Fine di una Storia

Ricordo di una città strappata dagli occhi: la Jungle di Calais

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Gian Maria Tosatti, New Man’s Land (2016).

Premessa. Ho atteso un anno prima di pubblicare questo articolo scritto di getto nell’aprile del 2018. Ho esitato. Per pudore. Lo so, non si dovrebbe, ma ho sentito la responsabilità di mettere per iscritto e pubblicare parole tanto gravi e una tanto grave descrizione dell’Europa di oggi. Ho atteso. In un anno nulla è cambiato. Il pudore di dire si è trasformato nell’insostenibilità del serbare queste parole nel silenzio. Così oggi pubblico questa storia che idealmente segue le vicende narrate nel mio libro «New Men’s Land – Storia e destino della Jungle di Calais» edito nel 2017 da DeriveApprodi nella collana curata da OperaViva.

Si chiamava «la giungla». Alberi non ce ne sono più. Non è un buon segno. In qualunque cultura, in qualunque tempo. Il laghetto, su cui affacciavano le terrazze di alcuni ristoranti arabi, come in una sorta di Svizzera stracciona, adesso è impudicamente nudo, incorniciato dalle sole rive. E di più, ci sono canali d’acqua e colline. C’è sabbia dove c’era terra, ci sono ruscelli artificiali, dove c’erano strade. Non c’è niente dove c’era una libreria, dove c’era una chiesa. È esattamente così che mi sono sempre immaginato il nazismo, al di là delle sue pagine più truculente. Ne ho letto molto, ma qui, mi pare di farne l’esperienza. Un libro, per quanto acuto, non può mai bastare per conoscere qualcosa. Un libro ci offre una tesi, ma ci tiene comunque al riparo da quella confusione che, a distanza di settimane, non se ne va dalla mia testa. Che cosa ho visto a Calais? Me lo continuo a domandare. Non so dare una risposta. Ho visto la fine. Sì, credo di aver visto la fine per amputazione. L’assenza. E peggio ancora, la cancellazione della memoria.

Già, questa parola, diventata cruciale proprio all’indomani dell’ecatombe nazista, diventata l’ossessione di popoli decimati, di popoli che hanno percepito concretamente la possibilità di essere espunti dalla Storia, ha assunto un’aura sacra in questo tempo laico. Ma non vuol dire che allo stesso modo venga trattata. Ecco, sterilizzare la Storia, l’umanità, decidere chi sì e chi no. Non è finita. Ogni volta che lo vedo – e lo vedo spesso – mi ricorda solo e soltanto da dove viene questa sinistra attitudine.

Torno a Calais dopo un anno e mezzo dalla distruzione della Jungle. Non mi aspetto di trovare uomini o costruzioni ancora in piedi. Ma neppure mi aspettavo di trovare un luogo che nemmeno somiglia fisicamente a quello che lasciai. Il governo francese ha compiuto la scelta macabra di cambiare finanche i connotati del paesaggio, di rimodellare colline, avvallamenti, per rendere quel luogo irriconoscibile. Così la storia di quella grande città, ambasciata dell’altra Europa, della Grande Europa, l’Europa allargata che desiderammo irresponsabilmente e l’Europa adulta finalmente capace di rispondere delle sue azioni storiche, del suo passato coloniale, restava senza nemmeno un sasso che potesse testimoniare la sua esistenza. Tutto come se non fosse mai avvenuto.

Proprio come nel film di Frank Capra. Nella logica delle violente intimidazioni continuamente perpetrate dalla polizia verso il popolo migrante, il governo francese è arrivato a stuprare la terra perché raccontasse la versione ufficiale che lì, tra dune di sabbia nuove di zecca, ruscelli artificiali e la promessa di un parco naturale, una città chiamata Jungle non c’era mai stata. La terra violata davanti ai miei occhi sembra giurare/spergiurare che, se ci fosse stata, ora se ne vedrebbero almeno le macerie, come l’antica Troia. Invece niente. Niente di niente. Solo sabbia, acqua e cielo. Migranti? Non proprio: migratori. Maya Konforti, segretario de L’Auberge de Migrants, associazione di trincea che in questi anni ha garantito viveri e aiuti per la Jungle, mi dice: «Faranno un’oasi per uccelli migratori. Non lo trovi ridicolo? Non la trovi una presa in giro? Pensano alla migrazione degli uccelli e se ne fottono di quella degli uomini!».

