Antropofagie sincretiche

Hans Staden balla il funk-tupì

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Dias&Riedweg, Funk Staden - Auditorium Parco della Musica, Roma (2017).

Il piccolo Hans

La storia di Hans Staden è infinita. Il suo libro ha accompagnato quasi ogni narrazione antropologica relativa ai primi contatti tra europei e i nativi, in particolare i Tupinamba. La sua biografia può essere riassunta così: era un soldato tedesco esperto di cannoni, arruolato in una nave spagnola che naufraga vicino all’attuale Sao Vincente. Viene preso prigioniero dai portoghesi e dai loro alleati Tupinikin, nemici dei Tupinamba; in seguito, Staden è catturato proprio dai Tupinamba, percepito come portoghese e quindi nemico, infine portato nel loro villaggio vicino all’attuale Ubatuba per essere divorato ritualmente. Dopo circa otto mesi, Staden riesce a fuggire e, tornato in patria, narra in un libro che diventerà best seller la sua storia tra i «cannibali».

Nel loro progetto, Funk Staden (2007-2008) Dias&Riedweg hanno collaborato con ballerini funk delle favelas di Rio de Janeiro, per sviluppare connessioni sincretiche e antropofagiche tra la scena Funk Carioca e il libro di Hans Staden (1527-1578), dove descrive la sua nuda prigionia tra i cosiddetti «antropofagi» Tupinambá dell’attuale Brasile (Vera storia e descrizione di uno Stato di persone selvagge, nude, sinistre, cannibali nel Nuovo Mondo). Il linguaggio corporale, musicale e poetico ritmato dal funk, nelle aree più marginali delle metropoli e in particolare di Rio de Janeiro, ha prodotto un radicale mutamento nelle scenografie ritmiche brasiliane. L’idea di Dias&Riedweg si base su un re-enacting delle xilografie realizzate da Staden al suono del funk in quanto parte della subcultura hip hop. In tal modo si mostra come l’antropofagia non è un cannibalismo affamato e selvaggio, bensì è un rituale per assorbire il potere simbolico del nemico – incorporandolo. Le generazioni dei favelados hanno abbandonato ritmi e rime di samba o bossa nova (come i loro coetanei afro-americani negli USA rispetto al jazz) per affermare la loro auto-rappresentazione fortemente sessuata e oppositiva attraverso il funk. In questa prospettiva, la performance Funk Staden si presenta con un interessante carattere spontaneamente etnografico.

Dopo quasi cinquecento anni, questa storia perturbante dei primi incontri tra culture radicalmente diverse viene rielaborata in una performance che tenta di rielaborare un sincretismo antropofagico. Queste due parole sono fondamentali per intendere il disincontro tra queste due cosmologie che causerà uno dei più tragici genocidi nella storia dell’umanità. Etnocidio biologico e culturale. Gli Europei praticarono un attacco convergente verso la distruzione di ogni carattere autonomo – filosofico, religioso, culturale – delle popolazioni native. Attacco che continua specie in Brasile per l’azione simultanea di un governo para-golpista, con l’influenza determinante di fazendeiros (proprietari terrieri latifondisti) e missionari evangelici. Il governo della terra e dell’anima si allea per compiere l’estremo annullamento materiale e immateriale delle culture indigene. I fazendeiros vogliono penetrare nelle riserve per coltivare la soia, l’oro verde, corrompendo alcune persone ingenue e alleandosi coi politici corrotti; gli evangelici attuali (a differenza dei missionari cattolici che hanno evitato dopo il concilio di praticare l’evangelizzazione, in parte restaurata dal cardinale Ratzinger prima di diventare papa) hanno il compito «militare» di distruggere ogni cosmologia sacra per governare le anime con un rigido schema protestante, che da diversi anni sta penetrando e annullando ogni tradizione afro-brasiliana e nativa considerate eresie diaboliche.

