A miracle of boxes
Note sulla città come call center
1.
Il passaggio verso l’economia capitalista in Albania, che va dallo scioglimento del Partito del Lavoro (PPSH) nel 1991, gli esodi delle navi, fino ai tempi recenti, è stato definito come il «periodo della transizione». Oggi invece, la transizione viene descritta alla sua conclusione, e vede l’Albania al centro del discorso politico e architettonico europeo, con l’interesse preoccupante di vari archistars come Stefano Boeri, Winy Maas, Marco Casamonti o Bjarke Ingels. Dietro a questo interesse vanno evidenziati due passaggi decisivi: l’ingresso nella NATO nel primo aprile 2009, quando l’ex Primo Ministro della destra Sali Berisha pronunciava This is a Miracle of freedom, e le politiche di «Rinascimento Urbano» avviate dall’attuale Premier Socialista Edi Rama dal suo arrivo in carica nel 2013. Il primo evento di fatto ha aperto all’interesse imprenditoriale da parte di aziende estere, per investimenti e outsourcing di forza lavoro a basso costo (come per la manifattura, l’edilizia e la telecomunicazione) e il secondo, un periodo contraddistinto da numerosi interventi di «restyling» degli spazi pubblici, e da grandi costruzioni di edifici residenziali e uffici, accompagnati da intense politiche di privatizzazioni, appalti, e da una ideologia imprenditoriale, soprattutto nel settore dei servizi e del turismo.
Nel 2014, durante la visita di Matteo Renzi alla chiusura della presidenza europea dell’Italia, Edi Rama lanciava un invito agli imprenditori italiani dicendo: «Venite qui, tasse al 15% e non ci sono i sindacati»1. Da quel momento il numero delle imprese estere che approfittano della forza lavoro a basso costo è aumentato. Tra le diverse imprese fondate nella realtà urbana, è il modello del call center a essere un’alternativa dominante al problema dell’occupazione giovanile. L’aumento dei lavoratori dei «centri di contatto» – così come sono tecnicamente definiti ‒ ha visto nel 2019 la fondazione del sindacato Solidariteti, il primo nel settore del lavoro dei servizi che tutela i diritti di questi lavoratori contro lo sfruttamento e le condizioni precarie dei contratti2. Come sottolineato dall’attivista Arlind Qori in un suo articolo sul Manifesto, seppur spesso iperqualificati, sono maggiormente gli studenti o i neo-laureati a scegliere di lavorare in questi call centers, così come non mancano coloro che hanno perso il lavoro e non trovano impiego altrove3.
Ciò ha iniziato a diffondersi dai primi anni Duemila quando diverse piccole imprese, sfruttando le capacità diffuse di molti albanesi di parlare in lingua italiana iniziavano a fornire occupazioni per conto di multinazionali della telefonia che delocalizzavano i servizi ai clienti4. Da allora, sono diverse le piccole società di call center che affittano stanze negli edifici residenziali della capitale trasformandoli in uffici occupati da loculi di computer dove i lavoratori ricevono chiamate e ordinazioni da sconosciuti all’estero5. Va sottolineato che questo modo di lavoro astratto (ricevere comandi per e-mail e telefono), tipico dei centri di contatto, e della Gig Economy, lo si può trovare oggi anche in altri settori della produzione, come, ad esempio, nei grandi uffici di architettura, università o negli uffici statali: a Tirana un architetto stagista guadagna quanto un operatore di call center, tra i 200-300 Euro al mese e gran parte di loro sono stagisti di uffici internazionali di architettura con sede parallela a Tirana6. Negli ultimi anni, nella capitale una delle contraddizioni principali riguarda la realizzazione di grandi progetti (come le torri che dominano lo skyline)7 da parte, appunto, di grandi uffici come Archea Associati, 51N4E o MRDV, per centri commerciali e appartamenti di lusso, mentre è nelle aree meno visibili del centro di Tirana, nelle palazzine scatolari di minore qualità e basso costo d’affitto, dove si stabiliscono i call centers, generando così quasi una città che nella sua interezza può essere intesa come una grande fabbrica di call centers e dove la logistica ha un ruolo dominante, basti pensare alla diffusione di drivers e riders.
