Cent’anni!

L’arte ai tempi della rivolta dell’umanità contro la morte

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Gian Maria Tosatti, La teoria della relatività (2016) - Installation view, Zoo Zone Art Forum, Roma 2016.

Turpe senex miles, turpe senilis amor
Ovidio, Amores, I, IX, 4

Non mi perdonerò mai per aver dato retta al mio editor e aver tagliato, anni fa, un breve saggio che scrissi, senza averne salvato la versione originale. Il risultato fu un testo dal respiro sincopato. Inutilizzabile, illeggibile, a dispetto della limpidezza di pensiero che lo aveva ispirato e che la forma aveva seppellito. In esso parlavo di un cambio di morale tra Secondo e Terzo Millennio. Della fine della morale cristiana, che aveva fatto da paradigma alla storia moderna, e dell’imporsi di una nuova morale contemporanea che in luogo della verticalità (cielo-uomo-inferno), prediligeva una orizzontalità rispecchiantesi nel concetto di durata. Tra le diverse manifestazioni attraverso cui cercavo di esemplificare il pensiero, ricordo che mi riferivo alle teche di medicinali che Damien Hirst tra anni Novanta e i primi Duemila andava costruendo come una sorta di inno alla pretesa immortalità d’una umanità che non voleva più morire. Il mondo, scrivevo allora, non è più di chi raggiunge gli alti risultati, ma di chi riesce a durare di più. L’istruzione democratica che ci ha tirati fuori dalla barbarie popolare, il dominio della tecnica e della tecnologia, l’esercizio diffuso della politica ci hanno fatto prendere gusto alla vita, ci hanno fatto venire voglia di prolungarla il più possibile. Forse è anche per questo che Dio è davvero morto. Il suo regno dell’aldilà ha cominciato a diventare per noi non più la casa a cui tornare, ma una minaccia armata che assedia la nostra terra, proprio come quella che descrive R.R. Martin nei suoi romanzi che hanno poi ispirato la serie televisiva di Game of Thrones.

Negli specchi che talvolta costituivano gli sfondi delle teche di Hirst vedevo riflettersi tutta la società che veniva investita dal più profondo mutamento antropologico degli ultimi mille anni. La fantascienza novecentesca pensava ci saremmo trasformati in cyborg. È andata peggio. Ci siamo trasformati in mostri. Le manifestazioni più visibili dei lifting facciali o dei pietosi sessantenni ossessionati dal fitness rigorosamente in costume sul proprio profilo Instagram sono solo gli elementi farseschi di questa tragedia. Perché tutto si fa serio nel momento in cui ci accorgiamo cosa significhi davvero non voler invecchiare. Questa volontà radicale di una nuova specie umana è una rivolta contro la natura. E questo genere di insurrezioni di solito finiscono solo in un modo.

Oggi posso dire tutto questo con una certa consapevolezza, datami, forse, dal fatto che appartengo ad una generazione che ha già perduto il suo appuntamento per lasciare un’impronta nella società. Affinché infatti, qualcosa resti impresso, serve una energia che solo la gioventù può dare. Lo spostare l’asticella della gioventù sociale, come sta accadendo ormai da anni, può essere solo due cose, o una truffa dei vecchi per tenersi il potere un po’ più a lungo o un giro di carte truccato per provare a recuperare quel che s’è perso durante la partita regolare. Ma è un barare che non può portare nulla di positivo. A dispetto, infatti, del nostro giovanilismo, delle facce ingessate, delle tinte per i capelli, della volontà di ferro, i nostri tentativi di essere fondatori, di incidere, sono destinati al fallimento, perché ci manca il requisito principale, la freschezza delle nostre menti. Non l’intelligenza, si badi bene. La freschezza.

In un altro articolo di alcuni mesi fa, commentavo positivamente la débacle del grande e milionario progetto di Marina Abramovic relativo alla creazione di un grande istituto che portasse il suo nome. Definivo la sua resa come la sua miglior performance degli ultimi anni. D’altra parte quale altra verità può darci una donna di quasi ottant’anni se non quella di fallire nel proprio titanismo? D’altra parte quello che per lei avrebbe dovuto essere un centro di produzione culturale e di formazione, ai miei occhi già di quarantenne, aveva la lancinante evidenza di un monumento funebre. Nella terza età avanzata, d’altra parte, quando si prova a costruire una casa, c’è il rischio che, involontariamente, essa finisca per somigliare ad una cappella cimiteriale. Chiedo perdono per la totale assenza di riguardo nei confronti di una grandissima artista, ma perché mentire? I grandi istituti, la Bauhaus, il Piccolo Teatro di Milano, i luoghi che hanno «significato davvero qualcosa» nel Novecento li hanno costruiti persone di trent’anni, persone la cui vita era ancora tutta rivolta al futuro. Non è, infatti, con la saggezza che si costruisce il mondo, ma con l’incoscienza e con la velocità.