Questa tenaglia afferra la terra e l’anima dei discendenti Tupi Guarani, Bororo, Xavante, Kayapo, Yanomami per togliere ogni identità storica e inserire quello che rimane – macerie e polvere – dentro il loro potere assoluto. Contro e oltre tale alleanza istituzionale sarebbe fondamentale riprendere alcune tradizioni brasiliane, rielaborarle e inserirle dentro il contesto contemporaneo per accettare la sfida di questo duplice potere. E la cultura, le arti, le performance possono affermare tale tendenza se riescono a mobilitare i settori più svantaggiati delle popolazioni che vivono nelle aldeias o nelle favelas e affermare le loro soggettività politiche determinanti verso una nuova fase politica e culturale. Per questo, è necessario individuare nelle connessioni tra aldeia, metropoli, social network un altro cosmopolitismo attraverso le aree determinanti per una scelta pragmatica offensiva. L’ipotesi di un nuovo cosmopolitismo può essere ricercato nei nessi tra sincretismi culturali e antropofagie performatiche. Vorrei aggiungere che questi due concetti non si applicano solo nel Brasile attuale, ma possono essere un modello decentrato e mutante per diversi contesti geopolitici. Tra cui, in primo luogo e per molti motivi, l’Europa: una Europa diversa, concettualmente transitiva e politicamente riflessiva su quanto realizzato in passato e, in molti casi, nel presente oppressivo tutt’ora dominante.

Dias&Riedweg, Funk Staden – Auditorium Parco della Musica, Roma (2017).

Sincretismi

Il sincretismo è parola-chiave per capire la trasformazione nel rapporto tra arti ed etnografie, all’interno del processo di globalizzazione e localizzazione che coinvolge e travolge i tradizionali modi di creare cultura e comunicazione. Tale parola apre alla comprensione di un contesto mutante, permettendo di indirizzare l’attuale disordine comunicativo verso correnti creative, decentrate, aperte. Nel sincretismo convive il paradosso di una parola instabile per le sue mutazioni di significato. Si traveste con sinonimi più eleganti o più conflittuali, come pastiche, patchwork, marronizzazione, ibrido, mélange, mulattismo, acculturazione: concetti legati al gioco della contaminazione transculturale. Il sincretismo investe, dissolve e rimodella il rapporto tra straniero e familiare, tra culture popolari e digitali, culture di massa e d’avanguardia.

Il sincretismo presenta uno scenario in cui opposizioni binarie e logiche dicotomiche retrocedono a un passato semplificato. La stessa angoscia dell’omologazione, così a lungo elaborata dalle scienze sociali, può essere confinata nei parcheggi della storia delle idee. Ora l’antropologia, dopo l’uso filosofico e religioso della parola in senso denigratorio e superficiale, assume il sincretismo per la sperimentazione inquieta, che sfida il mutamento in nome di narrazioni xenofile. Il sincretismo lancia il progetto etnografico applicato alle arti: un mix di codici che ricombinano quelle differenze etniche/culturali assunte come ricchezza nel loro disordinato assemblaggio. La stessa cultura non è più vista come qualcosa di antropologicamente unitario, che compatta e lega tra loro individui, sessi, gruppi, classi, etnie: bensì è plurale, decentrata, frammentata, conflittuale.

ll sincretismo è stato abbinato a fenomeni religiosi, per cui ancora adesso i due termini vengono spesso associati; pur tuttavia, si è affermato un processo che ha applicato le narrazioni sincretiche nelle alle arti urbane (street art, public art, visual art, design espanso, moda, pubblicità, letterature e persino un certo cinema ecc.). Questi sincretismi culturali sono l’oggetto di questo discorso. Essi sgorgano, indisciplinati e incoerenti, da ogni piega della contemporaneità: per sovvertirla o stupirla, a volte per confonderla o semplificarla. In tale prospettiva, il lavoro di Dias&Riedweg mescola uno Staden redivivo con performer funkeiros. Nelle favelas di Rio de Janeiro, il canto parlato dissonante smuove i corpi e li trasforma in soggetti alterati e oppositivi.

L’origine della parola sincretismo è mitica. Si diceva che i cretesi, sempre pronti a litigare tra loro, si alleavano quando si presentava un nemico esterno. Sin-cretismo = unione dei cretesi. Un concetto difensivo per superare le differenze politiche interne, per non perdere la libertà e sconfiggere un nemico esterno peggiore dell’amico interno. Questa volontà di unire gruppi conflittuali di Creta servì per la successiva migrazione del concetto dalla politica alla religione. I diversi tentativi sincretici si riferivano a momentanee alleanze teologiche, reciproche combinazioni tra diverse fedi senza preoccupazioni per le coerenze dogmatiche della chiesa cattolica, rischiando eresie crudeli o tolleranze strumentali.

