità è una risorsa non rinnovabile e critica per il proliferare di tutte le forme di vita, inclusa la nostra.
La soluzione a lungo termine deve ricadere nel riconoscimento da parte degli esseri umani – nel loro stesso interesse – del valore della biodiversità e dunque degli animali selvatici e delle altre forme di vita. Se queste ultime devono sopravvivere, avranno bisogno di più spazio su questo pianeta in modo da poter stabilire una distanza fra loro e noi, una distanza che ci terrà gli uni al sicuro dagli altri. Ora potrebbe essere il momento di prendere seriamente il tipo di proposta che Edward O. Wilson fa nel suo libro Metà della Terra. Salvare il futuro della vita2 per preservare la biodiversità globale: cercare di ripristinare tutti i parchi nazionali del mondo al loro stato originario, a qualunque cosa fossero prima che l’intervento umano modificasse l’equilibrio delle specie.
Detto in maniera più critica, è tempo di mettere in discussione il tipo di civiltà in cui gli esseri umani vogliono vivere: la Guerra Fredda tra capitalismo e socialismo è bell’e morta, ma questo non significa che la questione della messa in discussione del capitalismo abbia perso parte della sua importanza. L’alternativa al capitalismo attuale non dev’essere il socialismo maoista o leninista. Come rimanere moderni e democratici senza tuttavia distruggere o dominare completamente l’ordine della vita sul pianeta rimane una questione critica, dal momento che gli esseri umani contemplano il loro futuro su un pianeta che non è stato fatto in funzione delle loro necessità, e che hanno dato per scontato per fin troppo tempo3.
Note
↩1 | Nathan Wolfe, The Viral Storm: The Dawn of a New Pandemic Age, Allan Lane, 2011; David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, trad. it. di L. Civalleri, Adelphi, 2014 [N.d.C.]. |
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↩2 | Edward O. Wilson, Metà della Terra. Salvare il futuro della vita, trad. it. di S. Frediani, Le Scienze, 2016 [N.d.C.]. |
↩3 | Nel preparare questo pezzo, l’autore ha attinto a un articolo che aveva scritto per la rivista di Calcutta “The Telegraph” nel marzo del 2020 e a un’intervista che ha rilasciato per la Toynbeeprize Foundation nel giugno del 2020. |
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