Penso a tutto questo mentre apro un articolo inviatomi dal mio amico Stefano Chiodi, che portava in apertura un’immagine del mitologico progetto Arte Povera + Azioni povere realizzato nel 1968 negli Arsenali di Amalfi. Il testo che segue parla di Germano Celant che, nella foto, appare al centro di una piccola assemblea di persone a me direttamente o indirettamente legate, come Achille Bonito Oliva e Marcello Rumma. Ho conosciuto Celant, in un paio di occasioni quando vivevo a New York. Devo riconoscergli una intelligenza e una curiosità che superava di gran lunga quella della maggior parte dei miei coetanei che ambivano a prendere il suo posto. Ma non ho mai fatto il tifo per Celant e, anzi, con dolore ho dovuto constatare come solo per via di una morte naturale (pur sopraggiunta per la pandemia in corso) noi si sia, finalmente, riusciti ad ucciderlo come padre. Ma temo che proprio per questo la cosa non avrà effetto. Esattamente come la morte di Hitler, arrivata non sulla forca di Norimberga, ma da un sordido colpo di pistola autoinflitto nel suo bunker, non ha purificato l’Europa col suo sangue, quella di Celant non bagnerà le radici di una nuova arte italiana. I padri, buoni o cattivi che siano, si devono uccidere, sempre. È una legge di natura, della natura umana. Ed è in osservanza di essa che loro sono disposti a farsi uccidere (certo non senza lottare un po’). Il problema è che questa nuova umanità in rivolta contro la natura ha da tempo deciso di infrangere questa legge. Ad ogni livello.

Così, nel nostro mondo artistico, Germano Celant, col suo giubbotto di pelle e i suoi capelli lunghi ancora a ottant’anni era il più tonante simbolo di un padre che ancora imperava su una prole disarmata. Accanto a lui figura una intera generazione di padri ancora in cattedra, ancora più vivi dei loro discendenti e determinati ad essere più presenti di loro in qualunque istituzione culturale, anche a dispetto della morte fisica. Tra loro Mario Merz e Marisa Merz per cui ancora abbiamo cose da dover scoprire, Jannis Kounellis che sta iniziando ora la sua cavalcata americana, Emilio Prini, la cui mostra, l’anno scorso a Torino, è stata percepita dai più come quella di un artista di vent’anni. Si badi bene, io non odio tutti questi artisti. E a quarant’anni ucciderli ormai non è nemmeno più compito mio, quindi posso, senza rimorsi e senza riserve, amarli e congiungermi con loro tra i passati (per farlo coi trapassati aspetterei ancora un poco) non sperando nemmeno di esserne all’altezza. Però, con la stessa onestà con cui devo strapparmi la maschera del giovane, devo riconoscere nei miei maestri il fatto che da molti anni essi costituiscano più un impaccio che un valore. Devo riconoscere che il potere di Celant è riuscito a congelare l’arte italiana per almeno trent’anni (se non quaranta). L’arte povera, infatti, è un fenomeno che possiamo riconoscere vivo negli anni Settanta e ancora negli Ottanta, ma che già nei Novanta cominciava decisamente a declinare. Tre decadi sono passate da allora e sinceramente, a livello museale, di mercato e a livello interazionale nient’altro che l’Arte Povera ha avuto ancora attenzione. L’amico Pier Paolo Calzolari, ha ricominciato a dipingere come un ragazzino (tra l’altro quadri molto belli), in questa zona franca del tempo che il santone Celant aveva imposto col suo scettro, soffocando tutto il resto. Per cui sì, li amo, non posso fare a meno di amarli. Sono i miei padri. Ma fino adesso li ho odiati. In tutti questi anni, profondamente. Così come ognuno di noi, quando era il momento giusto, ha odiato il suo padre naturale.