No, non lo trovo ridicolo. Lo trovo lugubre. E avverto in questo gesto l’alito del negazionismo. Noi europei dobbiamo stare sempre molto attenti a come maneggiamo i significati delle cose. Non siamo figli di nessuno. Siamo figli della nostra Storia. Figli dei caratteri che abbiamo espresso. Siamo e sempre rimarremo i figli di una genìa che un giorno di non molti anni fa ha deciso di radiare dall’umanità un popolo, quello ebraico, dopo altri e altri ancora in passato. Siamo quelli che oggi, proprio accanto al muro che Hitler fece costruire lungo la Manica per proteggere l’Europa dall’invasione straniera, ha costruito un altro muro per contrastare un’altra invasione, ancora una volta un’invasione che ci avrebbe, forse, salvato dalla nostra Storia, appunto. No, non ci trovo niente di ridicolo nel correggere «migranti» con «migratori». Trovo piuttosto la faccenda molto seria.

Trovo questo gesto, uno statement forte, profondamente in linea col conformismo della nostra civiltà. Lo trovo coerente con la deriva disumanizzante da cui la Scuola di Francoforte ci aveva messo in guardia ormai più di cinquant’anni fa. Ed è la diretta conseguenza di quel che Emmanuele Carrère aveva raccontato nel suo libro «A Calais», uscito mentre io scrivevo il mio. Un racconto che si teneva a margine della Jungle, tra i francesi, in mezzo a quella piccola borghesia, classe operaia, rimasta a piedi con la crisi dell’industria manifatturiera della città. Un racconto che si pone come una disamina antropologica di quella deriva post-capitalista, di quella mentalità unidimensionale, per dirla con Marcuse, che ormai permea pienamente ogni strato della società, finanche le forze tradizionalmente anti-sistema, come, appunto, il proletariato, ormai imborghesito nella testa senza esserlo nelle tasche. I muri allora, sono il prodotto di quella paura, di una società che non ha nulla da perdere, ma che vuole conservare quel nulla gelosamente, perché, ormai, ha paura di perdere anche quello, ha paura di cosa ci sia oltre il niente. Mentre passo con la macchina per le strade strette della città, mi viene in mente una canzone dei Pink Floyd dal titolo indicativo: The Post-war Dream.  Già! Che ne è di quel sogno su cui avremmo voluto ricostruire l’Europa? È ridotto a questa paura rattrappita del futuro? «Oh Maggie, Maggie what have we done?» si domanda, disperatamente, Waters, interrogando l’allora lady di ferro Margaret Tatcher. Già, che cosa abbiamo fatto? Cosa ne abbiamo fatto di quel sogno, murato vivo dietro le finestre di queste villette povere, dietro un indice di disoccupazione che racconta il definitivo fallimento di una certa idea di società, dietro un muro costruito per la seconda volta lungo la linea del mare?

Jameson diceva che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ecco, forse è questo che è successo: abbiamo immaginato la fine del mondo per paura di immaginare la fine del capitalismo e gli abbiamo dato forma. Ed ora la forma è appunto questa trincea dell’umanità. Questo scenario di guerra e rimozione. Continuo a girare per la città grigia e spenta. Sembra che non ci siano esseri umani. Eppure si percepisce la loro presenza nelle camere, nelle case. Sembra che sia appena passata una bufera, una simile a quella d’acciaio che si abbatté a pochi chilometri da qui, su Dunkerque, nel 1940. Uscendo dal centro abitato, il panorama cambia, ma resta coerente. È paesaggio di battaglia. Ci sono corpi, corpi abbandonati sulle rotonde delle statali. Tre, quattro, distesi, privi di coscienza. Otto, dieci, venti, tutti con la pelle scura. Non possono essere morti, eppure le loro pose sono scomposte, come fossero state sorprese da un’esplosione, invece, è solo una stanchezza invincibile che li ha stremati, in pieno giorno, come naufraghi di un viaggio alla deriva.

