Il lavoro sessuale contro il sesso

Libertà sessuale e desiderio neoliberale

Aleksandar Srnec_ Cover Design for_Svijet_Fashion Magazine_No. 11_1960_ offset_ paper_340 x 240 mm_ Marinko Sudac Collection (708x1000)
Aleksandar Srnec, Cover Design for Svijet Fashion Magazine No. 11, 1960 - Marinko Sudac Collection

Una caratteristica della tradizione marxista è di non avere mai contrapposto l’emancipazione individuale all’emancipazione sociale. Fin dal Manifesto, Marx ed Engels definiscono infatti il comunismo come una «associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione per il libero sviluppo di tutti». In questa prospettiva, diventa centrale la questione della libertà di agire secondo i propri desideri individuali all’interno di un’organizzazione sociale che dovrebbe rispondere ai bisogni collettivi. È questa la questione che vorrei affrontare, prendendo come punto d’attacco i dibattiti suscitati dal riconoscimento da parte del femminismo del sex work (o lavoro sessuale) come lavoro, per l’appunto. Si può riassumere la posizione maggioritaria all’interno di questo dibattito come segue: nella misura in cui il rapporto di prostituzione non deriva da un desiderio reciproco tra gli individui che vi sono coinvolti, allora esso si iscriverebbe nel continuum delle violenze sessuali e si rivelerebbe per questo motivo estraneo alla sfera del desiderio.

Questa prospettiva, condivisa da correnti femministe per altro molto diverse tra loro, è effettivamente «seducente», ma si fonda su un presupposto molto generale: il presupposto per cui il desiderio sarebbe di principio contrapposto all’obbligo, alla violenza o all’individualismo liberista e permetterebbe in quanto tale di distinguere tra pratiche alienanti e pratiche emancipatrici. Da qui discenderebbe la necessità di lottare contro tutto ciò che nega, frena o reprime il desiderio e la sua espressione.

Ora, questo presupposto è criticabile sotto vari punti di vista. Innanzitutto si può rimarcare che se è vero che i rapporti di dominio determinano consenso – come il femminismo ha mostrato ormai da tempo – allora, di conseguenza, è l’ideologia che assicura la riproduzione di tali rapporti a determinare la manifestazione di un oggetto come desiderabile o no, per cui il desiderio può anche essere espressione non di una libertà ma di un’alienazione. La figura del soggetto desiderante, infatti, si può interpretare come un avatar del soggetto “libero” di partecipare allo scambio commerciale, che già Marx, nel Capitale, presentava come una condizione e un prodotto dell’espansione dei rapporti di produzione capitalistici.

La figura de soggetto libero, proprietario del proprio desiderio come lo è della propria forza lavoro, lungi dall’essere in contrasto con l’individualismo liberista o di fungere da criterio di politiche emancipatrici, rappresenta invece una forma ideologica integrata alla riproduzione dei rapporti di scambio e di produzione capitalistici 

Perciò, la figura de soggetto libero, proprietario del proprio desiderio come lo è della propria forza lavoro, lungi dall’essere in contrasto con l’individualismo liberista o di fungere da criterio di politiche emancipatrici, rappresenta invece una forma ideologica integrata alla riproduzione dei rapporti di scambio e di produzione capitalistici. Questa è almeno la tesi che intendo difendere nel seguito del mio discorso, non per identificare questo «desiderio che rivendica la sua libertà» come immediato fattore di alienazione, ma per identificare le condizioni sotto le quali esso può essere mobilitato come una potenza veramente sovversiva, in una prospettiva femminista e rivoluzionaria.

Femminismo, desiderio e capitale

Come arrivare a comprendere la ragione per cui il femminismo sia progressivamente arrivato a fare del desiderio un criterio di emancipazione per le donne? Perché tale concezione del desiderio si rivela nella maggior parte dei casi insoddisfacente? E cosa ci guadagniamo a pensare il desiderio materialisticamente come prodotto di rapporti di produzione specifici (nello specifico, capitalistici) e delle diverse forme ideologiche, culturali e giuridiche che ne assicurano la riproduzione?