E poi mi trovo davanti questa foto. Li guardo lì seduti e penso: «Come sono belli!». Ma appunto, erano belli perché allora erano giovani. Somigliavano a noi, quando eravamo come loro, ma sono stati migliori di noi. Somigliavano ad alcuni ventenni, trentenni di oggi. E già spero che anche loro siano migliori di noi. Che siano almeno come loro. Ma che abbiano la forza di farsi uccidere al momento giusto. Perché la morte dei padri e degli eroi è un’onta se li raggiunge nel proprio letto. (Sarà per questo che invece per Gino De Dominicis non ho provato altro che simpatia. Era uno che conosceva l’uomo troppo a fondo per ribellarsi alle sue leggi e in assenza di figli bravi abbastanza per piantargli un’asta appuntita nel cuore, è morto da solo compiendo un rito magico).

Riflettendo su questo mi sono messo a leggere un articolo di Hal Foster, pubblicato recentemente su Artnet. Parla di molte cose, di Obrist, per lo più, che ogni giorno sembra piegarsi maggiormente sotto il peso del paradosso dell’età. Più invecchia e più sembra un bambino. La stempiatura senile finisce per somigliare alla scarsa capigliatura neonatale. Le fotografie rituali e ripetute su Instagram in cui appare assieme a Klaus Biesenbach con in mano due coni gelato colorati sembrano apparizioni spettrali come quelli delle gemelline di Shining che cantilenano «vieni a giocare con noi», in una eterna infanzia. Sul volto e sul corpo di Obrist, più giovane di una generazione rispetto a Celant e compagni, vedo già avanzare i segni della maledizione, della condanna ad una gioventù senza scampo. E così per noi, ancora tutti giovani artisti, a quarant’anni. Una vera vergogna per chi ha abbastanza coraggio d’ammetterlo.

Ma nell’articolo di Foster quel che mi sembrava interessante era la domanda di partenza, ovvero, a che servono oggi i curatori se la nostra intera vita è curata da algoritmi, se per ogni cosa di cui abbiamo bisogno, Google o Amazon ha già preparato una rassegna di soluzioni ordinate per ferrei criteri. Il critico americano, allievo di Rosalind Krauss, si domandava se anche per la cura dell’arte non si possano raggiungere risultati migliori attraverso gli algoritmi che ormai portano ordine in ogni orizzonte delle nostre attività. Sinceramente il punto di Foster mi pare condivisibile, soprattutto se lo andiamo a confrontare coi risultati che il campo della curatela sta raggiungendo in questi anni. Sembra quasi che i curators stiano arrancando per tenere il passo degli ipotetici assistenti museali artificiali, probabilmente capaci di montare da soli mostre più ordinate, colte e scientificamente coerenti. Secondo Foster, la ragione è, in parte, da rintracciare nella separazione, occorsa in un certo momento della fine del Novecento, tra la carriera accademico-scientifica e quella istituzional-allestitiva. Uno «scisma» come dice lui, che è valido solo per l’arte contemporanea, forse immaginando che in discipline o comparti artistici che hanno una tradizione consolidata, sia più difficile trovare il coraggio di mettere alla prova la propria mediocrità. D’altra parte, in una recente e lucidissima intervista apparsa su Exibart, Sergio Lombardo conviene che solo in funzione di un impianto teorico si possa ambire ad essere curatori, altrimenti – ma questa è la conclusione a cui giungo io in quanto lettore e che si ricongiunge alle tesi di Foster-, c’è assai poca differenza tra il curator e l’art handler, ossia l’allestitore con la tutina blu e il martello appeso alla cintura.

Ma penso che il ragionamento, alla fine, così com’è presentato da Foster sia mal posto. Conserva, invece, un valore la domanda di partenza. Dov’è che il curatore umano può ancora fare la differenza rispetto a quello digitale? La risposta a me, appare semplice: è nell’invenzione, ossia nella capacità di trovare non l’ordine giusto, ma il modo in cui oggi un ordine possa aver senso. Ma per conoscere l’oggi, bisogna essere vivi oggi. Bisogna avere nel sangue la frenesia della gioventù, l’erotismo degli ormoni eccitati (e non quello della lascivia mentale), l’istinto che si riflette nella forma che prende il pensiero. Per conoscere l’oggi bisogna essere nati ieri, non essere pezzi di storia.