Prima di guardare meglio a questa contraddizione, va osservato che già negli anni Ottanta e Novanta le contraddizioni storiche come il rapporto tra la città e la campagna, e tra Tirana, la capitale, e il resto delle aree urbane, dopo la morte del dittatore Enver Hoxha nel 1985 e il collasso del socialismo, erano rese più marcate e visibilmente tangibili. Ad un livello meno astratto, la fase di transizione nel concreto è coincisa con uno scenario di grande povertà, con le fabbriche, i terreni agricoli e le città in una fase di lenta decomposizione materiale a causa della crisi di produzione, dell’incremento dell’inflazione, e dei salari troppo bassi. Attorno alla definizione di «periodo della transizione» è stata costruita una narrativa mediatica, una sorta di giustificazione al fallimento di diverse decisioni politiche, anche per addomesticare meglio gli animi scontenti della classe operaia e dei contadini. A questa condizione l’architettura fa, come spesso accade, da scenario. Il pittore Edi Hila, nel tentativo di darne una lettura storico-materiale, fa una restituzione critica di quel paesaggio e dell’ideologia della transizione, indagandone con precisione gli episodi, le rovine, e i frammenti che dagli anni Novanta agli anni Duemila erano assai ricorrenti lungo il paesaggio albanese. Nel suo ciclo di «paesaggi della transizione» Hila dipinge le scene più surreali tratte dalla realtà: edifici costruiti sui bunker del socialismo, costruzioni informali mai terminate in mezzo al nulla, bagnanti vicino ad una nave in abbandono, eccetera. Il pittore albanese, nella sua retrospettiva storica, tenta, attraverso i giochi di esaltazione o manipolazione delle architetture, di marcare il potenziale politico del territorio: si serve di edifici fatti di ossature e scatole.
È grazie all’immigrazione, che ha visto diversi contadini diventare lavoratori edili all’estero (e che dunque al ritorno hanno costruito le proprie case), attraverso le politiche di ridistribuzione delle proprietà terriere negli anni Novanta dalle cooperative socialiste ai contadini privati, che si può intendere il fenomeno delle Dom-Ino e degli «insediamenti informali» sparsi sul territorio della griglia agricola. Immagini come quelle del quadro di Hila di una piattaforma bianca sorretta da pilastri e alberi, quasi identica alla scultura Ohne Titel realizzata da Karsten Födinger in Francia, della piastra in cemento armato traforata da colonne di alberi, era possibile trovarle un po’ ovunque, quando l’uso del beton era un modo per costruire quasi in modo primordiale per creare piccole economie domestiche abusive in forma di case, piccoli hotel, bar di campagna o aggiunte commerciali ad edifici esistenti8. Qui, mentre da una parte, per Hila l’ossatura Dom-Ino si rivela nella sua astrazione archetipica di una condizione in-potenza, di ciò che potrebbe essere, dall’altra parte, ciò che sembra ossessionarlo è il progetto della scatola. Quando nei suoi quadri fa le operazioni di estrusione di volumi, di ville o monumenti, Hila ha probabilmente in mente la forma urbana e le figure delle case collettive dei dipinti del realismo socialista, oppure i pallat (le numerose palazzine costruite a Tirana negli anni Duemila dalla speculazione edilizia), oppure, forse, le Dom-Ino che attendono di essere chiuse e decorate, per essere abitate9. Guardando alle immagini delle città socialiste dell’Est, la loro forma urbana non può dunque non essere letta come risultato di una precisa operazione: una composizione di scatole10.
2.
Oggi che il tema della scatola è strettamente legato a quello della logistica, non è un caso che il progetto di MVRD per la trasformazione della Piramide (l’ex-mausoleo di Enver Hoxha) in un Centro di Educazione Tecnologica e il masterplan di housing Mangalem 21 di OMA a Tirana, risultino come operazioni di distribuzione di scatole su un piano. Per capire meglio tale principio e le relazioni estese alla forma urbana, può essere utile guardare allo sviluppo di New York nella prima metà del XIX secolo. A Manhattan, dopo la celebre griglia pianificata dalla Commissione del 1811, edifici commerciali come i grandi stores e gli hotels iniziano ad emergere come grandi scatole, risultato dell’«estrusione» di più lotti urbani acquisiti da uno o da un insieme di proprietari. All’epoca, diverse riviste e giornali pubblicizzavano le incisioni delle prospettive esterne soprattutto degli alberghi enfatizzando maggiormente questa fase embrionale (di transizione) di stretto rapporto tra la griglia orizzontale e la scatola, prima di giungere «alla singola libertà concessa al singolo frammento architettonico», o all’interpretazione di The City of the Captive Globe11. Fino alla metà del XIX secolo, New York appare quasi come una grande piastra di edifici con altezze uniformi tra i cinque e i sei piani. Mentre la maggior parte degli isolati erano formati da aggregazioni di case a schiera, è attraverso il grande sviluppo e l’espansione degli stores e principalmente degli hotels che la scatola appare più evidente, occupando spesso l’intero isolato della griglia.
