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Ariaferma: tra potere e utopia abolizionista

Ariaferma

Là dove c’è potere c’è resistenza. In Ariaferma di Leonardo Di Costanzo questa frase di Foucault può risuonare più volte. Ingannati dallo Stato, in un carcere in dismissione, carcerieri e carcerati decidono di sospendere la relazione di potere che li lega. La sospensione non è totale perché è temporanea e relativa. E perché forse non c’è un altrove alle relazioni di potere, che si possano al massimo rendere trasparenti. La differenza di ruoli non viene mai superata. E lo scambio dei ruoli non è mai totale. Eppure, il film allude all’utopia di un superamento della dimensione carceraria. Il carcere dove si svolge il film è un panopticon, la distopia di Bentham presto realizzata come tecnologia di governo nelle istituzioni totali. Ma alla sorveglianza di quel dispositivo, la popolazione del carcere sembra contrapporre un’altra utopia. In fondo anche i carcerieri sono prigionieri di quel luogo e di quella istituzione, come ricorda Silvio Orlando, il detenuto più pericoloso del carcere, a Toni Servillo, il secondino più alto in grado, in una battuta che racchiude il senso del film.

Ma in Ariaferma non c’è solo questo. Il film è estremamente rigoroso e antiretorico, bressoniano per il nitore e per la serietà tragica con cui si occupa di un tema come quello del carcere e della colpa. L’ abolizionismo penitenziario – di cui é espressione potente il Black Lives Matter  negli Stati Uniti della detenzione razziale di massa – può trovare un referente nella cinematografia contemporanea non tanto in qualche film o serie di ultraviolenza sul carcere, ma in questa storia che riesce a tenere insieme dimensione politica e individuale in modo serio, morale. Non c’è una sola scena di violenza fisica, eppure la violenza è intollerabile durante tutto il film.

In questa violenza, si svolge la storia di un giovane ragazzo che ha quasi ucciso un vecchio dopo averlo scippato e che, oppresso dal peso della sua azione, desidera uccidere se stesso. Troverà una temporanea ragione di vita nella cura di un altro anziano, un uomo che si intuisce aver abusato di una bambina e che inizia a dare segni di demenza senile. Il tema della pena e della colpa è l’altro asse portante del film. Mentre il giovane ragazzo, per la sua età, viene aiutato e supportato dalla comunità carceraria, l’anziano, per il tipo di reato di cui si è macchiato, è escluso non solo dalla società nel carcere, ma anche dal carcere. Gli altri detenuti non vi condividerebbero nemmeno il pasto, che decidono di condividere con le guardie, né l’ora d’aria. La pena, sembra dire il film, non è quella che la società più o meno legittimamente decide di comminare. La pena esiste a prescindere dalle mura entro le quali ci si trova, al punto da portare al confine tra vita e morte: l’anziano delirando – forse per sfuggire a quel contesto che lo esclude così radicalmente – il giovane desiderando la fine.

Nel Paese di Santa Maria Capua Vetere, dei CPR e dei detenuti in rivolta uccisi durante la pandemia, Di Costanzo, senza avanzare una tesi in modo diretto, ci consegna un film utopistico, come ha scritto Goffredo Fofi, su come si potrebbe superare l’universo carcerario, deponendo la violenza e mettendo al centro ciò che c’è in comune tra carcerieri e carcerati, stretti in una morsa di abiezione dall’abbandono in cui si trovano a convivere.

La cena finale è il luogo dell’utopia, terreno dell’abolizione delle dinamiche di potere che li legano mortalmente. Anche lì, vi è un escluso, l’anziano. Ma il giovane decide di apprestare un tavolo per lui. Al comando dei carcerieri, alle norme delle istituzioni che vorrebbero falsamente includere, un singolo, un giovane detenuto che vorrebbe morire, contrappone la semplicità dell’azione diretta – che potrebbe a sua volta portarlo all’isolamento, alla recisione dell’unico legame che sembra tenerlo in vita, quello con gli altri detenuti. Non c’è nessuna utopia possibile, se non quella della continua ridiscussione dei rapporti di forza, di inclusione ed esclusione.

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