C’è vita dopo la cometa Dibiasky

A proposito di «Scrittura e movimento» di Franco Berardi Bifo

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Claire Fontaine, Vogliamo tutto, Brickbat (2015).

Scrittura e movimento (Ombre Corte, 2021), a cura di Nicolas Martino, è un libro pubblicato da Franco Berardi Bifo nel 1974. Questo piccolo saggio è una parte della tesi di laurea fatta con Luciano Anceschi all’università di Bologna ed è un commento di critica letteraria al romanzo Vogliamo tutto di Nanni Balestrini del 1971 che racconta il conflitto operaio alla Fiat nel 1969, secondo anno del lungo Sessantotto italiano. Per la storia e i contenuti del volume rinvio a questo focus su OperaViva Magazine.

Una nuova forza lavoro

Il libro di Bifo è una testimonianza dell’emersione di una nuova forza lavoro che, già a partire dai primi anni Sessanta, e poi ancora di più e sistematicamente nel decennio successivo, è stata il frutto dell’università e della scuola di massa. Era «altamente scolarizzata e allo stesso tempo proletarizzata». Da allora fa esperienza della precarietà strutturale diventata oggi un sistema apparentemente insuperabile. La «proletarizzazione del lavoro intellettuale» è stato l’esito specifico di un processo di trasformazione tecnologica della produzione manifatturiera e della crescita dell’industria dei servizi che hanno aumentato il bisogno di laureati umanistici e scientifici, tecnici, operatori, comunicatori, produttori di segni e simboli. Il tratto comune di questa forza lavoro non era il contenuto del lavoro intellettuale, dunque la conoscenza, la professione o l’opera fatta a regola d’arte, bensì «la riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre merci, quindi l’aumento del plusvalore relativo nella giornata lavorativa sociale» scrive Bifo. Parliamo di milioni di persone da allora impiegate nelle scuole o nelle università, «nelle nuove imprese post-fordiste» e «nei mille lavori di un’industria culturale sempre più diffusa» tra radio, televisione, moda, spettacolo e nella «produzione di immaginario in generale» scrive Nicolas Martino nella postfazione del volume.

Costellazione Sessantotto

La riduzione generazionale del Sessantotto è un tic ricorrente. Dire invece che anche gli studenti, e non solo loro, facevano parte di una nuova forza lavoro «intellettuale» cambia il discorso. In questo concetto è possibile considerare sia il ruolo produttivo che la capacità politica di opposizione e di creazione emersa a ondate, in contesti diversi e non assimilabili, per un periodo molto più lungo e composito rispetto all’agiografia impressionistica di un anno simbolico.

Parliamo di un processo storico, di natura contraddittoria, nel quale siamo ancora impiantati. È qui che questa «forza lavoro» ha vissuto ciò che quella operaia ha vissuto perlomeno dall’inizio della rivoluzione industriale: la violenza dell’espropriazione del plusvalore prodotto sul lavori e l’alienazione vissuta nei rapporti sociali anche fuori il luogo del lavoro (ufficio, redazione, aula, casa e non solo officina). Con una differenza: i moti degli anni Sessanta e Settanta sembrarono rompere fino a un certo punto le catene dell’alienazione in cui si riproducevano sia la classe operaia che le altre forme della soggettività che cercarono in quel ventennio di sollevarsi contro un’organizzazione capitalistica del mondo, oltre che della propria esistenza. L’insurrezione generalizzata nel «primo» «secondo» e «terzo» mondo ancora oggi brilla di luce propria a dispetto dei tentativi di diffamazione che sono iniziati già dai primi anni della controrivoluzione neoliberale.

Nel testo di Bifo questa discontinuità è descritta come un cambiamento del punto di vista: non è più possibile assumere il mondo come oggetto da contemplare, ma come un movimento in cui i soggetti sono pratici e storici e non intrattengono un rapporto gerarchico con il mondo. Questa intuizione è ricorrente nei momenti rivoluzionari, grandi e piccoli. Lo fu anche dal Sessantotto, in poi. Il nuovo punto di vista si manifestò in un’intuizione sull’uso collettivo e politico dell’«intelligenza tecnico-scientifica», come anche di quella «teorica-pratica» della lotta politica e culturale, l’egemonia per esprimerci con Gramsci. Per la prima volta, perlomeno a livello di massa, il lavoro intellettuale si socializzava dal basso, intrecciandosi con quello operaio in cui tendeva a manifestarsi un’autonomia.