Inoltre, come sottolineato da Stuart M. Blumin in The emergence of the middle class, l’intensificarsi della costruzione di questi edifici a partire dal 1840, in una certa misura, corrisponde alla formazione della classe media e dei primi lavoratori intellettuali white-collar in USA. Secondo Blumin, questo avviene in una fase di separazione tra il lavoro manuale e il lavoro non manuale, come risultato dello sviluppo dell’industria manifatturiera che lascia alla metropoli il ruolo di spazio di organizzazione della logistica (circolazione, esposizione e vendita delle merci)12. Di conseguenza aumentavano a New York i lavoratori non più impegnati nel lavoro manuale, così come gli imprenditori solitari legati principalmente al commercio dei prodotti della manifattura. Gli hotels commerciali costruiti in quegli anni come il St. Nicholas e il Metropolitan Hotel dell’architetto John Butler Snook (eretti durante i lavori per l’Esposizione Universale a New York del 1853-54), oltre all’offerta di un servizio, quello dell’ospitalità, vanno intesi come dei condensatori dove si sperimentano le prime forme di organizzazione del lavoro riproduttivo e non manuale come quello della cura, la manutenzione e la gestione delle informazioni, dentro la metropoli.
Anticipando le mansioni dei lavoratori dei call centers e dei rider di oggi, gli hotel, con capienze massime che variavano tra i 500 e i 1000 ospiti, erano dotati di uno staff di impiegati composto da centinai di uomini e donne e da un meccanismo di dispositivi tecnologici, quali gli annunciatori o i tubi pneumatici per le consegne, per garantire un servizio efficiente ai loro ospiti permanenti o temporanei13. Grazie a un pulsante, questi dispositivi mettevano in moto del lavoro vivo di camerieri, donne delle pulizie e fattorini, pronti a ricevere e portare a termine le ordinazioni dei clienti o dei loro superiori che vigilavano sulla qualità e la rapidità della loro prestazione. L’apparecchio dell’annunciatore (una grande scatola con i numeri delle camere affissi nella hall principale), funzionava facendo suonare una campanella in corrispondenza del numero della specifica stanza avvisando i camerieri presenti nella hall che dovevano correre come dei rider per ricevere le richieste ‒ pasti in camera, pulizie o altro ‒ senza ritardi, mentre i tubi pneumatici, ben nascosti e distribuiti nelle viscere della struttura e degli impianti dell’edificio, necessitavano di un certo numero di operatori e uomini per ogni piano che ricevevano per poi distribuire nelle varie stanze lettere, giornali o i telegrammi trasportati da questi tubi.
Attraverso l’architettura di questi edifici e mediante l’utilizzo di linguaggi o stili classicheggianti, quali l’Italianité Revival, diffusosi nelle metropoli americane prevalentemente negli anni 1850, si cercava anche di formalizzare e di istituzionalizzare un nuovo modello dell’abitare borghese esteso alla scala metropolitana, dove è possibile affermare che il servo (cameriere/a, domestica/o) stava all’ospite come l’operaio stava davanti al suo padrone. Da un lato, l’uso comune che assume il façadisme in stile rinascimentale di questo periodo, da parte degli architetti americani per stores e hotels, genera una città fatta di scatole «come palazzi rinascimentali», edifici identici con stesse forme e stessi ritmi di bucature regolari (architetture non tanto distanti dalle fabbriche schizzate da Schinkel nei suoi viaggi in Inghilterra e Scozia negli anni Venti)14, dall’altro lato, c’è il primo tentativo da parte dei capitalisti di trasformare l’intera metropoli in una fabbrica dove il lavoro assume mansioni sempre più generiche, anche se impostato sulla flessibilità e la mobilità della conoscenza e delle informazioni15.
3.
La griglia di New York composta da scatole ora la ritroviamo riproposta da OMA nel progetto Mangalem 21, commissionato dall’impresa edile e di real estate Kontakt, e costruito su un area collinare ai limiti urbani di Tirana, dove passerà il Metrobosco del piano urbanistico di Stefano Boeri. Reinterpretando le scatole socialiste di pannelli prefabbricati degli anni Settanta, la morfologia irregolare degli «insediamenti informali» attorno al sito e il celebre façadisme di colori di Edi Rama16, le scatole di OMA rimandano alle scatole ammassate di Magritte ne La potrine, ma vanno anche inquadrate come parte di un interesse più generale che negli ultimi anni OMA ha rivolto ossessivamente verso le generiche scatole di Amazon, Walmart e Tesla17.
