Alzare gli occhi al cielo

Per Giovanna

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Non so perché Giovanna fra le molte cose che poteva fare scelse di fare un dottorato in storia. Era fiera dei suoi certamen giovanili e dei suoi brocardi giurisprudenziali che spesso le ritornavano sulle labbra, pronunciati con quella carezzevole e vezzosa inflessione napoletana. Troppo metodica la ricerca storica, troppo tempo da perdere nella solitudine della ricerca di quelle lunghe pause e nell’immobilismo di biblioteche e archivi senza sole e lontani dal mare. Avrei scommesso che avrebbe potuto fare belle incursioni nell’empireo filosofico, a sezionare il presente per ricavarne condotte di una politica dinamica, per cambiare il mondo e renderlo più vivace. A dottorato iniziato mi convinse a lasciarle fare una lezione, scelse per sé Bruno e Galileo. Una lezione meticolosamente preparata, argutamente esposta, dottamente strutturata intorno a citazioni tratte dalla Vita di Galileo di Brecht e dal Bruno di Montaldo. Gli studenti vennero rapiti da questo ciclone di parole e iperboli, dalla radicale concretezza di una narrazione così umana da rimanerne incantati. «Sono particolari della storia affascinanti e incredibili, che parlano, in fondo, delle miserie dell’uomo (tutto quello che è stato fatto contro copernico, giordano bruno e galilei) e dello splendore degli uomini (tutto quello che hanno fatto copernico, giordano bruno, campanella, galileo)». Voleva convincere i ragazzi che Bruno e Galileo attraversassero ancora le nostre strade che il dubbio, in una società apodittica, fosse la magia della rivoluzione a venire e che un mondo nuovo si era schiuso, a patto di cercarlo per conto proprio non nei libri della tradizione; nella vita, nelle esperienze, nei legami delle relazioni. Nessuna vita è mai una vita individuale. Usò parole semplici e profonde, teatrale e convulsa, immaginaria e luminosa, una lingua impensata in un’aula di università e se li portò tutti dietro quei ragazzi, incantati da questa mite e esile ragazza capace di tanta forza suggestiva. Lei così distante dalla probità e dal rigore disciplinare aveva dato una lezione di storia. Non so spiegarlo bene, ma credo che questo involontario e imprevisto talento abbia qualcosa a che fare con le sue pastiere. Le radici e una memoria di saperi meridiani da preservare nelle sue forme e nei simboli, nell’equilibrio virtuoso degli elementi da assaporare per ritrovare il gusto di essere quelli che si è, che è il solo modo di ricordare. L’unica strategia possibile per entrare in contatto con l’altro superando l’abitudine di credere e ricreare così infiniti mondi in cui sconfiggere la tristezza. Senza servilismi, l’urgenza di pensare l’altrove qui: nel mare che amava, nei pesci blu cobalto, in budda e nella stratificazione della Costiera, nell’amore per la Comune di Parigi e delle sue pétroleuses che incendiavano tutto per fermare il tempo e non consegnarlo alla reazione. E allora non aveva importanza che in una lezione di storia non avesse fissato neanche una data e nessuna nota a margine per consolidare in una gerarchia bibliografica il suo virtuosismo.

La sua ricerca era su Ventotene e il microcosmo carcerario in cui nacque la proposta europea di Spinelli, rapidamente espunto per concentrarsi su quella che lei riteneva la vera artefice del sogno europeo Ursula Hirschmann. Bisognerà riprenderla e discuterla. Perché parla di un mondo asfittico che si apre a pensare l’universalità, lottando. La vita che scorre nelle pieghe, i rapporti umani che non si arrendono al destino ma lo forzano continuamente per scuotere la forma e la pigrizia. Ogni uomo ha il diritto di alzare gli occhi al cielo, ripeteva con Bruno; per aggiungere che gli occhi al cielo si liberarono della ristrettezza di un orizzonte imposto. Alzare gli occhi al cielo dovrebbe essere il metodo di ogni ricercatore, di ogni studente, diceva divertita. Una dolce, inarrivabile remora divenuta paradigma di una storia tutta ancora da scrivere. In un’altra vita, ancora qui.

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