Curre curre guagliò
Da Seattle a Genova, passando per Napoli
Genova 2001, un altro mondo è necessario: così si intitola la quattro giorni (18-22 luglio) di eventi, dibattiti e iniziative che si tiene a Genova in occasione del ventennale dei fatti del G8. Mi verrebbe da ribattere, persino a costo di mettere in imbarazzo i numerosi autori di Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global (DeriveApprodi, 2021), che prima di tutto è necessario un libro del genere onde ricominciare – forse – a sperare nella prospettiva di un mondo diverso.
Al fine di chiarire tale mia convinzione vale partire da un passaggio in cui il lettore si imbatte immediatamente, essendo contenuto nella prima pagina del volume, aperto dalla prefazione di Marco Bersani: «mentre tutti sanno che la feroce repressione di Genova fu scatenata dal governo di destra di Silvio Berlusconi, pochi ricordano come la mattanza di Napoli fu gestita dal governo di centro-sinistra di Giuliano Amato. Governi di diverso colore politico, ma accomunati dalla necessità di bandire con ogni mezzo necessario dalle coscienze e dalle piazze l’idea che il capitalismo non fosse il destino indiscutibile, ma un altro mondo era possibile e quanto mai necessario».
Lo storico coordinatore nazionale di ATTAC Italia sta qui mettendo in chiaro tre punti fondamentali – oltre che correlati – per chi voglia davvero comprendere quella stagione, al di là del sentito dire o peggio ancora dei «recuperi spettacolari» – come li avrebbero definiti i situazionisti – che in questo ventennale paiono imperversare come non mai. Innanzi tutto la repressione poliziesca delle contestazioni al Global Forum dell’Ocse che si tiene nel marzo 2001 a Napoli non risulta in fin dei conti troppo meno infame di quella del luglio successivo a Genova – il volume è pieno di racconti e testimonianze che rendono palese tale assunto -, eppure «i fatti di Napoli» non vengono «celebrati» e per la verità godrebbero di un’autentica rimozione, se non fosse per quella nicchia napoletana e non solo che ben sa e ben ricorda – e non potrebbe essere altrimenti perché tutto ciò le ha segnato indelebilmente la vita. Assodato ciò, Napoli 2001 assurge a snodo chiave per penetrare nella vicenda storica mondiale – non solo e non tanto italiana! – del movimento: se Genova 2001 è giustamente considerata per esso un momento di svolta, il senso politico di quelle giornate sfugge completamente quando si elide l’antefatto napoletano. Diviene evidente, in altre parole, che nulla di ciò che avviene allora è casuale, né esclusivamente imputabile alla mera presenza di una «malapolizia» – che pure è tutt’altro che un concetto peregrino -, in quanto le forze dell’ordine fungono da braccio, ma non da mente! Infine il movimento, per quanto plurale fino all’inverosimile, è connotato da una radicalità paurosa – quali altre parole si potrebbero adoperare per definirlo in un tempo in cui, come notoriamente afferma il compianto Mark Fisher, ci riesce assai più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo? – e la consapevolezza di tale radicalità non manca di trovare puntuali riscontri negli stessi soggetti cui il volume dà voce.
In una delle interviste in esso contenute così si esprime, ad esempio, Roberta Moscatelli – tra le maggiori promotrici del libro bianco del Laboratorio occupato Ska di Napoli, nato «dalla raccolta di un mare di testimonianze rigorosamente anonime […] per restituire dignità alle persone che avevano subìto abusi o che erano state testimoni, per dare voce al sentimento popolare di indignazione per la violenza brutale, eccessiva, sproporzionata rispetto alle motivazioni e alle modalità» -: «Il problema è che non siamo riusciti a vincere su alcun piano, perché quel movimento non puntava su vertenze puntuali, ma perseguiva una finalità complessiva – dunque sì davvero sovversiva – benché fuori dalla nostra portata in quel momento: quella di rovesciare il mondo». Queste parole non fanno che affiancare alla verità sulle autentiche ragioni fondative del movimento – troppo spesso obliate non solo grazie alla potentissima opera di insabbiamento dei suoi nemici, ma persino, benché del tutto involontariamente, a causa della pur non solo legittima ma obbligata necessità di ricostruire e denunciare la sua repressione – la pesantissima questione delle cause della sua sconfitta, esito sul quale, pur con diverse sfumature, gli autori coinvolti nel volume sembrano concordi. Riconoscere la sconfitta – prima ancora della necessità di indagare sulle motivazioni che la determinano – diviene peraltro, in un momento in cui il dibattito in occasione del ventennale è inquinato da enormi mistificazioni, funzionale alla urgenza di difendere la profonda alterità del movimento, a fronte di una narrazione ben esemplificata da quanto dichiarato da Zerocalcare – peraltro uno degli ospiti di Genova 2001, un altro mondo è necessario -, il quale in una intervista apparsa sulle pagine napoletane del quotidiano La Repubblica il 13 luglio scorso così si esprime: «Se osserviamo la politica globale, tutte le istanze dei manifestanti fanno ora parte di un’agenda super partes che intende contrastare il riscaldamento globale con l’attenzione al clima, all’ecologia, a nuove dinamiche di produzione. Le ricette non sono le stesse per tutti, ma non lo erano nemmeno tra chi scese in piazza all’epoca».