Per rispondere a queste domande possiamo cominciare col sottolineare che il concetto di desiderio è raramente oggetto di un’analisi rigorosa, di una anche minima storicizzazione, o anche solo di una definizione praticabile. Questo modo ingenuo di rapportarsi al desiderio stupisce tanto più che già da tempo teorici del calibro di Andrea Dworkin o Catherine MacKinnon hanno proposto un’analisi del desiderio come prodotto di rapporti sociali determinati. Nel suo Intercourse (New York, BasicBooks, 2007), Dworkin mostra ad esempio quanto i meccanismi del desiderio maschile si fondino sulla subordinazione delle donne. MacKinnon, dal canto suo, non ha timore a comparare lo statuto teorico assegnato al valore nel marxismo con il trattamento riservato dalle femministe ai concetti di sessualità e desiderio: in entrambi i casi, ci spiega l’autrice, si tratta di mettere al centro la produzione e la produttività sociale di un fenomeno apparentemente “naturale”. Ora, è precisamente questa concezione materialista del desiderio che il movimento pro-sex ha preso di mira con le sex-wars. Con l’argomentazione secondo la quale Dworkin e MacKinnon «metterebbero troppo l’accento sul pericolo sessuale e sul monopolio esercitato dal modello eterosessuale patriarcale sulla sessualità», le femministe pro-sex intendevano infatti mettere in primo piano «l’agentività sessuale delle donne così come delle forme non normative di sessualità»1. Però, com’è ben sottolineato da Rosemary Henessy, tale volontà di promuovere le forme non normative di sessualità ha spinto le femministe pro-sex a scollegare il piacere e la sessualità dalle strutture sociali che li organizzano, finendo quindi per sostenere una concezione liberale del desiderio, come proprietà di un individuo estraneo a ogni contesto sociale. Quindi, in una paradossale giravolta rispetto alla loro contrarietà al sex work, le teorie femministe citate nell’introduzione finiscono per riallinearsi a una concezione liberista del desiderio.

La concezione liberale del desiderio presenta un problema a due facce: da una parte, contrapponendo l’esistenza del desiderio all’inserimento dell’individuo all’interno di rapporti sociali, avalla il presupposto dell’esistenza di individui liberi nel contesto di una società alimentata. Dall’altra parte, tale concezione rende invisibile il fatto che l’accesso a questa posizione di individuo “libero” si opera ai danni di tutti coloro che da questo processo vengono esclusi 

La mia ipotesi è di conseguenza che l’avanzata di questa concezione liberista del desiderio si possa spiegare con il fatto che un certo numero di donne siano arrivate a ricoprire posizioni sociali in cui i rapporti sociali non appaiono più come ostacoli alla realizzazione dei loro desideri. In altri termini, la concezione liberale del desiderio messa in campo dal movimento femminista esprime la posizione sociale delle donne che questo movimento rappresenta. Insomma, se alcune militanti femministe possono effettivamente affermarsi in quanto soggetti di desiderio, lo stesso non accade per le donne su cui i rapporti dominio si esercitano con maggiore forza, come per esempio le donne migranti che esercitano il sex work. Perciò, al di là della definizione di cosa sia il desiderio, della legittimità di ciò che è desiderato, la questione che si deve porre è quella di chi possa vedere riconosciuti i propri desideri come tali: la volontà da parte di alcune femministe di presentare la libera espressione dei propri desideri sessuali come espressione più legittima di un processo di emancipazione, a scapito della considerazione della necessità prima di soddisfazione dei propri bisogni materiali, è dunque riflesso di una posizione di classe nel modo in cui si pensa l’emancipazione femminile, inclusa quella sessuale.

Lo vediamo, la concezione liberale del desiderio presenta un problema a due facce: da una parte, contrapponendo l’esistenza del desiderio all’inserimento dell’individuo all’interno di rapporti sociali, avalla il presupposto dell’esistenza di individui liberi nel contesto di una società alimentata. Dall’altra parte, tale concezione rende invisibile il fatto che l’accesso a questa posizione di individuo “libero” si opera ai danni di tutti coloro che da questo processo vengono esclusi.