Questo momento sorgivo, va ricordato, non si tradusse in una politica organizzata capace di modificare i blocchi sociali storici, ma portò comunque a significativi avanzamenti che non sono limitabili al perimetro dei gruppi extraparlamentari. Furono l’esito di movimenti generali di trasformazione. Vorrei qui solo ricordare le lotte e gli impegni colossali che portarono all’avvio in Italia del sistema sanitario pubblico nazionale nel 1978. Dietro questa importante conquista, e a due anni dall’inizio della pandemia del Covid sappiamo quanto importante sia stata, si riconosce l’intelligenza politica della forza lavoro dei medici, degli infermieri, dei lavoratori della sanità e di tutti coloro che proprio in quegli anni lottarono per arrivare alla creazione di un sistema simile.

Un solo nome vale per dare il senso del processo: Giulio Maccacaro. Medico, docente di biometria, nel 1973 dirige la più antica rivista scientifica italiana, Sapere, e raccoglie attorno a sé sia studiosi di varie discipline, scientifiche e umanistiche, sia tecnici ed operai di fabbrica particolarmente attivi sul piano sindacale. Insieme crearono una nuova medicina del lavoro, impostata sui bisogni del paziente (straordinaria la sua «Carta dei diritti del bambino») e soprattutto di un sistema sanitario che poggia su pratiche di igiene pubblica e di medicina territoriale. Nel 1976 ha fondato la rivista Epidemiologia e prevenzione (www.epiprev.it) «dove sono enunciati in maniera chiarissima tutti i principi che avrebbero dovuto guidare le istituzioni e le autorità sanitarie per far fronte alla pandemia da Covid 19» ha raccontato Sergio Bologna in questa intervista. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di nuova forza lavoro «intellettuale» in quegli anni.

Lavoro intellettuale/lavoro operaio

Uno dei passaggi più interessanti di Scrittura e movimento è la descrizione della differenza tra un lavoro intellettuale e uno operaio. La differenza in questione non è di natura ontologica, come pretende il pensiero genericamente idealistico e classista che ispira ancora oggi una parte significativa delle analisi sociali sul lavoro. La differenza è di tipo soggettivo. Vediamola all’opera, in primo luogo, nella fabbrica. Il lavoro operaio ‒ parliamo della fabbrica fordista (siamo nel 1974) ‒ è intercambiabile e impedisce all’operaio di identificarsi con la propria attività ripetitiva e alienata. È la differenza dell’operaio massa rispetto a quello professionale: quest’ultimo coltiva il suo orgoglio di mestiere e si identifica con il lavoro e lo status che comporta. L’operaio massa si rende conto, a sue spese, di essere un ingranaggio del sistema, carne da macello. La sua autonomia cresce man mano che prende le distanze dal suo essere mera capacità di lavoro a disposizione della macchina e diventa consapevole del potere di forza lavoro che controlla la produzione e impone i suoi ritmi di vita al mostro.

Il processo di costituzione della forza lavoro in classe era, e in fondo tale resta oggi, sconosciuto a quella forza lavoro di massa nata dalla trasformazione «postfordista» della produzione industriale e la crescita della nuova società dei servizi ad alto tasso di precarietà. Non esisteva una coscienza della «proletarizzazione» in corso, ancora oggi confusa con una generica «precarizzazione» limitata al possesso o all’assenza di un contratto di lavoro «fisso». E latitava una comprensione del meccanismo soggettivo che governa il lavoro intellettuale in quanto tale: ovvero la potente illusione di identificarsi con la propria attività, oggetto di desiderio e proiezione del Sé in un mondo di valori e principi tanto morali quanti estetici.

Chi si trova a svolgere un’attività di questo tipo (senza necessariamente essere un «autore») vive una contraddizione violentissima: da un lato, ritiene che il suo lavoro intellettuale sia scollegato dalle leggi di mercato perché esprimerebbe l’autentica intenzione, l’originale contenuto dell’Io, la splendida autenticità di un soggetto pieno della sua Arte, Cultura, Filosofia o Scienza; dall’altro lato è bastonato o è frustrato perché il lavoro culturale, nel pubblico e nel privato, è governato attraverso il mercato.