Inoltre, le strategie politiche dell’Ue degli ultimi anni rivolte al digital turn, ossia alla raccolta di dati, la digitalizzazione, la logistica in città e campagna, l’educazione tecnologica, di cui OMA e MVRDV, sono al momento i principali osservatori teorici, non riguarda infatti il singolo oggetto architettonico, ma l’intera questione urbana18. L’intervento di MVRDV per il restyling della Piramide di Tirana, in un’area investita da operazioni di gentrificazione, prevede l’inserimento all’interno della Piramide e attorno al suo spazio pubblico di una serie di boxes (o «incubatori»). La Piramide, e i suoi boxes, saranno gestiti da TUMO, una organizzazione no-profit che promuove l’educazione tecnologica per i bambini dai 12 ai 18 anni come attività formativa dopo la scuola. TUMO ha già una rete estesa in Europa fatta di Hubs e Boxes all’interno dei quali i bambini sono chiamati a imparare da soli (mediante self-learning activities) dentro delle stanze, simili a quelle dei call centers, dove ognuno ha la sua postazione e dove, sostanzialmente, si viene educati ad essere creativi e produttivi19.
Dal punto di vista del programma e della strategia formale, i due progetti di MVRDV e OMA, possono essere letti strettamente in correlazione tra loro. Se, come teorizzano Rem Koolhaas e Reinier de Graaf, la città deve essere un insieme di scatole ‒ per cui la scatola pianifica le città ‒, allora il progetto Mangalem 21 con la strategia di volumi rossiani posizionati nella chessboard va intesa come un principio che può essere potenzialmente esteso all’infinito20. Mentre MVRDV si limita a dare una risposta formale al programma e alle visioni neoliberiste dei riformatori albanesi ‒nella stessa area MVRV è stato chiamato a progettare un centro commerciale e una torre residenziale di 30 piani ‒, quella di OMA è contemporaneamente una critica e un’operazione di istituzionalizzare la speculazione edilizia di Tirana. Da un lato, una critica nella misura in cui porta all’eccesso (operazione questa molto vicina ai gesti di Edi Hila), con una grossform urbana, mostrando come sarebbe potuto essere l’informale se, a partire dagli anni Novanta, si fosse adottata una politica di urbanizzazione pianificata. Dall’altro lato, il progetto è un tentativo di istituzionalizzare, proprio grazie all’uso del linguaggio di elementi noti dell’architettura di Tirana, quali i ritmi regolari di finestre quadrate, le logge e i colonnati, che il fatto programmatico e sociale soggiacente al progetto è quello del neoliberismo. Mentre nelle corti e tra le scatole, l’uso di colori e il gioco arbitrario delle finestre rimanda ossessivamente a Magritte, al suo surrealismo belga portato a Tirana in termini estetici, l’impianto morfologico è una strategia di composizione di oggetti generici, grazie alla griglia e alla densità che sono facilmente governabili. Ciò può spiegare il ritorno ossessivo della scatola razionale in giro per l’Europa, lungo le ferrovie e le autostrade, nelle aree produttive o urbane, in esempi anche noti, come il quartiere Europaallee di Zurigo o il quartiere Flon a Losanna, fissando così l’indice di una architettura della città come immenso call center.
La Boîte à miracles come modello per generare «tutte le cose necessarie per la fabbricazione di miracoli, levitazioni, manipolazioni e distrazioni»21, dunque per fabbricare le città, in mano ai capitalisti è una metafora dello sfruttamento: chi progetta e chi prende le decisioni politiche (l’architetto capo, o l’investitore) dall’alto sposta le maquette delle scatole in base a come la circolazione e la logistica sono più efficienti; poi sono stagisti e interns a dover «sistemare» il resto, disegni e render. Oggi che gli stessi uffici di architettura sono organizzati come i call centers, oggi che il lavoro astratto degli architetti proletari è fortemente legato al processo di produzione architettonica, una presa di posizione è necessaria, anche per influenzare il corso dell’architettura delle città. Cosa accadrebbe se tutti ci alzassimo dalle scrivanie e ci rifiutassimo di lavorare? Cosa ne sarebbe poi di queste scatole senza il lavoro comandato? Forse potrebbero diventare degli spazi dove la logistica e la comunicazione non generano più valore di scambio, ma azioni di solidarietà, responsabilità politica e affetto tra compagni e compagne.