Ne La reification du désir, Kevin Floyd si dedica a storicizzare la figura del soggetto padrone del proprio desiderio e libero di appagarlo come più lo aggrada, riconducendo questa figura alla svolta consumistica impressa dal modo di produzione capitalistico dopo la Seconda Guerra Mondiale. È nell’istituzionalizzazione della psicanalisi che si riflette, secondo Floyd, in maniera privilegiata l’emergere di questa forma di soggettivazione commerciale. Nella misura in cui la psicanalisi attribuisce alla famiglia una funzione centrale nella spiegazione delle patologie psichiche e contribuisce a isolare il desiderio «dalle altre proprietà corporee» razionalizzandolo in un «discorso scientifico sviluppato nei termini di un mezzo di rivelare la verità, l’essenza di un soggetto individuale»2, in questa misura la psicoanalisi deve in effetti essere interpretata come una forma ideologica per mezzo della quale l’individuo è spinto a comprendere il proprio desiderio come un elemento costitutivo della propria identità, e allo stesso tempo a orientarlo verso il consumo commerciale. In una prospettiva althusseriana, diremo allora che le trasformazioni strutturali della famiglia e la loro razionalizzazione nel discorso psicanalitico costituiscono le due mediazione attraverso cui l’individuo è interpellato in qualità di soggetto desiderante dal mercato.

Tuttavia, Althusser spiega anche che il soggetto non è preesistente rispetto al suo inserirsi dentro formazioni ideologiche (nel novero della quali Floyd invita appunto a inserire anche la psicoanalisi) che partecipano alla riproduzione dei rapporti sociali:

«L’ideologia ha sempre-già interpellato gli individui in quanto soggetti, il che non fa che precisare che gli individui sono stati sempre-già interpellati dall’ideologia in quanto soggetti, e ci conduce necessariamente ad un’ultima proposizione: gli individui sono sempre già-soggetti»((Trad. it. del testo Idéologie et appareils d’État, in Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 113-114.). 

Ora, se l’individuo è sempre-già interpellato in quanto soggetto integrante nella riproduzione dei rapporti di produzione, diventa possibile analizzare le condizioni in cui il desiderio può rivoltarsi contro la funzione ideologica cui è assegnato: in questo modo, il desiderio apparirebbe finalmente soggetto ai rapporti sociali, almeno quanto questi ultimi sono a lui soggetti. Il che apre una prospettiva di mobilitazione radicale, rivoluzionaria del desiderio.

Sublimazione e produzione desiderante

Sarebbe riduttivo considerare il desiderio al tempo del capitalismo unicamente sotto l’aspetto della reificazione e dell’interpellazione del soggetto desiderante a vantaggio dell’espansione del capitale. Se alcune mobilitazioni femministe odierne si trovano effettivamente, in considerazione del contesto neoliberista, a suscitare diffidenza riguardo al concetto di desiderio, attenersi alla mera diffidenza significherebbe ignorare che il desiderio è stato usato, storicamente, anche da autori che si ispiravano alla psicanalisi (e senza menzionare tutta la corrente che si richiamava all’«autonomia desiderante»), come potenziale portatore di un processo di sublimazione suscettibile di suggerire un superamento del capitalismo, o addirittura a costituirsi esso stesso come forza rivoluzionaria.

È ciò che ritroviamo ad esempio in Marcuse. L’uomo a una dimensione parte dalla constatazione che la società industriale moderna, trasformando la natura del desiderio e moltiplicando le possibilità del suo soddisfacimento, ha paradossalmente ridotto la portata del desiderio stesso, la sua capacità di sovvertire l’ordine borghese. Analizzando ciò che egli definisce «desublimazione repressiva», Marcuse ci invita a identificare nel desiderio un potere radicale di critica e negazione dell’ordine sociale. Studiando i fenomeni di democratizzazione della cultura «superiore», Marcuse mostra come la sublimazione un tempo garantita dalla produzione di immagini inaccettabili per la cultura borghese, perché «inconciliabili con li principio di realtà costituito», è stata successivamente rimpiazzata da «una desublimazione che sostituisce la soddisfazione mediata con una soddisfazione immediata», in seguito proprio all’inclusione di quelle stesse immagini nella cultura commerciale. La soddisfazione autorizzata dalla società ha quindi un’estensione molto maggiore; ma attraverso questa soddisfazione il principio di piacere a subito una riduzione – privato com’è di rivendicazioni inconciliabili con la società costituita. In questa forma, il piacere genera sottomissione.