Non è mio interesse screditare un artista di successo, la cui attività è peraltro innegabilmente legata ai movimenti ed agli stessi fatti di Genova, in quanto autore di un racconto a fumetti di quelle giornate in tempi precocissimi. Se ritengo opportuno menzionare questa sua recentissima sortita è per evidenziare quanto sia capillare il successo delle operazioni di rebranding – così le chiamerebbe Naomi Klein – dei sedicenti grandi della Terra. È opportuno ricordare ai tanti che in buona fede oggi soggiacciono a simili abbagli che non è che vent’anni fa il G8, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, il WTO etc. si presentino come affamatori di popoli, bensì – esattamente come oggi – quali benefattori dell’umanità ed è proprio il movimento a smascherare la loro identità di lupi rapaci sotto le vesti da pecore. A due decenni di distanza essi hanno semplicemente dato una nuova mano di vernice ad un muro che nel frattempo è ancora più crepato, ma il peggio è che sono riusciti in tal modo a far dimenticare anche a molti «già no global» quello che la vernice nasconde.
Come hanno fatto? Per esempio, non limitandosi ad una semplice vernice bianca, ma sfruttando tutte le potenzialità del colore. Se il verde va per la maggiore, anche il rosa non scherza: si veda il G20 delle donne (Women20) tenutosi a Roma dal 13 al 15 luglio scorso che, sempre dalle colonne de La Repubblica, ma questa volta nazionale, Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale Istat nonché presidente di Women20, definisce «il G20 della sorellanza». Per esempio perché, come spiega in un’altra delle interviste contenute nel volume Mario Avoletto – che nell’ambito delle contestazioni di Napoli è assai coinvolto nel cruciale lavoro comunicativo attraverso il web -, «Sembra incredibile a credersi al giorno d’oggi, ma all’epoca eravamo quasi in vantaggio sul potere, completamente impreparato all’utilizzo delle tecnologie». Si pensi che all’epoca «Negli ambienti antagonisti napoletani nacquero delle vere e proprie sperimentazioni che fecero scuola in tutta Italia. Nei centri sociali e negli spazi occupati si crearono degli hacklab, in cui vennero clonati siti istituzionali e attaccate agenzie di trading on-line che speculavano su milioni di persone. Rivendicammo una informatica libera dal controllo e dall’acquisizione dei dati personali, prendendo esempio dal sistema operativo open source di Linux». Quindi si pensi ai social network che sono pian piano emersi negli anni successivi e più in generale al potere dei grandi colossi del web che con la pandemia non ha conosciuto che il suo ulteriore suggello: il passaggio dalla rete come strumento di controinformazione alla rete come strumento che «cattura i tonni rendendoli idioti» – queste le parole adoperate da Ugo Mattei già dieci anni fa nel suo Beni comuni. Un manifesto – mi sembra cosa ahimè in buona parte compiuta.
Dell’entusiasmo che accompagnava queste sperimentazioni intorno alle nuove tecnologie e più in generale dello spirito del marzo napoletano, che senza di esse sarebbe inconcepibile, riesce a dare conto – più ancora dei numerosi saggi, interviste e documenti – la forma della narrazione. La prima delle cinque parti di cui è composto il volume è così interamente occupata da E avevamo gli occhi troppo belli, un lungo racconto di Francesco Festa – già tra i protagonista delle mobilitazioni di quelle giornate e studioso di conflitti sociali – a base di vicende «immaginate e vere all’un tempo» – per dirla col pittore ottocentesco napoletano Domenico Morelli -: dalla ispettrice che vive il trauma del figlio minorenne, il quale ai suoi occhi militerebbe in organizzazioni «sovversive», all’allevatore che partecipa con le sue pecore all’azione dimostrativa contro il McDonald’s di Via Scarlatti al Vomero; dalla giovanissima attivista dello Ska che si reca a Lugano per partecipare all’assemblea internazionale per preparare le iniziative contro il Global Forum e lì trova l’amore – nonché tanti suoi più o meno coetanei, provenienti da altre parti d’Italia e d’Europa, nei quali scopre un comune sentire e pensare – al borghesissimo fotografo in cerca di uno scoop sui no global, ma capace solo di infastidirli ed incutere sospetti. Queste quattro storie si intrecciano sullo sfondo di una Napoli in grande fermento per l’imminente vertice e tutto il suo contorno delle proteste in programma, in un’Italia ove il capo del governo si chiama Sgamato e il ministro dell’Interno Sbianco – chi ha un po’ di memoria storica non faticherà a decifrare le storpiature -, quasi facendo piombare il lettore nelle strade e negli umori di un passato per certi versi prossimo e per altri remotissimo.
