Wonderland
Una mostra di Giuseppe Ansovino Cappelli
Dei posti sono delle soglie, oltre le quali si abitano nuove proporzioni, una diversa armonia, una certa profondità. Sono i wonderland in cui inciampiamo per fare della caduta la sovversione di un pensiero addormentato. A volte questi mondi sono spazi, altre sono opere, film, la traccia di una canzone, il bacio di un amante. Di sicuro lo studio di architettura a via latina 286, dove Giuseppe Ansovino Cappelli espone le sue opere, è una bisca del possibile, dove si gioca la spericolata scommessa di togliere l’arte dall’esposizione mortifera delle gallerie per coinvolgerla, invece, nell’operoso svolgersi dell’esistente.
Lo studio, con la sua natura di progettante continua, si ferma da domani sabato e fino a domenica dalle 12 alle 21, per fare festa a questi quadri che la abitano. Per il resto del mese tra i lavori si potrà comunque girare, ma senza che l’esporre interrompa l’operosità del disegno architetturale, esercizio costante di trasformazione dell’immaginario in reale (mica male la marzialità del metodo se lo pensiamo da applicare ai nostri desideri politici).
Cappelli stesso ha insegnato progettazione a Valle Giulia, è passato di lì negli anni in cui quel posto si era fatto soglia del sogno del Sessantotto. L’immaginazione al potere deve averla presa sul serio, ma a modo suo, facendola diventare autorità nell’uso del suo sguardo appassionato. Sono quadri dove rigore e infanzia procedono senza contraddirsi, dove la memoria assomiglia a un sogno reinterpretato e quello che accade, prima di essere capito, viene sentito. Si imprimono sulla tela gli alberi visti bruciare a ridosso di una strada, disegnati come voti totemici da chi sa che non c’è divinità, se non nell’immanenza. Resta la loro bellezza irriducibile e scarna, tema della sua prima personale nella mitica galleria di via del Vantaggio, la A.A.M (Arte e Architettura Moderna), presentata da Francesco Moschini, lo storico dell’architettura, che guida l’Accademia di San Luca, l’istituzione che si appassiona del bello dal 1500.
Procede con questo stesso metodo tutta l’attività di Cappelli. Sembra che la pittura gli serva per orientarsi nel reale, per provare a spiegarlo prima di tutto a sé stesso, interrogandolo sulle contraddizioni e sulle miserie come sulle fughe e le sovversioni. La materia crespa del legno si apre ai collages, che devono aver popolato le visioni di tanti, se dai retro d’affiches Mimmo Rotella alle poesie visive di Lamberto Pignotti, tornano come innesto caotico di un tempo tumultuoso che non sembrava più in grado di governare le proprie visioni.
Sono stati bravi questi artisti a usare le loro opere per invertire la direzione instupidente della ricorsività pubblicitaria delle riviste patinate, della televisione. Anche qui, c’è qualche traccia politica che potremmo apprendere, girando tra le stanze di questa mostra: agire la leva dell’immaginario per ribaltare la passività cui siamo relegati dalla miseria del tempo che ci assedia. Qui ci provano con un appuntamento per una festa clandestina. La mostra di questo spericolato studio ha preso alla lettera il monito di Deleuze: essere uomini liberi, moltiplicare gli incontri.
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