L’analisi degli effetti della società tecnologica tratteggiata da Marcuse è quindi pessimista: la liberalizzazione della sessualità, la possibilità estesa di soddisfare immediatamente i propri desideri e l’accesso agevolato a piaceri sempre più numerosi rappresentano altrettante conseguenze di un processo di desublimazione che in realtà rafforza l’alienazione: incorporato nella società capitalista come una merce, il desiderio dismette la sua capacità sovversiva. Laddove la «coscienza infelice» sentiva e soffriva lo scarto esistente tra i suoi desideri e il principio di realtà, la «coscienza felice» prodotta da questo sistema è una coscienza che non sente il bisogno di rivendicare alcunché, pur essendo il prodotto di dominio e di repressione. La prospettiva freudo-marxista portata avanti da Marcuse permette quindi di identificare l’ambivalenza di una sessualità strettamente annessa alle esigenze del capitalismo: «Tutto ciò che viene toccato dalla nostra società diventa un potenziale di progresso e di sfruttamento, di alienazione e di appagamento, di libertà e di oppressione. La sessualità non fa eccezione».

Ma che significa questo, se non che la contraddizione in virtù della quale la liberalizzazione della sessualità e l’immediata soddisfazione dei desideri individuali sono sinonimi di repressione sociale sia, questa contraddizione, una contraddizione interna del capitalismo? E cosa se non che, di conseguenza, il superamento del capitalismo sarà necessariamente sinonimo di (ri-)sublimazione del desiderio?

È quanto suggeriscono Delezue e Guattari nell’Anti-Edipo quando tracciano un’altra via di emancipazione del desiderio. Opponendosi a una concezione reificante del desiderio, che tende ad astrarlo dotandolo di una dinamica autonoma rispetto a quelle sociali (benché queste ultime siano ritenute in grado di influenzare il desiderio), l’Anti-Edipo assume il desiderio come principio immanente cui non si può opporre una repressione esterna, perché esso stesso, il desiderio, partecipa della sua repressione. In risposta alla psicanalisi, accusata di ridurre la società ad un album di famiglia, Deleuze e Guattari intendono costituire una «psichiatria materialista» la cui «categoria effettiva» è rappresentata dalla «produzione desiderante». Mettendo in primo piano la produttività del desiderio, la «macchina desiderante», la questione diventa lottare contro la concezione dominante del desiderio in quanto «mancanza», caratteristica della strategia di controllo del desiderio organizzato dalla classe dominante.

Così, spezzando l’equazione desiderio = mancanza, si deve affermare l’unità della produzione sociale e della produzione desiderante, perché «il desiderio fa parte dell’infrastruttura». Ed è proprio in virtù del fatto che il desiderio non può essere rinchiuso all’interno di categorie sociali, proprio perché sono queste ultime a presupporlo, che esso è intrinsecamente dotato di un potenziale rivoluzionario:

«Checché ne pensino alcuni rivoluzionari, il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario […]. E questo significa non che il desiderio è altra cosa dalla sessualità, ma che la sessualità e l’amore non vivono nella camera da letto di Edipo, ma sognano piuttosto interinati spazi e fanno passare strani flussi che non si lasciano stoccare in un ordine prestabilito. Il desiderio non “vuole” la rivoluzione; è rivoluzionario in se stesso e involontariamente, volendo ciò vuole». 

Precedendo ogni produzione sociale determinata, il desiderio concepito da Deleuze e Guattari non è più «desiderio di», né attributo di un soggetto di un’ideologia specifica. Se la società effettivamente tende a canalizzare il desiderio per integralo nella riproduzione delle strutture sociali, nondimeno esso non smette mai, in sé, di oltrepassare, di debordare i limiti che le strutture sociali gli impongono: è l’«eccesso [débordement] che manifesta», ed è questo sconfinamento permanente a costituire la sua natura essenzialmente rivoluzionaria.

