C’è silenzio e silenzio
La sottrazione di Don DeLillo
Da Americana del 1971 al bellissimo Zero K pubblicato nel 2016, i dialoghi che Don DeLillo scrive nei suoi romanzi, racconti o drammaturgie costituiscono un punto strategico fondamentale della sua poetica. Sono sempre molto astratti, nel senso che nessun personaggio ha un suo lessico specifico e caratterizzante; è piuttosto una lingua impersonale che si esprime, sempre uguale, attraverso tutti i parlanti. Ma a conferire una straordinaria intensità – sia ritmica che emotiva – a tutte le conversazioni, anche le più banali, è il fatto che non sono mai costruite come dei botta e risposta: tra una battuta e l’altra non c’è conseguenzialità, piuttosto interruzione e novità.
Nulla a che fare con l’abisso dell’assurdo di Beckett o Ionesco: qui è tutto chiaro, la gente si parla e si intende, e le loro interazioni sono sempre trasparenti al lettore; ma il senso emerge dentro una disarticolazione perenne: non c’è un piano di scorrimento liscio in cui un messaggio viaggia da un soggetto all’altro, va e viene arricchendosi e modificandosi. Questo piano dialogico è, in DeLillo, continuamente bombardato da un fascio di eventi che prendono forma di parole e frasi le quali, piuttosto che «dialogare», si innestano le une sulle altre. Il senso non sta nella linearità, è sempre sincopato. Non si tratta di un vezzo stilistico, ma di una precisa e consapevole scelta estetica. In tutta la sua produzione DeLillo non ha fatto che esporre la scrittura alla contingenza radicale. L’intera sua prosa pare rispondere alla domanda «che ne è della scrittura se essa registra la contingenza?». Il risultato è fatto di contesti paranoici: ogni ordine – intimo o mondano – può essere sospeso in qualsiasi momento, sempre una minaccia trama nell’ombra.
La scrittura si fa frammentata, e si mette in una progressiva tensione verso l’entropia: alla ridondanza dei libri più risalenti che superavano quasi sempre le 500 pagine, fanno da contrappunto romanzi minimali, brevissimi, che paiono voler cancellare ogni parola, e far affiorare il silenzio. E però c’è silenzio e silenzio. Quello di DeLillo resta prolisso, desiderante, lanciato oltre se stesso. Non è un silenzio mistico, rovescio e condizione di possibilità del linguaggio. È invece una densità materica, attraversata da uno stormo di parole, gesti, macchiette. Già in un testo di qualche tempo fa (The Body Artist, 2001) avevamo visto una solitudine muta produrre un coagulo carnale, carico di effetti concreti, sensuali. In tal modo, quello che, letteralmente, si fa spazio è un silenzio che nulla ha a che fare con l’incomunicabilità o col solipsismo, e che invece – si può azzardare – somiglia al sonno: esperienza in cui la psiche si fa cosa, pura estensione, pezzo di mondo, presenza assoluta e compatta senza scarti né dispersione. Presenza minerale, residuo insuperabile, in alcun modo riassorbibile. Silenzio diventa sinonimo di corpo: massa che preme, resiste, pesa, un’inerzia che tuttavia agisce, si lega inestricabilmente al mondo. Proprio come attesta un’antica etimologia di «silenzio», la quale riporta proprio al legare, al «laccio», al «nodo». Il silenzio di DeLillo non è un vuoto; è bensì, come quello di John Cage, una saturazione parossistica, un esercizio di incastro nel mondo.
Il silenzio, pubblicato lo scorso anno negli USA e da poco tradotto in Italia per Einaudi (2021, traduzione di Federica Aceto), accelera questo processo di rarefazione/concentrazione; le pagine – appena 103 – si lasciano solcare da ampi spazi bianchi. In essi tutto barcolla, come recita una poesia rigorosamente incompiuta di cui si racconta in queste pagine. In esergo troviamo un aforisma di Einstein, e lo spettro di quest’ultimo aleggia continuamente nel testo che segue: è colui che ci ha lasciato in eredità il compito di pensare la relatività, l’indeterminazione, la contingenza. È sotto questa egida che DeLillo immagina un futuro molto prossimo, 2022, in cui all’improvviso tutti i dispositivi elettrici ed elettronici si spengono. Tutti gli schermi diventano specchi neri, macchine smettono di funzionare, disastri e incidenti simultanei si sommano a una congerie incalcolabile di dati perduti. Una catastrofe. O un evento. Secondo una linea prevalente della cultura moderna, quest’ultimo concetto fa tutt’uno con quello di contingenza: solo in un universo radicalmente contingente (indeterminato) è possibile il colpo evenemenziale. E quest’ultimo, a sua volta, fa tutt’uno con la meraviglia. Contingenza vuol dire che si è sempre esposti, all’inaudito, al meraviglioso.
E però c’è esposizione ed esposizione. Contingenza e contingenza. Stupore e stupore. Hannah Arendt faceva della meraviglia l’inizio del pensiero, come tanti altri. Precisava però, in questo unica, che la meraviglia non è starsene con la bocca aperta. La meraviglia si fa subito solcare da parole e azioni, è immediatamente inizio di un mondo. Contingenza, evento, meraviglia. Possono voler dire che si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, in mera e rassegnata attesa di cadere. Oppure può significare pensarsi in relazione a qualcosa che non ci parla, che non vuole dialogare con noi, ma che è lì, inumana presenza non aggirabile. Questo silenzio ostinato non è quello di un dio che si ritrae, ma, al contrario, quello di un mondo che ci si espone: non ci parla, ma ci si para continuamente davanti. Ce ne dimentichiamo, fin che una minuscola disfunzione, una catastrofe, ce lo fa riapparire davanti in tutta la sua impassibilità (ottima, in tal senso, la scelta di Einaudi di pubblicare il libro in un formato molto piccolo, molto simile alle dimensioni di un telefono o di un tablet: a rendere subito lo straniamento di una disfunzione, il venire meno di un oggetto familiare che si sottrae).
Relazionarsi a questo silenzio vuol dire parlare ancora, come non smettono di fare gli storditi personaggi di questo piccolo capolavoro. Disorientati, senza gli schermi coi quali si sono gestiti per tutta una vita, parlano, sia pure ripetendo come ventriloqui parole emesse miliardi di volte da quegli schermi ora spenti; agiscono, sebbene goffi e spaesati; organizzano, per quanto senza progetto; sopravvissuti a un incidente aereo, non rinunciano a una sveltina in ospedale. Devono fare i conti con un silenzio che non è vuoto, ma saturazione parossistica: spaventosa come un buco nero. Ma non eludibile. Perché gli uomini non sono i soggetti del mondo: non lo costruiscono, lo iniziano soltanto, vivendo esposti reciprocamente e all’impassibilità del mondo stesso. «Il mondo è tutto, l’individuo è niente». Colonna sonora di questa piccola scrittura: Stereolab, Golden atoms. Perché lo straparlare senza agire non è una palude, ma un immenso crescendo di potenza.
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