Salendo sui cavalcavia, si vede lontano. Si notano alcuni segni di vita. Uomini neri attraversano i campi a piedi, come fiere, li tagliano in diagonale, per evitare le strade, come durante i rastrellamenti. Resto immobile a fissare quell’orizzonte sottostante, che è la traduzione letteraria di un incubo. Quegli uomini sono stati strappati alla civiltà, ridotti a nascondersi nella vegetazione, come pantere nere, pantere scappate da un circo in cui noi stessi le avevamo inserite, andandole a prendere, dalle loro foreste, portando loro la nostra idea di civiltà che prevedeva però per loro solo ruoli da animali. Pensavo che questa fosse storia dell’altro secolo. E, invece, a Calais, ho visto di nuovo qualcosa che pensavo debellata da questa terra, da questa Europa: la paura dell’uomo bianco. E a Calais, per la prima volta nella mia vita, mi sono sentito un uomo bianco. Ecco, Maggie, ecco, Roger Waters, ecco lettori che cosa abbiamo fatto. Ecco che cosa ne abbiamo fatto del «post-war dream». Lo abbiamo cancellato come la Jungle di Calais, come le cose che avevamo imparato nel dolore, lasciando poi che l’incubo rimasto sospeso ricominciasse. Abbiamo permesso al totalitarismo di tornare sotto forma di una libertà non-democratica, in cui, ancora una volta, tutti sono in pericolo, perché tutti sono nemici di tutti. E il pericolo ci tiene in casa, ci tiene lontani dalle marce verso un mondo nuovo. Noi, gli uomini bianchi. Noi che possiamo permetterci di morire in un letto, e per cui, forse, morire, a questo punto, non è nemmeno tanto male.

A Calais ho visto questa fine. La fine del mondo. La fine del nostro mondo, del mondo di cui abbiamo voluto farci padroni. La fine dell’umanità o, se non altro, di quella a cui anche io non posso esimermi d’appartenere, al netto del senso di vergogna che mi pervade e che ancora mi sembra una cosa buona. Ma non ho visto solo quello. Ho visto anche cose che mi sono state strappate dagli occhi, ho visto la Jungle, e non c’è maquillage paesaggistico che possa cancellarla dalla mia memoria. Perché io sono un testimone. Il mio lavoro è essere un testimone dell’accusa. E dimenticare mi è proibito. Dimenticare sarebbe la diserzione più profonda per uno come me, che fa il poeta.

E poi ho visto ancora uomini che non possono smettere di sognare perché non hanno una realtà su cui ripiegare. Uomini che non hanno smesso di marciare. Uomini che sembrano morti, ma che non sono morti, solo stroncati dalla stanchezza, perché sono in costante cammino, in movimento verso un altro mondo che deve pur esserci, perché per loro in quello vecchio non c’è posto. Uomini deboli, perché vessati, perché perseguitati, perché reietti, perché rinnegati, perché disperati. Ma sono quelli che non potranno mai disertare la militanza del sogno, di quell’immaginazione al potere che noi credevamo di poter servire tanto tempo fa. Non sono eroi, ma sono emissari di un pensiero filosofico che ci ha insegnato a diffidare dei desideri, di una democrazia che non è mai stata tale e di una umanità diventata tecnica. Essi, che hanno costruito l’utopia di una città che ci è stato vietato di ricordare, sono gli emissari della Storia. Essi soltanto. Perché, come scriveva, Benjamin, morto anche lui mentre fuggiva dal nazismo, «è solo per merito dei disperati che ci è data (ancora) una speranza».

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