La questione delle condizioni materiali di possibilità di una tale emancipazione del desiderio attraverso il desiderio resta nondimeno il punto cieco di queste riflessioni. Se Deleuze e Guattari mettono l’accento sul ruolo esercitato dalle strutture di dominio e sull’appartenenza del soggetto desiderante al sociale, la loro analisi non fa emergere strategie in grado di mobilitare il potenziale rivoluzionario del desiderio, o meglio, in grado di far sì che il desiderio stesso si mobiliti a scopi di trasformazione radicale dell’ordine sociale 

A dispetto delle loro profonde differenze, la tesi di Marcuse da un lato e quella di Deleuze e Guattari dall’altro ci consentono di pensare il desiderio in una prospettiva emancipatrice, tenendo conto della lotta necessaria contro le strutture di repressione e di dominio che lo riguardano e all’interno delle quali esso stesso si implica, piuttosto che considerarlo come l’attributo inalienabile di un soggetto libero, o già esattamente come un attributo la cui acquisizione e soddisfazione si tradurrebbero inevitabilmente, cioè indipendentemente dalle condizioni materiali della sua effettuazione, nella capacità da parte di un soggetto libero di liberarsi dai rapporti di potere. La questione delle condizioni materiali di possibilità di una tale emancipazione del desiderio attraverso il desiderio resta nondimeno il punto cieco di queste riflessioni. Se Deleuze e Guattari mettono l’accento sul ruolo esercitato dalle strutture di dominio e sull’appartenenza del soggetto desiderante al sociale, la loro analisi non fa emergere strategie in grado di mobilitare il potenziale rivoluzionario del desiderio, o meglio, in grado di far sì che il desiderio stesso si mobiliti a scopi di trasformazione radicale dell’ordine sociale.

Il desiderio di comunismo: un bisogno radicale

 Come sottolinea Rosemary Henessy, il fatto che il capitalismo tenda a produrre l’idea di una separazione tra la sfera della sessualità e quella della produzione non fa altro che rendere più urgente il compito di esaminare le relazioni sistemiche tra formazioni cultural-sessuali e formazioni economico-politiche e di esaminare la fabbrica della coscienza al tempo del capitalismo.

Abbiamo l’abitudine di contrapporre i «bisogni» ai «desideri», con l’argomento che i primi sarebbero dell’ordine del naturale e della necessità, mentre i secondi sarebbero socialmente costruiti e contingenti. Ma la teorizzazione marxista femminista del lavoro domestico ci ha insegnato che i bisogni umani soddisfatti abitualmente (e gratuitamente) dalle donne, lungi dall’essere limitati ai soli «bisogni naturali» soddisfatti dal lavoro domestico includono anche i «bisogni affettivi». Le recenti ricerche sulla divisione mondiale del lavoro nell’ambito del care, per esempio, hanno dimostrato che i servizi di baby-sitting, come anche l’industria del sesso, chiedono sempre di più ai lavoratori non solo di compiere l’attività materiale specifica, ma anche di stimolare sentimenti e sviluppare una vera e propria intimità.

Perciò è questione di analizzare i processi di produzione non soltanto dei mezzi di soddisfazione dei bisogni affettivi, ma anche di questi bisogni in quanto tali. Ciò implica l’abbandono della contrapposizione tra lavoro e desiderio, ma al contrario impone di concepire il desiderio come una forma di lavoro: il desiderio allora non è più né una qualità la cui presenza o assenza sarebbe sufficiente per giudicare la natura di questi rapporti (se emancipatori o alienati), né un flusso di energia che organizza i rapporti sociali. Il desiderio non sta a indicare una «cosa», più o meno evanescente, e nemmeno una mancanza, ma non è altro che un processo attraverso il quale i bisogni sesso-affettivi trovano soddisfazione, oppure no. Bisogna dunque osservare la divisione del lavoro come qualcosa che opera non soltanto nell’organizzazione dei mezzi della soddisfazione del desiderio, ma anche nella produzione stessa dei bisogni. Per far ciò, bisogna considerare il versante negativo del processo, ossia l’insoddisfazione fondamentale di quei bisogni che Henessy chiama, sulla scorta di Deborah Kelsh, «bisogni proscritti» (outlawed needs).

«Il salario minimo non è evidentemente mai uguale al minimo vitale (living wage). Perché il minimo vitale non copre neanche i bisogni più basilari […]. Moltissimi bisogni necessari perché una vita umana possa essere vissuta pienamente sono insoddisfatti e virtualmente “proscritti”». 