L’autogestione del lavoro e la sua personalizzazione restano illusioni in un mondo che non ha nemmeno gli strumenti culturali per comprendere e reagire alla mercificazione, né le istituzioni da usare per imporre un salario lì dove è imposto il lavoro gratuito o dove cresce il lavoro non pagato tra chi comunque svolge in attività regolamentata ma precaria. L’impoverimento e l’umiliazione, propri della «proletarizzazione», non sono sufficienti per scuotere questo soggetto dal suo desiderio di identificazione con l’opera (che in realtà è un lavoro mercificato) e spingerlo a abbandonare l’illusione del suo individualismo artigianale. Persiste l’idea di essere unico, basata sul desiderio di un’identificazione impossibile nel lavoro come dovrebbe essere, e non nella realtà in divenire.

L’ideologia (letteraria) dell’imprenditore di se stesso

A garanzia della riproduzione dell’alienazione di chi ritiene di possedere un «capitale simbolico» solo per sé c’è anche quella che Bifo chiama «ideologia letteraria», cioè la credenza esclusiva e escludente che assegna all’individuo «creatore» la convinzione di svolgere una missione politica o umana attraverso la letteratura. Il discorso è presente ancora oggi tra gli scrittori, e non solo italiani, che assegnano a questa idea di letteratura un valore ontologicamente superiore, anche di natura conoscitiva, rispetto a qualsiasi altra forma di espressione (almeno scritta). Più che altro, così facendo, confondono il proprio valore di mercato con il contenuto della loro letteratura.

Tali angustie erano note nel 1974, al momento della pubblicazione del libro, e hanno generato una raffinata e potente critica dell’idealismo letterario, e in generale del lavoro intellettuale. Alberto Asor Rosa scrisse Scrittori e popolo, Franco Fortini Verifica dei poteri. E poi via via Romano Luperini da Marxismo e letteratura in poi, oppure Arcangelo Leone De Castris con Estetica e politica, per esempio. Libri e interpreti tra loro diversi che hanno variamente intrecciato la teoria critica con la critica marxiana e quella gramsciana contro il crocianesimo e le sue idee su intellettuali e masse. Queste critiche hanno colto la natura reattiva dell’egemonia idealistica, organica all’organizzazione capitalistica della produzione culturale nel (post)fordismo.

Tuttavia la crescita della nuova forza lavoro ha rafforzato la predominante ricerca di distinzione, eccezionalità e separatezza dalle masse definite «lisce palle di biliardo» da Benedetto Croce. Così il filosofo si riferiva alle teste dei contadini abruzzesi che lavoravano nei suoi possedimenti. Il classismo si basa sempre sul razzismo. Ciò non toglie che l’obiettivo di quella antica critica non possa essere riattualizzato oggi, in nuovi termini. Del resto è proprio in questa direzione che si è diretta quella contro la «meritocrazia» e l’imperativo quantofrenico della valutazione che pretende di misurare tutto nella ricerca così come fanno gli algoritmi sui social network.

Gramsci e l’operaismo

In Scrittura e movimento non c’è un confronto con Gramsci e la sua critica degli intellettuali. Un confronto sarebbe stato utile per approfondire il ragionamento, anche dal punto di vista storico. In questa assenza si ritrova il pregiudizio dell’operaismo italiano rispetto all’autore dei Quaderni del carcere. Mi sembra sia uno degli effetti coevi della sua ricezione togliattiana e i vari usi opportunistici e riformisti fatti in seguito ai danni di questo grande filosofo e politico. La crescente ricezione successiva della sua opera ha cambiato completamente l’interpretazione. Ciò è avvenuto su scala globale contemporaneamente alla diffusione dell’operaismo. Ma i due percorsi, pur accomunati da un crescente interesse politico per il marxismo critico, non sono stati quasi mai declinati insieme. Sono diverse le ragioni di questo mancato incontro, e purtroppo non è questo il luogo per spiegarle. Tuttavia osservo la contiguità tra la critica «operaista» del lavoro intellettuale in direzione del marxiano «Intelletto generale» svolta da Bifo con la critica degli intellettuali e la loro storia fatta da Gramsci in direzione della costruzione di una «(contro)egemonia» rispetto alla società (neo)liberale e la sua «rivoluzione passiva». Concetti evidentemente diversi ma che potrebbero intrecciarsi in una prassi politica differenziata e non solo in una filosofia politica o in una politica culturale.