Credo che l’arte sia in una fase di crisi molto profonda, una crisi che è esoterica, certamente, ma anche essoterica, ossia investe il rapporto che sviluppa col resto del mondo. I giorni della pandemia ci hanno dimostrato come non un solo presunto intellettuale tra quelli, intervistati, cercati, scovati nelle loro case, provenisse dal comparto delle arti visive. Neppure tra quelli compianti a seguito della strage abbiamo contato un granché. Finanche il nostro padre padrone Germano Celant non ha guadagnato che qualche trafiletto sperso nel bagno d’inchiostro dei giornali e nessun rilievo sui più popolari TG.

Questa crisi è figlia di uno scisma ben più grave di quello presentato da Foster, è lo scisma tra il linguaggio di chi vive sulla terra oggi e quello degli operatori della cultura. Tra questi ultimi, per una volta, devo escludere gli artisti. Le loro opere, infatti, sembrano ancora, talvolta, capaci di intessere un dialogo forte con il pubblico, ma sono i musei, le gallerie, le fondazioni ad essere vecchi, profondamente vecchi, irrimediabilmente fuori tempo. E a capo di queste strutture ci sono loro: i curatori. La partita è loro. Ed è una partita globale. La soluzione, però, non è semplice. Non basta certo un cambio generazionale. Non sono ingenuo al punto di credere che il sistema culturale di un paese come l’Italia possa trarre il minimo beneficio dalla sostituzione dei direttori cinquanta/sessantenni di istituzioni museali o di fondazioni private con omologhi e più vivaci trentenni il cui solo valore sta nell’anagrafica. Quel che però so è che la rivoluzione del linguaggio che potrà rimettere il sistema dell’arte sulla stessa linea d’onda del mondo non arriverà da Obrist, da Marina Abramovic, da Biesenbach e dai loro coetanei, non arriverà dai trapassati Celant, Merz, Kounellis (quindi, per favore, basta fare mostre sull’Arte Povera per sostenere l’arte italiana!). Né tantomeno arriverà da noi che abbiamo oggi quarant’anni. Quella rivoluzione arriverà con naturalezza da pochi giovanissimi, come pochi erano i ragazzi dell’Arte Povera nel ’68 e come pochi sono sempre stati gli artefici delle rivoluzioni culturali. E sarà per loro naturale perché adatteranno le forme della cultura alle forme del loro pensiero, della loro vita, una cosa che nessun algoritmo può possedere. I curatori – ma solo certi curatori – ci servono ancora, perché il sistema dell’arte non va costantemente ordinato, ma costantemente ripensato, costantemente adattato alla vita. Abbiamo allora bisogno di menti altissime che siano però ancora piene di vita. Menti disordinate e in cerca di un metodo che non conoscono ma che costruiscono respirando. Abbiamo bisogno di loro perché ricostruiscano le strade interrotte tra l’arte e il mondo, lasciando che poi altri vengano a distruggere quel che hanno fatto per poterlo rifare d’accapo; ancora ed ancora, sempre diverso, sempre nuovo, sempre realmente (non solo nominalmente) contemporaneo.

E così facendo ripristineremo l’ordine naturale secondo cui, ad un certo punto, capiremo che è il nostro tempo di morire. Il tempo di lasciarci uccidere. Così dovrebbe fare tutta l’umanità, ma potremmo cominciare almeno noi, noi artisti, noi per primi, noi che dovremmo essere l’avanguardia del pensiero e, invece, stiamo da tempo pensando più lentamente degli altri. E scopriremo che la morte non è affatto la fine. Tutt’altro. È una trasformazione che rovescia la maledizione di Edipo. I nostri pensieri, le nostre opere, una volta dismesse dai nostri corpi vecchi e inadeguati, saranno indossate come per le armi degli eroi greci o dei samurai, da altri che li piegheranno a nuove pratiche, a nuovi modi di combattere, ma facendolo li perpetueranno nella vita. Le nostre opere, infatti, tra vent’anni, fra trenta, saranno mute se non troveremo il modo di staccarle dalla Pompei dei musei odierni per inserirle in dispositivi linguistici che assomiglino all’umanità che verrà. Ma non possiamo essere noi, sempre noi a tenere il gioco in mano. Noi che già non capiamo più l’umanità di oggi. Noi che, come l’Empedocle di Hölderlin non sentiamo già più la voce dello Zeitgeist. E che abbiamo già iniziato il viaggio che ci porterà sulla bocca dell’Etna per tornare ad essere materia informe tra le mani del nostro dio, Efesto.

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