I bisogni proscritti appaiono come la faccia nascosta dei bisogni prodotti nel e dal sistema capitalistico. Il desiderio non è legato all’una o all’altra di queste categorie di bisogni, ma a entrambe. La reificazione e la mercificazione del desiderio rinviano infatti a una determinata modalità di produzione socio-affettiva, o più esattamente alla produzione di un certo tipo di bisogni affettivi. Nondimeno i bisogni non potranno essere sempre tutti riconosciuti, perché il loro riconoscimento implicherebbe anche il loro riconoscimento all’interno del salario minimo; e questi bisogni non sono solo non riconosciuti, ma sconosciuti nella misura in cui l’organizzazione attuale dominante dei bisogni affettivi mira precisamente alla loro insonorizzazione e alla loro messa sotto tutela. Perciò, a differenza di Deleuze e Guattari, la questione non è considerare il desiderio come l’inevitabile dato preliminare di ogni forma di produzione, ma piuttosto di invitare a una «lotta per il riconoscimento» dei processi-desideri che realizzino i bisogni proscritti.

I termini di questa lotta possono essere formulati ricorrendo al concetto di «bisogni radicali» avanzato da Agnes Heller nella testo La teoria dei bisogni in Marx:

«Il dovere (das Sollen) è esso stesso collettivo, poiché al più alto punto dell’alienazione capitalistica sorgono nelle masse (e in particolare nel proletariato) bisogni detti radicali che incarnano questo “dovere” e aspirano, per loro stessa natura, a trascendere il capitalismo nella direzione del comunismo». 

Partendo dal concetto di «bisogni radicali» diventa possibile formulare una teoria ancorata sul desiderio come forza rivoluzionaria insita nelle stesse realtà materiali che si tratta di trascendere: un desiderio il cui obiettivo non sarebbe altro che la ricerca ininterrotta di qualunque cosa sia necessaria alla soddisfazione dei bisogni radicali: un desiderio di comunismo
 

Partendo dal concetto di «bisogni radicali» diventa possibile formulare una teoria ancorata sul desiderio come forza rivoluzionaria insita nelle stesse realtà materiali che si tratta di trascendere. Infatti, poiché il capitalismo fa subire al desiderio un processo di reificazione, o più esattamente crea il desiderio in quanto desiderio reificato, questa reificazione, nel suo ultimo stadio, è condannata a stimolare il bisogno di un desiderio non più reificato, né separato dalle altre sfere dell’esistenza sociale e che si tratterebbe di razionalizzare al servizio di una logica di consumo, ma piuttosto un desiderio il cui obiettivo non sarebbe altro che la ricerca ininterrotta di qualunque cosa sia necessaria alla soddisfazione dei bisogni radicali: un desiderio di comunismo.
Il desiderio, così inteso, può costituire l’origine di una lotta rivoluzionaria, a condizione che non si restringa il suo esercizio al solo ambito della sessualità, che non si giudichi il processo di emancipazione sulla base della sua presenza o assenza in sfere della vita considerate separate l’una dalle altre, né tantomeno in funzione dell’acquisizione o meno di uno statuto di «soggetto desiderante» presuntamente rivelatore di chissà quale sviluppo personale e individuale, ma che in realtà dipende dallo sfruttamento di altri esseri umani e dunque dalla negazione dei loro bisogni. Riconoscere questi «altri» bisogni come degni di considerazione, e le condizioni materiali per il loro soddisfacimento come un problema di prim’ordine, questo significa in definitiva superare la concezione del desiderio senza soggetto né oggetto, per arrivare a concepirlo come ciò che muove il soggetto rivoluzionario collettivo, che tende al comunismo in quanto sistema di soddisfazione di tutti i bisogni, senza distinzione di classe, genere o razza.

Intervento pronunciato in occasione di Sensibile comune. Le opere vive
[Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, 14-22 gennaio 2017] nell’ambito delle serate «Parole Comuni», 19-20 gennaio,
organizzate in collaborazione con  l’Institut Français Italia.

Questo intervento è la rielaborazione del testo Le travail du sexe contre le sexe. Pour une analyse matérialiste du désir, pubblicato in francese nel volume, Pour un féminisme de la totalité, Editions Amsterdam, collection Période, marzo 2016)

Traduzione dal francese di Riccardo Antoniucci

Note

Note
1Catharine A. Mackinnon, Toward a Feminist Theory of the State, Harvard University press, 1989, p. 3 e sgg.
2Kevin Floyd, La réification du désir. Vers un marxisme queer, Éditions Amsterdam, Paris 2013, p. 64.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03