Il corpo e la voce
Su Patrizia Vicinelli
Ne Le strutture antropologiche dell’immaginario (1960) Gilbert Durand (che in diversi passaggi riprende Bachelard ma soprattutto Lévi-Strauss) ci dona una definizione della poesia: «la poesia è integrazione linguistica e disintegrazione semantica». E in un altro passaggio ci dice che la poesia va letta attraverso una sorta di «yoga della lingua». Ho sempre pensato a questa dimensione come il tema portante della poesia di Patrizia Vicinelli. Infatti tutto il suo lavoro di scrittura sembra essere un costante processo di «integrazione linguistica», «disintegrazione semantica» e in particolare «yoga della lingua» da leggere come «contorsione», «emancipazione», «ricerca spirituale», «respiro rinnovato». Da qui una dimensione assiologica della poesia che – nella sua ossessione d’irriverenza stilistica – tutta la «sperimentazione» ha sempre cercato di portare avanti (due nomi, due magister della «poesia totale» s’avanzano immediatamente necessari lungo questa lineare: Emilio Villa e Adriano Spatola ben cari alla nostra poeta bolognese).
Una poesia come vertigine. Una poesia come corpo estremo. Esser totalmente dentro la tensione poetica e al contempo impetuosamente ripensarla. La poesia come furia estetica. La poesia come sentire tutto (al di là del bene e del male) «sulla pelle, nei nervi, nelle vene». La poesia come costruzione «chirurgica». La poesia e il suo oltrepassamento. Questo (e tanto altro ancora) ritroviamo nella preziosissima ed analitica antologia di Patrizia Vicinelli (1943-1991) La nott’e’l giorno. L’opera poetica, a cura di Roberta Bisogno e Fabio Orecchini per le Edizioni Argolibri di Bologna. Un lavoro importante e completo che ci dona la magnifica «kamikaze dell’esperienza» (nella bella nominazione di Andrea Cortellessa) nella sua totalità espressiva. Una poesia che è un continuo sguardo sghimbescio verso la tensione della scrittura e le sue fuoriuscite: la fotografia, il collage, il performante, il teatro, il libro-oggetto, la dimensione collettiva, i dazebao, i ready-made, la sonorità e il filmico (un discorso a parte meriterebbe il suo rapporto con Tonino de Bernardi, Mario Gianni, Claudio Caligari, Gianni Castagnoli, soprattutto Alberto Grifi e con il fare cinema tutto)…
Insomma, l’iconografia e la totalità del segno visivo si muovono in parallelo nella struttura poetica della Vicinelli (come anche la dimensione acustica è presenza «immateriale» costante). Scrive infatti Roberta Bisogno «Tutta la scrittura vicinelliana scorre lungo il solco della parola salvata su pagina, ma sempre pronta ad agganciarsi alla vita anche per mezzo di drammatizzazione (leggi: teatro) e parola-immagine (leggi: anche cinema)». Per lei la poesia visuale è quella atta a creare cortocircuito continuo in un processo di simultaneità e dialettica relazionale tra «parti» differenti. E come vari altri poeti (penso ai già indicati Villa&Spatola e poi Giulia Niccolai, Ciro Vitiello, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti per citarne qualcuno) la Vicinelli con rigore tellurico costantemente trasla in segni ulteriori la propria tensione al poiein. E inoltre, come i padri visionari delle grandi Avanguardie (quelle tra gli anni Dieci e gli anni Trenta del novecentesco «breve secolo»), la poesia della Vicinelli è costanza «militante» e ripensamento creativo-ideologico di una scrittura come punto di unione e di amalgama tra diversi piani espressivi e compositivi. Infatti nella sua poesia i corpi, le immagini, gli ambienti sembrano vivere sempre all’interno di una sorta di antidiario a vocazione collettiva, di cui l’autrice tiene ben fermi i fili raccontandoci di giorni minuscoli, febbrili, tante volte tossici e carcerari e alle volte quasi silenziosi ma sempre con un senso epico, mitico, molto oltre il dato del reale eppure atrocemente reale. La forza della sua poesia è sempre un vivere e agire, concentrandosi, in diversi momenti e stilemi, nel voler registrare quanto più fedelmente (e minuziosamente) le è dato: lo scorrere dell’esistenza.
Un esistere che ritroviamo nel lavoro antologico de La nott’e’l giorno. L’opera poetica: dall’iniziale à.a,A: (1967) opera-montaggio come rivelazione, passar del tempo, e forse, anche come esorcisma alla catastrofe. La scrittura-grafica della Vicinelli diventa, nel suo farsi e disfarsi, una magistrale dinamica espressiva che assorbe dentro di sé (come non pensare alla «spugna» rimboldiana) il consumarsi delle cose materiali, dell’intero vissuto, degli ideali (logicamente anche delle utopie), delle visioni, dei silenzi e ineluttabilmente di tutto l’io poetante. Per continuare con Apotheosys of schizoid woman (1979) dove abbiamo l’opera-visiva che trasgredisce la scansione in generi, e predilige, nell’impianto e nel contenuto, il biografismo, la politica, il sociale e procede per frammenti e flash visivi. E per continuare con Non sempre ricordano (1977-1985) nel cortocircuito tra l’epico, l’eroico, l’assoluto che «non cessa di delineare la leggenda dell’autore che, scrivendo, non attinge alle origini ma intinge la penna nelle sue vene» (come annota Viana Conti in chiusura della nostra antologia). Per poi arrivare a Cenerentola (1977-1978), Messmer (1980-1988) e Fondamenti dell’essere (1985-1987) tra versi legati o spezzati da punteggiature, accenti circonflessi, segni inutilizzati, ecc. che si alternano da una poesia all’altra (fino a tramutarsi in romanzo): costringendo a una lettura diversa ogni volta, poiché le immagini evocate si uniscono o si distanziano maggiormente rispetto a una loro ipotetica versione «pulita» dei segni aggiunti.
E tutta questa dimensione poetica esplodeva tra fine anni Sessanta e Ottanta mentre lo statuto letterario lentamente (inesorabilmente) si disfaceva in una miriade di rivoli tra loro differenti. E in risposta (potente e necessaria) troviamo la «decostruzione» linguistica della Vicinelli dove la sua scrittura paradossalmente ancor oggi sembra narrarci (in soavità ed irruenza) il compattarsi di un sentire totale, consapevole, libero, essenziale, autorevole. Una scrittura (una sonorità, una visione) per taluni aspetti apparentemente lontana ma che oggi ritroviamo in questo eccellente lavoro antologico curato da Roberta Bisogno e Fabio Orecchini.
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