È nella prospettiva di una ricomposizione creativa di paradigmi critici diversi, oltre che di azione politica comune, che interpreto oggi la genealogia proposta da Nicolas Martino nella postfazione del volume. Qui si ripropone il collegamento tra la teoria della forza lavoro con le riflessioni sul lavoro intellettuale del tedesco Hans-Jurgen Krahl, altro esponente del movimento del Sessantotto, e quelle di Alfred Sohn-Rethel, un altro teorico della Scuola di Francoforte. Il percorso è stato articolato anche in un recente volume, L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo (ombre corte, 2021), breve antologia di scritti di Krahl curata dallo stesso Martino con Francesco Raparelli.

Non è solo per un interesse filologico che faccio queste osservazioni. Nell’ambito del pensiero critico contemporaneo, in particolare quello del neoliberalismo, questo approccio permetterebbe di superare i limiti di letture che collegano il lavoro alla soggettività, ma ignorano sia il rapporto con la forza lavoro (che non è il lavoro, ma la potenza che il capitale valorizza e non può assoggettare del tutto), sia quello con la classe (quella che c’è e quella politicamente in divenire o da costruire).

Un’altra idea di movimento

Il movimento di cui si parla nel libro di Bifo non è solo quello emerso negli anni Settanta in cui anche il suo autore si muoveva con Radio Alice e la rivista A/Traverso. Alle rappresentazioni nostalgiche dell’età dell’oro che mai è stata tale preferiamo un’altra idea di movimento, quella che non proietta la potenza in un altrove senza luogo, bensì la riconosce come una possibilità reale alla forza lavoro che vive costretta e alienata nel presente. La rottura dell’imperativo retrospettivo che domina la rappresentazione del tempo storico in cui viviamo potrebbe permettere di riscoprire ciò che al tempo in cui Bifo scriveva il suo libro sembrava più accessibile: la potenza passa dalla prassi e la prassi è una declinazione della forza lavoro dentro e contro il lavoro alienato e la sua società.

In questo modo è stato concepito un movimento capace di rompere codici e linguaggi stabiliti dalla società dello sfruttamento e inaugurare pensieri, comportamenti e associazioni impensabili e comunque sperimentabili. La libertà nella scrittura (come in ogni espressione sia artistica che individuale e collettiva) sarebbe il prodotto di questo movimento e la manifestazione di una potenza che si attualizzava senza esaurire la virtualità che l’avrebbe portata a esprimersi diversamente e in maniera più avanzata.

Ecco il nodo filosofico di questo marxismo e della sua estetica: mantenere aperto il campo dei possibili tra le cose e le persone, le istituzioni e l’immaginazione, dando così agio alla possibilità di usare la potenza incarnata nella personalità vivente della forza lavoro non ridotta a capacità produttiva ma espressione di una facoltà generale e cooperativa. A questo esito, chiamato comunismo, possono tendere teorie diverse che rispondono alla medesima esigenza: non ipostatizzare il movimento trasformandolo in un soggetto, ma concepire anche i soggetti all’interno dei movimenti storici.

È quello che in fondo fece Balestrini scrivendo, cioè componendo, quel libro-partitura che è Vogliamo tutto sulla rivolta dell’operaio-massa, oppure Gli invisibili in cui fece emergere una forma politica applicando la tecnica del cut-up e del montaggio al libero discorso indiretto di una soggettività dell’operaio sociale. Più in generale, volendo cogliere il nesso tra l’estetica politica dell’opera letteraria come composizione, e non solo come prodotto «autoriale», questo è il senso profondo che oggi guida l’idea dell’espressione in generale come attualizzazione delle potenze disperse nel presente. Non è sufficiente, ma è già abbastanza per costruire «un sensibile comune» tra «forme di vita» oggi messe in concorrenza nella società della performance e del risentimento.

Un invito ai «lavoratori della cultura»

L’esigenza che ha portato a ripubblicare il libro di Bifo è un appello «alle nuove generazioni di lavoratori della cultura» a ritrovare in queste pagine «l’origine della propria condizione», catturati come sono «nel dispositivo violento e distruttivo nel realismo capitalista», ovvero nella «competizione, nell’autopromozione, nella (auto)valutazione continue», spiega Martino. Il nostro problema comune è come realizzare la trasmutazione storica della potenza oggi concentrata nella riproduzione del capitalista umano, cioè il prodotto del rovesciamento neoliberale della forza lavoro nel suo opposto del capitale umano.

