Divenire Jameson?

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Andy Warhol, Red Lenin (1987).

Abbiamo avuto la fortuna di poter dialogare con Fredric Jameson lo scorso 28 maggio. Aveva appena compiuto 90 anni e ci sembrava bello poter festeggiare con lui questo traguardo, anche se a distanza. Molti anni prima, il suo Brecht e il metodo fu il primo saggio tradotto da Giuseppe. E proprio quel saggio fu anche l’oggetto del primo articolo che Daniele scrisse per Il Manifesto. Nessuno allora si conosceva. E il convegno voleva anche essere l’occasione per onorare, a più di vent’anni di distanza, questa coincidenza. Grazie alla mediazione di Pietro Bianchi e di Tania Rispoli, siamo dunque riusciti a coinvolgerlo nella giornata introduttiva ad un convegno di due giorni che abbiamo organizzato insieme a Roma Tre per provare a capire a che punto fosse oggi l’attenzione – quanto meno nella ricerca italiana – per il suo lavoro teorico. (il video della giornata introduttiva si può vedere qui:

Jameson, anche nella produzione più recente, mantiene sempre un punto di vista capace di disorientare il lettore. La sua dote conoscitiva primaria è l’intuito. E degli intuitivi la sua scrittura ha tanto i pregi quanto i difetti. Fra i primi, sicuramente il fiuto per ciò che poi s’imporrà come tendenza generale, lo sguardo dall’alto e la capacità di disegnare mappe ambiziose con cui orientare la riflessione comune. Fra i secondi, invece, non si può non accorgersi che l’urgenza precipitosa del conoscere agisca su di lui con un’argomentazione spesso convulsa, faticosa, che per altro ostenta una sovrana noncuranza per l’analisi micrologico del dettaglio. In un teorico centrifugo come Jameson, l’assenza di un minimo di cultura filologica si sente. Avrebbe dato un po’ di grazia ad un così, per altro, scintillante dilettantismo goethiano.

Antropologia comparata, psicanalisi, marxismo de-coloniale e studi di genere, interdicono, oggi, la sua pretesa, tutta maschile, bianca e, soprattutto, yankee, di poter cartografare da solo una totalità che non può e non deve appartenere a nessuno. Gli Stati Uniti non sono il mondo. Sono il centro criminale di comando sul mondo; università comprese. E questo lui lo sapeva bene. Così come benissimo conosceva le precondizioni sistemiche che garantivano forza e irrilevanza alla sua voce pubblica. Eppure, non paradossalmente, la sua postura intempestiva ci è molto più utile oggi di quanto non lo fosse trenta o quarant’anni fa. Di fronte al nuovo umanesimo da campus che negozia un malposto senso di inferiorità per le scienze pure con un’iper-specializzazione grottesca, molto meglio l’enciclopedismo sulfureo di Jameson. Almeno serve ad addestrare ancora la meraviglia come forma primaria di conoscenza.

Chi si è formato, come noi, negli anni Novanta, in Italia, ha sempre guardato con curiosità alla politicizzazione da campus nordamericana. Educati in un sistema di istruzione pubblico, gratuito e di massa, il radicalismo da Ivy League ci appariva come un fenomeno esotico e tutto sommato innocuo. Nessuno di noi sospettava, allora, di essere condannati rapidamente alla medesima irrealtà politica. E sta qui la seconda ragione per cui il lavoro di Jameson ci serve molto più oggi di trenta o quaranta anni fa: perché ci permette di continuare a fare ricerca sabotando dall’interno la violenta normazione che stiamo tutti subendo; e che non è altro se non quell’implacabile rimozione dei canini contro cui già ci metteva in guardia, ancora ad inizio anni Novanta, Franco Fortini. E allora ritorniamo a leggere i suoi grandi testi, Marxismo e Forma, L’inconscio politico, Postmodernismo e Valences of Dialectis esattamente come si ritorna ad ascoltare i vinili di un grande musicista degli anni Settanta e Ottanta; di un musicista un po’ mitomane, ma geniale, che continua ad accordare strumenti musicali raw, non più campionabili. Da queste opere mondo, non facili, ma a tratti lisergiche, si può imparare ancora molto; soprattutto cosa può fare una Bildung portata all’altezza delle contraddizioni catastrofiche di una società che muore.

Pietro Bianchi, che è stato per oltre un decennio suo allievo e amico, ci ha girato l’altro giorno un passaggio da Valences of Dialectis che ama molto. È sull’utopia, una delle passioni teoriche di Jameson. Anche per fare un omaggio alla nostra amicizia con Pietro, e per ringraziarlo di cuore, ci permettiamo di citare il passaggio che ci ha indicato: è sulla presenza ubiquitaria del possibile.

Sarebbe meglio, forse, pensare a un mondo alternativo — meglio dire il mondo alternativo, il nostro mondo alternativo — come a uno contiguo al nostro, ma senza alcun legame o accesso a esso. Poi, di tanto in tanto, come un occhio malato in cui si percepiscono inquietanti lampi di luce o come quelle esplosioni barocche di luce solare in cui i raggi di un altro mondo irrompono improvvisamente in questo, ci viene ricordato che l’Utopia esiste e che altri sistemi, altri spazi, sono ancora possibili.

Se seguiamo questa pista jamesoniana, l’idea stessa di cartografia può essere riletta a ritroso non già come lo squadernamento di una mappa, ma come la ricerca di un filo nascosto che riconduca al percorso utopico. Le immagini che istoriano le mura della Città del Sole di Campanella rappresentano le invenzioni, le meraviglie e i segreti del mondo. Jameson, invece, usa la mappa per cercare i punti di resistenza del moderno e quelli di rottura della realtà contemporanea: attraverso queste frizioni un nuovo spazio di possibilità, un altrove, si rende accessibile.

Si tratta di soglie che Jameson ha mostrato nei luoghi meno esposti e nelle posizioni meno certe del suo lavoro ermeneutico. Ad esempio, nello spazio precluso al detective Marlowe: quello a cui non ha accesso, oltre la staccionata bianca di Purissima Canyon in Addio mia amata. Oppure nell’a-sistematicità del Me-ti. Libro delle svolte, il più criptico degli scritti brechtiani, che presenta un’articolazione della dialettica in termini di «flusso», di «corso», di «scorrimento», di «trasformazione» e di «cambiamento». Qui, Brecht inglobando in un’unica entità due dottrine contrarie (Me-ti allude a Mozi, figura «protosocialista» e fondatore della dottrina anti-confuciana; il Libro delle svolte invece evoca l’I-Ching, uno dei testi classici del confucianesimo) mette non solo in atto la contraddizione, ma la pone in primo piano, impostando su di essa il suo metodo di ricerca.

Forse, nel cuore antico del marxismo, perso indietro, c’è un intimo desiderio nascosto: è l’utopismo materialista. Che Jameson ha continuato ad esplorare fino alla fine.

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