Contro la supremazia acustica

Una mostra di Diana Anselmo alla Galleria Eugenia Delfini

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Diana Anselmo, «deafnotdead», Galleria Eugenia Delfini - Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini.

Lo scorso 11 dicembre ha inaugurato, alla Galleria Eugenia Delfini (via Giulia 96, Roma), «deafnotdead», la mostra personale di Diana Anselmo, artista visivo, performer e attivista Sordo. Dopo il successo della mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, Anselmo prosegue la sua indagine su episodi cruciali della storia della comunità Sorda attraverso materiali d’archivio, fotografie e disegni in Lingua dei Segni (LIS). Le opere mettono in luce il desiderio audista e fonocentrico che, a partire dalla fine dell’Ottocento, si è strutturato in modo sistemico, alimentando la chimera della guarigione» della Sordità, ancora oggi alla base di discriminazione ed esclusione sociale della comunità Sorda. Qui pubblichiamo il testo critico integrale della mostra che rimarrà aperta fino al 14 febbraio 2025.

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La ricerca artistica di Diana Anselmo si rivela in una traiettoria che lascia intra-agire performatività del corpo e della lingua, scavo storico-archivistico e immaginazione visuale in un operare estetico-politico. È un percorso che mette in tensione i livelli dissimulati ed eclatanti della «supremazia acustica», per dirla con parole del poeta sordo Raymond Antrobus.

Al cuore della sua ricerca artistica, smerigliata in diversi ambiti convergenti, c’è l’affondo e il rilancio nell’estetico delle dinamiche di sorveglianza, dei sistemi audisti di discriminazione, delle tecniche di medicalizzazione che hanno alimentato forme di controllo sul corpo sordo. Le pieghe di quella storia silenziata ricompaiono nei cortocircuiti visivi e concettuali delle sue opere, sbalzati nel presente di un’azione che è artistica e politica insieme. In tutti gli ambiti in cui si muove – performing arts, arti visive, attivismo –, Anselmo radica una postura gioiosa capace di irrorare energie critiche che aprono a letture inesplorate della realtà.

Per comprendere appieno il corpus delle opere nella mostra deafnotdead*, è essenziale guardare al periodo storico a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, momento in cui le persone Sorde subiscono gli effetti della fobia positivista per l’esplorazione strumentale della «macchina umana», orientata al suo controllo biopolitico. È l’affermarsi di strategie che promuovono la «rieducazione» dei Sordi, tutti categorizzati di per sé come muti e quindi incapaci e deficitari. Punto cardine di quella storia è il verdetto oralista del Congresso di Milano del 1880 che regolò, a livello europeo, l’educazione delle persone sorde, stabilendo la supremazia della lingua orale e affermando in tutta Europa l’abolizione delle Lingue dei Segni, costrette dal Congresso in poi, a tramandarsi in segreto. L’abrogazione nelle istituzioni scolastiche della didattica in Lingua dei Segni decreta una svolta regressiva che mira a normalizzazione l’atto del parlare, considerato l’unico asse moralmente accettabile, per il progresso. Lo stigma verso la gestualità del corpo segnante si accompagna alla patologizzazione del mutismo, bollato come segno di «debolezza mentale», una «difettività» da correggere affinché il sordo possa integrarsi, scomparendo, nel mondo udente.

Diana Anselmo, «deafnotdead», Galleria Eugenia Delfini – Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini.

Grazie a una fase di studio all’Institut National de Jeunes Sourds di Parigi (INJS), Diana Anselmo ci fa entrare, con le opere in mostra, nel Laboratorio della Parola e nella Clinica dell’udito del fonetista Hector-Victor Marichelle (1862–1929), che con irriducibile ansia oralista sperimenta strumenti per la correzione degli organi dell’udito e lo sviluppo della fonazione nellə giovanə sordə, alimentando il sogno del «sordo parlante». Il cosiddetto metodo «orale puro» costringe le persone sorde a imparare a parlare, con sistemi che mirano all’affermazione del metodo articolatorio, all’esercizio fonetico, e quindi alla lettura delle labbra. In quel quadro in cui l’ordine del discorso coincide con il discorso dell’ordine, il corpo della persona sorda – per definizione il suo strumento incarnato di comunicazione – viene sottoposto a tecniche intrusive. Negli istituti creati per i bambini «sordomuti», l’educazione alla parola viene presentata come un elemento di igiene.

Trattamenti idroterapici collettivi e l’attività sportiva sono prescritti come mezzi al servizio dello sviluppo morale e della formazione della voce. Le mani di docenti e medici sono intruse nella bocca con lo scopo di aprire, plasmare, manipolare il palato, la lingua, l’arcata dentale. Una penetrazione che si spinge fino a sperimentazioni estreme, come la perforazione del cranio per creare varchi al suono. Anselmo interviene sulle fotografie conservate all’INJS, documenti che portano i segni testimoniali dell’impeto fisiologico e della tecnomania di fine Ottocento, e sceglie di coprire i volti dei «pazienti», che non hanno mai acconsentito a diventare testimoni visivi dei metodi correttivi applicati ai loro corpi, facendo sbalzare in primo piano quello di medici e logopedisti. Se l’artista allude alla tecnica contemporanea che oscura o sfoca i volti dellə bambinə per garantirne il diritto alla privacy, lo fa per sottolineare l’infantilizzazione a cui i soggetti sordi sono sottoposti anche in età adulta, etichettati come infanti – incapaci di parlare – e quindi considerati ontologicamente immaturi. Anselmo ricopre i volti con chewing-gum masticato, insalivato e trattenuto nella propria cavità orale, trasformandolo in una traccia plastica d’incorporazione. È un passaggio in quella bocca considerata solo capace di espletare la masticazione e inferiorizzata perché non interessata a inscenare il teatro della parola.