Da qui l’assonanza del sincretismo con «superficie», che a lungo lo ha marchiato da parte delle «profondità» filosofico-religiose. Il suo uso indica uno dei più grandi genocidi compiuti dalla cultura occidentale: dopo la «conquista» delle Americhe, i conquistadores scoprirono che i «nativi» non erano in grado di lavorare sotto condizione di schiavitù. Essi venivano uccisi o si lasciavano morire figli piuttosto che accettare un modo di vita così feroce. E allora nacque l’idea di importare mano d’opera più adattabile e si diede origine alle navi negriere. La schiavitù fu trasportata da un altro continente per l’inutilità della mano d’opera interna. Per questo, alcune delle forme più creative del sincretismo nascono dalla diaspora africana nelle Americhe.

ll sincretismo religioso mette in atto una sorta di pacificazione implicita tra vincitori e vinti. Questi accettano ufficialmente di essersi convertiti, inserendo le loro tradizioni religiose dentro quelle vincitrici; quelli riconoscono ufficiosamente la sopravvivenza camuffata delle religioni d’origine in quella cattolica. ll sincretismo religioso si presenta così sotto il segno del compromesso difensivo: si subisce l’alleanza invasiva della religione dominante, purché si permetta una certa tolleranza culturale. Infine, la recente autonomia religiosa del candomblè dal cattolicesimo rende possibile l’uso in senso estetico e culturale. Il nuovo sincretismo liberato seduce chi accetta il rischio di viaggiare, di dislocarsi nei molti «altrove», di godere i transiti identitari.

Il sincretismo culturale è nato quando in Brasile con i quilombos: spazi liberati da chi rifiutava la condizione di schiavitù e si armava contro il padrone schiavista. L’atto simbolico del quilombo era la fuga, il non accettare un ordine culturale impositivo e distruttivo. E qui nasce la parola «marronizzare» sulla quale non c’è traccia di colore scuro. Marronizzare non significa stemperare il nero verso il bianco o, al contrario, scurire il bianco. All’origine della parola non c’è quel processo che va sotto il nome di brancamento. La marronizzazione era una scelta politica di fondare, fuggendo, uno spazio di libertà autogovernato. Un quilombo, appunto. E la libertà di questo quilombo marronizzato era non solo religiosa, ma culturale estesa a tutti quegli esseri umani – dai diversi colori – che praticano nella fuga la possibilità di diventare liberi. Ladri, prostitute, indigeni, vagabondi, meticci. Anche la grande filosofia ha compreso che, in condizioni di schiavitù, non è tanto lo schiavo a essere tale, quanto il suo padrone. I quilombos sono il transito dalla città coloniale alla metropoli transitiva. La performance qui presentata si svolge in una area quilombola e i suoi discendenti riattualizzano – giocando con i codici – l’antropofagia di Hans Staden. Il canto funk favelado si innesta nello choro rituale Tupì.

Antropofagie

Vivendo in Brasile, una cosa mi pare evidente: l’uso del concetto di etnia contrapposto a quello di «razza» – così biologicamente predeterminato – esprime meglio gli incroci coevolutivi tra genetica e cultura. Dall’incontro tra trame etnoculturali plurali, emerge l’alleato del sincretismo: l’antropofagia. A Sâo Paulo le avanguardie sensibili al rinnovamento estetico e politico si erano definite antropofagiche: l’antropofagia – da stigma selvaggio che gli europei coloni affibbiarono ai nativi – fu rivendicata come un’arte di deglutire l’altro; le stesse culture occidentali potevano essere antropofagizzate: una pratica per incorporare nelle proprie sensibilità fisiologiche o estetiche sapori, simboli e proteine stranieri.

