Affari di famiglia
Il collettivo ZimmerFrei a Budapest
Invenzione del quotidiano, osservazione del reale e pratiche di socialità condivise. Di questo si occupa ZimmerFrei, collettivo attivo dal 2000 e composto dalla filmmaker Anna de Manincor e dal musicista e sound designer Massimo Carozzi. Un cinema del reale contaminato con pratiche interdisciplinari, installazioni video, opere sonore, laboratori partecipativi e interventi nello spazio pubblico, che si pone in una posizione di ascolto e osservazione, per raccontare, o meglio per farsi raccontare frammenti di vita e identità in divenire. Soggettività che vengono declinate in dispositivi narrativi che ci parlano di mutati contesti sociali, come è accaduto nella docuserie Saga, film a episodi girato a Bologna, città d’adozione o d’elezione di emigrati e giovani cittadini che con il loro vissuto delineano un diverso racconto della città.
Con il film Mutonia hanno ripreso gli abitanti del campo Mutoid a Santarcangelo di Romagna, dove la Mutoid Waste Company si è insediata nel 1991 come accampamento temporaneo, per poi fermarsi invece in modo stanziale. Un’eterotopia dove la matrice post-industriale delle loro sculture meccaniche ha generato uno nuovo spazio abitativo, che connota non solo chi vi abita, ma anche l’identità della città, che si è arricchita di quell’eccentrica comunità di artisti. Nella serie Temporary Cities hanno documentato le singolarità di luoghi e istituzioni in diversi contesti internazionali. Temporary 8th è stato girato nell’ex quartiere rom di Budapest, La beauté c’est ta tête, a Marsiglia, The Hill nella zona popolare di Nørrebro a Copenhagen, La ville engloutie a Chalon-sur-Saône, città della Loira nota per la scomparsa della precedente attività industriale come i cantieri navali e la fabbrica Kodak, rasa al suolo con un’esplosione di dinamite, lasciando dietro di se fantasmi di celluloide. In Almost Nothing, girato al Cern di Ginevra, hanno ritratto la comunità scientifica che indaga gli sviluppi del mondo futuro, riprendendoli nella loro quotidianità, nel più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle, dove è stato ideato Internet e gli esperimenti del Bosone di Higgs.
La stessa modalità esplorativa, in dialogo con analisi sociali e antropologiche caratterizza Family Affair, videoinstallazione che presenta un archivio di ritratti di famiglia e/o di persone che hanno scelto di vivere insieme. In mostra all’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, fino al prossimo 7 gennaio, è un racconto corale e polifonico, in cui i legami e le relazioni che si instaurano si declinano in un racconto ipnotico e inaspettato. Le persone sono sempre riprese con gli occhi chiusi, come se stessero posando per uno scatto fotografico di lunga durata. Scelta registica che permette loro di non essere intimiditi o sedotti dallo sguardo in camera. La voce fuori campo è quella della persona ripresa, che racconta una sua esperienza in quella casa, oppure un ricordo, un desiderio, che si intreccia o contrappone al vissuto degli altri individui. Le riprese sono state fatte nelle abitazioni di circa 60 nuclei familiari residenti in Belgio, Svizzera, Olanda, Polonia, Ungheria, Grecia, Portogallo, Egitto, Cina e in varie città italiane, e narrano di famiglie elettive, allargate, ricomposte, intermittenti, immaginate.
Family Affair compone un grande ritratto collettivo sotto forma di microstorie che suggeriscono nuove forme di convivenza e progettualità nell’era dell’antropocene. Perché è qui che viviamo ed è qui che possiamo ridefinire piaceri ed esperienze, al tempo della Sesta Estinzione di Massa, della crisi delle biodiversità, dell’acidificazione degli oceani e dello scioglimento dei ghiacciai. Penso a questo mentre sono immersa nella visione della videoinstallazione all’Istituto Italiano di Cultura di Budapest. Penso inoltre alla recente lettura del libro di Angela Balzano, intitolato Per farla finita con la famiglia, pubblicato da Meltemi. Un libro in cui l’autrice ha sapientemente indagato l’ensemble «biologia e capitalismo» e analizzato quanto la riproduzione di bianchi e ricchi sapiens sia a discapito di altre forme di vita. Invece di curare e riprodurre la sola popolazione occidentale, scrive la Balzano, bisognerebbe instaurare legami postumani e decoloniali, legami in grado di superare la dicotomia maschile/femminile.
Tratta molti altri temi di carattere economico e biopolitico legati alla riproduzione, e oltre al suo libro penso a Margaret Atwood e alle utopie fantascientifiche femministe di Donna Haraway, e a Philip K. Dick quando scriveva di clonazione e criogenia. Penso a quanto sia sedotta da quelle istanze visionarie, anche se Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, per tornare alla Haraway, non vuole essere una fuga dal reale, quanto un frame del tempo presente proiettato nel futuro. Anche i protagonisti di Family Affair pur non utilizzando il linguaggio visionario della filosofa e zoologa statunitense, fanno riflettere sul quali saranno complicità, condivisioni e modalità emozionali ed economiche del tempo futuro. E come suggerisce la Haraway fare kin permette di creare nuove relazioni creative per imparare a vivere e morire insieme, al tempo della Sesta Estinzione di Massa.
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