Questa imponente operazione antropologica e politica non si rovescia con la bacchetta magica, né con una conversione morale o religiosa. Cioè non dipende dall’individuo e basta. È l’esito di un processo sociale e di produzione di enorme portata, paragonabile a quello iniziato nel Sessantotto, intendendolo come concetto politico e non come data. Fu quello un tentativo che però ha mobilitato una temibile reazione che ha saccheggiato le energie, le pratiche, le culture. Dura ancora oggi nella forma arcigna definita da Etienne Balibar «contro-rivoluzione preventiva», cioè una politica che cerca di anticipare la rivoluzione simulando i suoi linguaggi o colonizzando le mentalità e i comportamenti di coloro che si oppongono e rischiano di riprodurre ciò che li aliena.

Pur in presenza di ampi e determinati movimenti di opposizione non siamo ancora riusciti a insidiare, in maniera almeno paragonabile al Sessantotto, il dispositivo che separa, avvelena e ricostruisce la soggettività secondo gli schemi flessibili e plurali di quell’habitus che chiamo «capitalista umano». Avere sperimentato, anche in maniera contraddittoria, un tentativo di superare un modello di individuazione precedente, quello del salariato o del «cittadino consumatore», ha portato a una risposta devastante. Questo esito influisce sulla possibilità di intraprendere questi o altri tentativi di rottura e dissuade dal provare ancora.

In questa ricostruzione cerco di evitare sia l’idealizzazione sia un eccesso di realismo nell’interpretazione dei movimenti tra gli anni Sessanta e Settanta. Non stiamo parlando di un universo compiuto ma al contrario contraddittorio. Le difficoltà politiche erano enormi. Per esempio Roberto Finelli ha evidenziato come quei movimenti non riuscirono a coniugare la libertà con l’uguaglianza, la teoria con la prassi, componendo l’idea del divenire rivoluzionario con quelle di rivoluzione politica e sociale. E tuttavia allora ci fu un’intuizione sulla classe a venire, frutto del «pensiero come processo collettivo di modificazione» (così si esprime Bifo) e della prassi come creazione di nuove istituzioni e di posizioni. Da allora questa intuizione non è ancora scomparsa dal nostro orizzonte.

Oltre l’immaginario «Cometa-Dibiasky»

Qui stiamo parlando di un problema politico che andrebbe affrontato, teoricamente e politicamente, e non evitato attribuendo a categorie elusive, teologiche e retrospettive di «apocalisse» o di «fine del mondo» una capacità normopoietica che hanno dimostrato di non avere. Colpisce in questo dibattito, al quale Bifo partecipa in maniera a suo modo originale, come si continui a affidare la speranza di generare una trasformazione a categorie fondamentalmente estetiche, basate su una filosofia della storia più che sulla loro relazione costitutiva con la prassi collettiva rivendicata in Scrittura e movimento.

Il problema della pedagogia della catastrofe è discusso in maniera critica nell’ecologia politica in questi termini: il terrore indotto dalla denuncia del surriscaldamento climatico dovrebbe provocare una reazione sociale diffusa. Tuttavia l’invito all’azione si infrange contro l’impotenza nullificante dell’annuncio dell’estinzione. In questo caso il rischio è confondere la rappresentazione con l’azione e di bloccare tanto l’una quanto l’altra. L’obiettivo della rappresentazione non dovrebbe essere reincantare la coscienza dello spettatore della catastrofe, tentativo effimero per la classe media neoliberale che consuma tutto, compreso le parodie sulla cometa Dibiasky nel film diventato celebre: Don’t look up.

Invece di evocare la catastrofe perché invece non raccontare la liberazione, passando così dalla logica retrospettiva a quella prospettica? Anche dal punto di vista poetico, oltre che politico e storico, questa impostazione potrebbe garantire oggi una straordinaria efficacia, anche in termini compositivi, oltre che politici. Del resto Ernesto De Martino invitava a distinguere la fine di un mondo dalla fine del mondo. Una differenza sulla quale si riflette molto poco oggi, dato che si è perso di vista il fatto che l’apocalisse è una forma culturale della politica e non un’ontologia della storia.

Proseguendo il ragionamento di De Martino un lavoro sulla fine di questo mondo capitalista potrebbe liberare anche una potenza nel pensiero e nell’azione che non inizia, né termina, nella rappresentazione di una fine del mondo, né nel compiaciuto o all’inverso disperante nichilismo, tonalità fondamentale dell’individuo neoliberale di cui anche i «lavoratori della cultura» sembrano essere perlopiù ostaggi. È a questa potenza concreta, cioè già agente sebbene dirottata nella manutenzione di una vita tossica, che fa appello Scrittura e movimento a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione.

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