L’antropofagia non era più una fame «selvaggia» o «rituale» di carne umana: ma un appetito mirato, sensibile e delicato, teso a scegliere le parti corporali (i codici) più saporite per digerire in modo creativo l’altro e non un ingurgitare indifferenziato o indigesto. I sapori, i colori, le parti del corpo imbandite per essere incorporate erano scelte sulla base di strategie culinarie estetico-politiche. Gli antropofagi modernisti diventavano così artisti selettivi che si «scambiavano» sapori e saperi, carni ed estetiche. Come per i funkeiros cariocas, i valori sono mixati verso mutamenti non invasivi, ma contrattati e incorporati oppure vomitati. L’antropofago non è un «primitivo» che divora qualsiasi pezzo di carne, bensì un interprete costruttivista che sceglie di assumere le parti più vicine alla propria estetica cosmologica. Da questo sapiente deglutire nasce Macunaìma, eroe sincretico e «senza alcun carattere» di un Brasile metropolitano e industriale, che incrocia miti e canaglierie, etnografie e invenzioni, semantiche e discorsi senza capo né coda.

Secondo un’impostazione etnografica, il processo di globalizzazione non solo è quello in cui le culture indigene sono modernizzate, ma anche quello in cui la modernità si indigenizza. Per cui le relazioni tra due cosmologie non avvengono secondo una passiva accettazione di un determinato tratto culturale: il sincretismo antropofagico accade perché gli esseri umani non accettano automaticamente gli elementi nuovi; bensì selezionano, modificano e ricombinano simboli e segni nel contatto culturale. L’importanza di questo selezionare, modificare e ricombinare è decisivo nel passare da un’idea omologante ed entropica a modelli culturali sfaccettati che ricombinano non solo le cosiddette «periferie», ma anche il «centro». ln tal modo, la stessa nozione di «centro» versus «periferia» è messa in discussione, non ha un valore tassonomico (etico-politico) assoluto. Si afferma il principio che molte periferie stanno nel centro e che molti centri stanno nelle periferie: così le metropoli sono e hanno spazi sincretici e antropofagici.

Dias&Riedweg, Funk Staden – Auditorium Parco della Musica, Roma (2017).

Il sincretismo antropofagico non è un eclettismo senza concetto o un pragmatismo senza scrupoli, con buona pace di filosofi puristi o antropologi incontaminati. Al contrario, esso si appassiona per le cose triviali, secondarie, aliene: include sia il replacement che il displacement, e persino il reacting. Nel primo caso, si sostituisce una parzialità familiare con un’altra estranea; nel secondo, si ottiene di disorientare il soggetto dal suo ordine spaziale «normale». Il soggetto sincretico-fagico risulterà perturbante nella mischia tra familiare e straniero, dove l’etnografia inserisce il suo specifico ambito di ricerca. Nel terzo, un tratto culturale, artistico o performatico è re-agito, transita dal vecchio al nuovo, ri-attualizza il vecchio o il classico e persino il recente, trasfigurandosi in presente sincretico. Hans Staden danza il funk in un quilombo carioca probabilmente per il motivo suggerito dal grande antropologo brasiliano, Darcy Ribeiro: piangeva troppo e i Tupinambà non avevano alcun desiderio di introiettare paure e lacrime.

Il sincretismo antropofagico ha una parentela «segreta» con l’ossimoro. Una follia (0xy) del linguaggio che mette in disordine i confini delle parole per dare nuovi sensi alle cose. L’ossimoro, l’antropofagia e il sincretismo sono figli di logiche illegittime, di arti asimmetriche, di transiti quilombolas. La dinamica del mutamento culturale, anziché dirigersi verso intolleranti universalismi, si indigenizza, si personalizza, si decentra. Collage, montage, cut-up, pastiche, morphing: è così che il sincretismo penetra – tramite il selettivo divorare l’altro – nel logos, nell’etica, nell’estetica, per riattualizzare l’antropofagia in senso simbolico e performatico.

Contro la potenza della dialettica, il sincretismo antropofagico è una proposta ossimoro, un progetto ubiquo, un modello decentrato, un testo-collage, un quilombo funk, un montaggio incompatibile, un logos cannibale, un contatto indigenizzato, un viaggio mimetico, un flusso antropofagico, un patchwork marronizzato. Il sincretismo antropofagico si presenta come uno «spettro» che rifiuta sintesi filosofiche, dogmi religiosi, primati nazionali, fissità identitarie. E divora, rimastica, assorbe e vomita biennali secolari, mode funebri, cicli seriali e trash riciclato provenienti dalle varie mondo-culture. Il sincretismo antropofagico è uno spettro affamato e ubiquo che si aggira tra le culture cosmopolitane.

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