A fare da ideale contraltare alle immagini, Diana Anselmo porta in primo piano la prospettiva di uno studente che, durante una lezione di articolazione, rifiuta la prossimità invadente dell’insegnante – bocca contro bocca –, scrivendo per protesta sulla lavagna, a caratteri cubitali, «BASTA!», senza emettere alcun suono, come documentato in una lettera pubblicata sul giornale Presse du Silence. L’artista si autoritrae su carta carbone mentre cita quell’episodio in Lingua dei Segni Italiana (LIS). Nel farlo articola una critica materica alle incisioni su supporti anneriti a nerofumo, utilizzati al tempo per registrare il parlato. Nei di-segni l’artista rivendica il Diritto alla Lingua dei Segni, con i suoi parametri spaziali di configurazione delle mani, orientamento del palmo, espressioni facciali e distribuzione corporea. Riafferma il legame tra gesto e linguaggio, così come fra segno e lingua, evidenziando come i processi di denominazione e attribuzione di significato nella cultura Sorda siano radicati nell’esperienza corporea. Ma lo fa senza marcatori temporali che si rivelano nelle espressioni facciali qui assenti, così che l’opera possa suggerire un «BASTA!» senza tempo, che vale ieri e oggi come segno di protesta! La sequenza delle bocche parlanti, disegnate lungo i muri della galleria, labiano «J’ai mal à la tête» convocando il tenore puerile delle frasi scelte da Marichelle per allenare l’apparato di fonazione terminale e la lettura delle labbra. Ma qui l’artista, ancora una volta, espone un documento storico per piegarne senso e valenza nella chiave di un rifiuto. Di fronte al processo di intrusione e manipolazione che le altre opera mostrano: Ho mal di testa!

Diana Anselmo, «deafnotdead», Galleria Eugenia Delfini – Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini.

Chiave, forbice, martello sono impiegati come strumenti di logopedia sul tavolo del dottor Jean-Marc-Gaspar Itard (1774–1838), storicamente riconosciuto come il padre della Pedagogia Speciale, che François Truffaut interpreta nel suo L’Enfant Sauvage (1970), girato proprio all’Institut National de Jeunes Sourd. Il film racconta la storia di Victor, un ragazzo cresciuto in isolamento nei boschi fin dalla prima infanzia, e del tentativo di Itard di educarlo alla parola, spinto dall’ossessione di curare la sordità. Sebbene nella pellicola non vengano mostrate le pratiche invasive come l’uso di ferri roventi, iniezioni e scosse elettriche adottati dal medico francese, l’intento oralista esercitato per mezzo dell’associazione segno-significato-significante è evidente. Su supporto metallico, Anselmo scolpisce un simbolo dal richiamo vagamente araldico, in cui gli oggetti di Itard – chiave, forbice, martello – sono permutati rispettivamente in – bisturi, forbice chirurgica e otoscopio –, dunque in dispositivi medico-chirurgici contemporanei, arnesi nuovi che segnalano un percorso di medicalizzazione che ha radice antiche.

Diana Anselmo, «deafnotdead», Galleria Eugenia Delfini – Foto di Sebastiano Luciano. Courtesy Galleria Eugenia Delfini.

Le tre opere dei piattini propongono un ulteriore gesto visivo di interpolazione semantica. Le immagini raffigurate apparecchiano una stilizzazione medicale dell’incavo della bocca, della testa con l’orecchio in evidenza, e del dettaglio di un orecchio. Sono lì a ricordare che la Sordità continua a essere collocata sul tavolo operatorio, alludendo a quello della cucina. La scritta del titolo della mostra «Sordo, non morto» avvolge l’orecchio e si trasforma in apparecchio acustico rimovibile, per rendere esplicita una scelta, quella compiuta da Anselmo stesso, che si configura come un preciso atto di soggettivazione. La cavità buccale ospita uno specchio-a-forma-di-lingua, oggetto che richiama, ancora una volta, l’uso di superfici riflettenti nelle pratiche logopediche di matrice oralista di primo Novecento. La lingua specchiante ribalta il piano: lo spettatore si scopre riflesso come soggetto e oggetto della manipolazione, mentre si evidenzia il fatto che il parlare è qui imposto dall’altro.

L’intreccio tra documenti provenienti da archivi rimossi e riattraversati da un sapere situato, immaginari sovrascritti con la perizia del proprio corpo, simbologie modificate attraverso una torsione semantico-visiva, costituisce la tattica – sofisticata e assertiva – che Diana Anselmo impiega per fare della cultura Sorda un campo di ricerca estetica che investe la sfera del visivo per plasmare altre visioni, e così da poter affermare: «Non scompaia la Sordità, ma la visione che ne avete costruito».

Il titolo «deaf not dead» è un topos comune nella comunità sorda segnante statunitense e l’artista lo usa per riferirsi ironicamente alla correzione automatica delle tastiere dei telefoni che fino a qualche anno fa sostituivano automaticamente «deaf» con «dead». Complici la vicinanza delle due lettere sulla tastiera ed un bieco audismo tecnocratico, si suggerisce la parola più giusta fra le due, così il tentativo di digitare «I’m deaf» viene modificato in un più lugubre «I’m dead». Nessun augurio spettrale, solo il tema della correzione forzata che si ritrova nella storica proibizione dell’uso della lingua dei segni (abolita in tutta Europa nel 1880, e solo nel 2021 riconosciuta dallo Stato italiano) e nell’anti-storico tentativo di normalizzare il corpo Sordo, rettificandolo sulla tastiera come nella società udente.

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