L’importante è essere rivoluzionarie
Le magnifiche ribelli del Novecento
È forse nella definizione che Emma Goldman da di Mollie Stiemer, «dello stesso stampo dei giovani idealisti russi dei tempi dello zar, pronti a sacrificare la vita quando avevano appena iniziata a viverla», che ci è possibile trovare la spiegazione a quella forza biografica che attraversa la storia di un gruppo di donne, quando al sogno del 1905 seguì effettivamente la rivoluzione del ’17 e poi l’inizio di quel terrore culminato nella pazzia stalinista.
Di queste donne Lorenzo Pezzica per i tipi di Eleuthera ha ritratto la determinazione, il senso di giustizia sociale e la lotta nel libro Le magnifiche ribelli, 1917-1921 (2017), raccolta trasversale di biografie nelle quali solo una tensione mistica per una idea di mondo uguale riesce a spiegare come si sia potuto sopportare tanto senza cedere ma, anzi, rilanciando la propria posizione in quell’emiciclo romantico e struggente che si è sempre chiamato «la parte del torto». Sono donne che hanno creduto alla presa del palazzo d’inverno abitandone l’evento con slancio totale, avendo avuto la pazienza di tesserlo a partire proprio dalla manifestazione di marzo, otto mesi prima. Operaie e contadine contro le quali la polizia decise di non caricare, costruendo cosi il gesto simbolo di quel miracolo che ridisegna una nuova geometria: non più il potere costituito che reprime il malcontento, ma il malcontento che fa saltare il potere costituito.
Fu l’anno decisivo per portare il treno piombato dritto nei cuori di chi costruiva, da esuli o per le strade di Pietrogrado, l’ipotesi di una vita più degna. La partecipazione a questo processo viene offerto da Pizzica nella forma di una conricerca, in cui le donne raccontano la storia di altre donne, ognuna compenetrata e attratta da quel mettere a soqquadro la propria esistenza di affetti e certezze pur di mantenere seria la postura nei confronti degli ideali che ne hanno ispirato la militanza, incarnando così, prima, la trama emozionale degli eventi del 1917 e diventando, poi, tra le più irremovibili voci contro la deriva autoritaria. Oltre alla Godmann incontriamo Ida Mett, Moliie Steimer, Marrjia Spiridonova, la Bockareva (combattente a capo del battaglione che mise concretamente in fuga il governo provvisorio Karenskij). Donne che viaggiano negli inverni e nei continenti (alcune dall’America alla Russia passando per Finlandia e persino per il Giappone), che imparano la durezza delle carceri, gli scioperi della fame, che gridano la loro autonomia fino a quando nel 1921 la rivolta di Kronstdat ne travolge le esistenze che si perdono, dolorosamente, nella risacca con la quale si ritira dalla storia la «rivoluzione del popolo».
Guardare dall’alto di un centenario l’architettura di queste vite si ha la sensazione di una sorta di martirio. Si impongono domande che fanno paura: esistono delle vite che servono come monito? Ci sono delle esistenze personale che hanno il compito di raccontare cosa significa irriducibilità di un ideale? Perché il partito, persino se ha conosciuto la travagliata storia dei confini, il faticoso dispiegarsi di una fratellanza che solo insieme riesce a rovesciare il tavolo degli eventi per sconfessare persino il nazionalismo celebrato con una guerra mondiale, trovando il coraggio di dire che i soldati russi al fronte erano sfruttati proprio come i loro simili sul fronte opposto, ebbene perché questo partito diventa repressione autoritaria del dissenso? Perché sono sempre feroci i dispositivi di neutralizzazione delle voci meno addomesticabili e perché queste voci sono spesso quelle di donne che alla fine sono sempre bollate come isteriche o non stabili o non in grado di comprendere le ragioni alte e razionali che legittimano la prepotenza del potere? E infine perché la storia non insegna ma ci ripropone sempre gli stessi sbagli?
Queste donne hanno viaggiato, hanno conosciuto la poesia di Victor Serge, sono state bolsceviche e poi anarchiche, hanno fondato circoli e giornali, si sono ammalate e si sono aiutate, hanno subito processi in America (il caso Abrams) perché facevano campagne antimilitariste e in Russia perché facevano campagne sindacali, ci lasciano senza fiato e ci ricordano che «non importa come una rivoluzione vada a finire, l’importante è essere rivoluzionari». Nel passaggio che si fa tra gli eventi, in quell’operazione nella quale la mente è libera dall’ordine cronologico dai lacci della successione dei secondi, dei minuti, delle ore e degli anni, la vicenda di queste donne parla anche delle cose di oggi, dei problemi connessi a una crisi del sogno rivoluzionario, dell’impegno insorgente. Se la deriva scelleratamente autoritaria della rivoluzione del ’17 fu intuita, abitata e agita innanzitutto dalle donne, le stesse che gli eventi del ’17 li avevano sollevati con la già citata manifestazione dell’otto marzo, ora la necrosi di quello che chiamavamo il movimento è denunciata e sgretolata solo dalle poderose azioni di non una di meno (al netto delle campagne ultragiustizialiste, colpevoli di accomunare il gravissimo problema delle violenze sulle donne a condotte irrilevanti in una spirale da senso della gogna che niente ha a che fare con la centralità di temi come il monopolio della cura o i tagli al welfare che finisce per penalizzare madri figlie e lavoratrici).
Nel tentativo di reagire alla ferocia repressiva che Lenin e Trozkij inscenarono a Kronstdat, furono le donne a reagire con fermezza, non solo resistendo alle carcerazioni durissime, alle persecuzioni, ma denunciando con forza dall’interno del partito bolscevico come fece Alexandra Kollontaj o dal di fuori come fece Emma Goldmann animando una risoluzioni in 15 punti. Il documento programmatico chiedeva nuove elezioni dei soviet che non rispecchiavano più le volontà degli operai e dei contadini, la libertà di parola e di stampa e quella di riunione. Punti programmatici, chiari, per arginare la deriva autoritaria.
Il piano femministra contro la violenza di genere non è qualcosa che riguarda questioni femminili o femministe, è qualcosa di più: è ragionamento che irrompe e squarcia l’asfissia del presente politico, è la possibilità di pronunciare e organizzare uno sciopero generale con al centro il tema delle migrazioni, è affermare di non essere più acquiescienti rispetto alle diseguaglianze sociali e che questa architettura del mondo cosi come è va smontata, pezzo per pezzo. Non ci sono le prigioni politiche, ma ci sono le prigioni della precarietà, che non permettono di separarsi o di fare figli. Che impediscono di partecipare a una vita sociale e politica perché va via via scomparendo la libertà dal bisogno. La rete di solidarietà raccontata bene nel libro di Lorenzo Pezzica vedeva queste donne muoversi tra i continenti, curarsi l’un l’altra, imporre la centralità della loro visione. Erano donne che non dovevano lottare anche contro i parassiti che inginocchiano le istanze insorgenti, malsane invidie che nascono quando non ci si sente attori moltitudinari ma solo atomi soli. E sembrano modernissime a volte se pensiamo alla miseria di certa politica oggi, dove se è una donna a tagliarci i diritti qualcuna dice che è una vittoria di genere.
Una versione più breve di questo testo è uscita su il manifesto il 3 gennaio 2018.
condividi