Noi con Loro/ Bordered Lives
Bordered Lives
Non porto con me verità senza tempo
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche
Vivere in un’interstizio: questa la condizione raccontata nel lavoro artistico di Keith Piper, nato inglese da genitori caraibici e posizionandosi nella temperie della black diaspora che attraversa una generazione di artisti, attivisti e teorici in reazione alla condizione postcoloniale della società britannica del secondo dopoguerra. Ghosting the archive è un video del 2005 basato sulle fotografie contenute nelle scatole di Ernest Dyche, fotografo popolare tra le comunità di migranti di Birmingham fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Dyche ha prodotto un resoconto unico dell’evoluzione di Birmingham come società multiculturale, lasciando numerose scatole di negativi che testimoniano questi passaggi complessi. Nel video i negativi, mantenuti dall’artista con un guanto bianco, sono inquadrati l’uno dopo l’altro da una fotocamera digitale nello spazio attuale della biblioteca di Birmingham. Dopo ogni scatto la presenza spettrale del negativo cambia e si trasforma in altro: le zone chiare dell’immagine diventano scure, mentre quelle scure si schiariscono. In altre parole, i soggetti originali della fotografia emergono dall’oscurità e riappaiono nello spaziotempo contemporaneo.
Traccia, ferita che dal passato irrompe nello spazio fuori dagli scaffali definiti dell’archivio il quale rischia di diventare, secondo le parole di Achille Mbembe, il sepolcro imbiancato di tutto ciò che è morto e dimenticato. Ancor più nelle istituzioni totali dove al silenzio e alla sedazione si legano l’intolleranza della differenza e il rovesciamento del dogma dell’identificazione, per questi abitanti del linguaggio simile ad un segreto, territorio custodito con cura per ciò che fuori non viene tollerato. Non smettiamo di ricordarci – con Jean Luc Nancy – come le immagini siano forze vitali dotate di pressione e intensità; “eccessive”, le immagini non sono oggetti o rappresentazioni ma atti di creazione che incidono di sé la possibilità di un futuro. Sostenuti in immagine, altrettante tracce di storie multiple che non devono essere dimenticate in qualche scatola o archivio né fruite semplicemente da uno sguardo analitico ma lasciate in movimento, in scorrimento continuo – lacrime, sangue, flussi di pixel e di memoria, paesaggi e incontri – sono i corpi colpevoli di viaggio di Bordered Lives di Emma Humphris, Khadija von Zinnenburg Carroll e Ludovica Fales, in mostra al VBKÖ di Vienna dal 3 all’11 settembre. Il confine nelle vite in gioco è qui doppio: lo sguardo è restituito, infatti, ai rapporti tra istituti di detenzione e migrazione irregolare visto l’ulteriore aggravio di fragilità e vulnerabilità di queste vite alla luce dell’attuale crisi sanitaria. Edito da Sternberg Press nel 2020, Bordered Lives. Immigration Detention Archive1 di Mary Bosworth, Khadija von Zinnenburg Carroll e Christoph Balzar è un testo che offre una panoramica unica sull’esperienza detentiva dei migranti nel Regno Unito raccogliendo documenti originali, fotografie e opere artistiche dei detenuti e rendendo visibili spazi nascosti in cui si intersecano violenza, coercizione, censura, controllo ma anche resistenza e possibilità di futuro.
Nella performance Men in waiting di Khadija von Zinnenburg Carroll, infatti, la riflessione sul tempo e lo spazio all’interno dell’istituzione detentiva è immersa in un mondo di ombre simile al contesto in cui si ritrova il protagonista della Repubblica di Platone che, nella ricerca di rendere visibile la realtà in cui ci si ritrova costretti, viene fatto martire. In tal senso, le pratiche artistiche all’interno degli spazi di detenzione sono l’occasione per sedersi accanto e con le ombre che ostacolano il processo della visione. La stessa esperienza della migrazione in relazione all’arte non è quindi semplicemente un oggetto di analisi sociale bensì spazio attivo di rinegoziazione di significati, forma vitale di impatto sui corpi in grado di creare riverberi e situazioni, silenzi e transizioni, relazione con forze che non sarebbero altrimenti percepibili. Art is the opening up of the universe to becoming-other secondo la formulazione di Elisabeth Grosz.
Includendo lettere, scritti, poesie, disegni, oggetti, video, la mostra esplora la natura contraddittoria dei confini anche attraverso un workshop di Ludovica Fales intorno al testo Border as Method, or, the Multiplication of Labor2 di Sandro Mezzadra e Brett Neilson: il confine non è più il solo oggetto della ricerca teorica o artistica ma diventa anche il cadrage epistemico in grado di non trascurare di focalizzare l’attenzione sulle modalità attraverso le quali le pratiche di creazione e mantenimento dei confini siano essenziali per la mercificazione della forza lavoro e per il capitalismo ma anche per la possibilità di creare altri spazi politici e altre soggettività necessarie per possibilità di vita senza il tipo di sfruttamento sociale e relazione del capitalismo. Non più marginali nello spazio sociale e politico, i confini attraversano e diventano la lente politica fondamentale della riflessione contemporanea in un’ottica di inclusione differenziale e di produzione di soggettività.
Note
↩1 | M. Bosworth, K. von Zinnenburg Carroll, C. Balzar, Bordered Lives. Immigration Detention Archive, Sternberg Press 2020. |
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↩2 | S. Mezzadra, B. Neilson, Border as Method, or, the multiplication of Labor, Duke University Press 2013. |
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