Note
↩1 | Renzi sponsordell’Albania: Allargare l’Ue o si perde una grande occasione, in La Repubblica, 2014 [Consultato il 09/08/2021] |
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↩2 | Si veda la pagina Facebook https://www.facebook.com/sindikatasolidariteti |
↩3 | Arlind Qori, Dai call center alle miniere, prove di autonomia sindacale, in Il Manifesto, 2020, [Consultato il 08/08/2021]. |
↩4 | Si veda Giuseppe, Pipitione Call center delocalizzati in Albania? Ma il governo si preoccupa della privacy, maggio 2015, [Consultato il 11/08/2021] |
↩5 | Per una interessante lettura dei modi di lavorare all’interno di questi spazi si veda I call center italiani? Ormai sono in Albania, in Panorama, Maggio 2013, [Consultato il 11/08/2021] |
↩6 | Mentre all’estero percepiscono un salario medio rispetto ai canoni del paese in cui vivono, a Tirana i colleghi dello stesso ufficio guadagnano meno. |
↩7 | Si veda Simon Battisti, Kulla E Pambaruar in Log, n. 35 (2015): 97-101. |
↩8 | Sull’opera di Karsten Födinger si veda Anna Rosellini, and Roberto Gargiani, Karsten Födinger – Toward a Radical Sculpture (Esslingen: DCV, 2020), 181-85. |
↩9 | Sull’opera di Hila e sulla sua posizione rispetto al tema si veda Adam Przywara, Psychology of the Balkans. Edi Hila in Conversation, [Consultato il 11/08/2021]. |
↩10 | Ad esempio, in Romania i blocchi residenziali si potevano addirittura spostare per far spazio a un boulevard: Andrei Tapalaga, How a Small Country Had the Power to Move a Whole Apartment Block in History of Yesterday, 2020, [Consultato il 11/08/2021] |
↩11 | Quasi alla pari di Koolhaas nel progetto The City of the Captive Globe Project del 1972 è anche Tafuri a sottolineare la dialettica tra la rigidità della griglia necessaria a governare lo sviluppo urbano delle metropoli limitando la libertà creativa e speculativa al singolo isolato o «frammento». Si veda Manfredo Tafuri, Progetto e utopia: architettura e sviluppo capitalistico, Laterza, 1973, pp. 37-40. |
↩12 | Stuart M. Blumin, The Emergence of the Middle Class: Social Experience in the American City, 1760-1900, Cambridge University Press, 1989, pp. 69-86. |
↩13 | Sugli hotel di questa epoca si veda Molly W. Berger, Hotel Dreams: Luxury, Technology, and Urban Ambition in America, 1829–1929, The Johns Hopkins University Press, 2011 |
↩14 | Si veda Marriott Field, City, Architecture: or, Design for Dwelling Houses, Stores, Hotels, Etc., G. P.Putnam, 1853, pp. 17-18. |
↩15 | Sul concetto della metropoli come fabbrica si veda Antonio Negri, Dalla fabbrica alla metropoli: saggi politici, Datanews, 2008, e Pier Vittorio Aureli, Il ritorno della fabbrica. Appunti su territorio, architettura, operai e capitale, in OperaViva Magazine, 31 dicembre 2016 [Consultato il 12/08/2021]. |
↩16 | Sul progetto di OMA si veda https://www.oma.com/projects/mangalem-21. Con i colori di Edi Rama si fa riferimento ad una delle sue più celebri operazioni quando erano sindaco di Tirana nei primi anni Duemila, cioè quella di pittare le facciate di tutti gli edifici di Tirana di colori accesi e motivi astratti, generando davvero una città fatta di scatole colorate e a cui OMA fa riferimento per la scelta dei diversi colori per ogni facciata nel progetto Mangalem 21. |
↩17 | Si veda Rem Koolhaas, TRIC; Post-human Architecture, in Countryside: A Report, Taschen 2020, pp. 272-73. |
↩18 | Si veda Digital Europe Programme gets green light from Council, [Consultato il 23/05/2021] |
↩19 | Sul progetto di MVRDV si veda https://www.mvrdv.nl/projects/312/the-pyramid-of-tirana; su TUO https://tumo.org/whatistumo/. A TUMO è stato anche dedicato un allestimento alla Biennale di Architettura di Venezia dal titolo Learning (to Live) Together: The future of Schools and the Architecture of Walk-Away Pedagogy. |
↩20 | Si veda Reinier de Graaf, The Inevitable Box, in Four Walls and a Roof, Harvard University Press, 2018, pp. 71–90. |
↩21 | Le Corbusier, Oeuvre complète Vol. 7 1957-65, a cura di Willy Boesiger, Editions d’architecture, 1967, p. 170. |
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