Il racconto si arresta deliberatamente all’inizio del grande corteo del 17 marzo – nel cui ambito si verificano poi i gravi atti di violenza e repressione – per lasciare spazio alla seconda parte, il cui titolo riprende il sottotitolo del volume, Cronistoria della Rete No Global, ed a questo punto non è più procrastinabile una precisazione, onde evitare di cadere in fraintendimenti: la Rete No Global non va in nessun modo identificata o confusa con il movimento no global tout court, giacché tale sigla non è che l’abbreviazione di Rete No Global Forum, ovvero, come ricorda il curatore del volume Daniele Maffione – studioso di classe operaia e movimenti sociali, già militante per anni in Rifondazione Comunista, nonché naturalmente fortemente convolto nel movimento dell’epoca -, il soggetto campano con epicentro a Napoli che, composto da «un’ampia gamma di movimenti sociali sigle politiche e organizzazioni di base […] segnò lo sbarco in Italia del cosiddetto popolo di Seattle». Dal nome abbreviato della Rete ha origine quindi «no global», cioè l’espressione con cui ben presto i media italiani – ma non quelli stranieri – cominciano ad etichettare tanto il movimento quanto i suoi militanti, dando luogo però nella migliore delle ipotesi ad una semplificazione. Il movimento prende infatti ad essere comunemente inteso come quello che è «contro la globalizzazione» – e raramente ci si prende la briga di aggiungere l’aggettivo «neoliberista», per non parlare di «capitalista» – quando il «no» designa inizialmente la mera opposizione al vertice dell’Ocse.
Ma chi sono, più precisamente, i soggetti che compongono la Rete No Global? In tale soggetto, continua Maffione, confluiscono «tre aree diverse: l’area dell’autonomia (Ska e Officina 99), l’area istituzionale (Rifondazione e Verdi), l’area terzomondista (Cooperativa ‘O Pappece, Rete Lilliput, padri comboniani, associazioni non governative ecc.). A questi bisogna aggiungere la presenza dei Cobas, degli anarchici, dei movimenti sociali cittadini e dell’associazionismo più vario». Se nei quattro mesi che separano Napoli da Genova tale composito profilo si riproduce su scala nazionale, esso è assolutamente in sintonia con la «biodiversità di quella stagione di movimento» di cui parla ancora Bersani: «Sperimentata nelle pratiche di allora e divenuta centrale nelle lotte di oggi e di domani. Quel movimento ha saputo divenire di massa, perché ha superato due scogli fondamentali delle precedenti esperienze di lotta. […] Il primo è stato l’abbandono della competizione interna basata sulla gerarchia delle contraddizioni nell’analisi del modello capitalista. […] Il secondo scoglio superato è stato l’abbandono dell’idea della reductio ad unum, ovvero quel processo di intreccio delle esperienze finalizzato alla costruzione di un soggetto unitario con un pensiero omogeneo».
Di tale biodiversità la seconda parte rende conto ampiamente, giacché in essa troviamo le testimonianze di militanti dell’area dell’autonomia – il summenzionato Avoletto, Alfonso De Vito e vari esponenti di centri sociali allora attivi in altre zone della Campania – e quella dell’attuale copresidente di Un ponte per… Angelica Romano – cui spetta il compito di ricordare il contributo della Rete Lilliput, che, rinvenendo il suo «principale ispiratore e artefice» nel celebre padre comboniano Alex Zanotelli, mette in sinergia varie organizzazioni di ispirazione cattolica, ecologista, pacifista e le fa «lavorare insieme sui temi della pace, del disarmo, dell’economia solidale, dell’ambiente e della finanza etica» -; la voce dell’allora Coordinatore nazionale dell’organizzazione giovanile di Rifondazione Comunista Giuseppe De Cristofaro – che rivendica, tra l’altro, il «ruolo straordinario e addirittura unico» che la sua organizzazione ricopre nel movimento, nonché quello del suo stesso partito: «Nel gennaio 2001, al Forum di Porto Alegre, il PRC era l’unico partito che faceva parte di quel forum partecipante a tutti gli effetti. Rifondazione aveva un’internità al movimento proprio grazie alla giovanile, che spinse molto» – e il «prete no global» Don Vitaliano Della Sala – che si guadagna la stima dei centri sociali di tutta Italia fin dal 1997, allorché scrive una appassionata lettera al Subcomandante Marcos in cui dichiara, tra l’altro, di sentire «una profonda assonanza tra quello che sostieni e i valori cristiani in cui credo». Senza dimenticare la densa intervista, datata 2004, al compianto leader dei Cobas di Napoli Francesco Amodio, alla cui memoria – ed a quella di Alì Oraney, storico esponente della Comunità Palestinese di Napoli, e Francesco Ruotolo, storico militante della sinistra napoletana – il volume è dedicato.
La terza parte del volume è quella più cruda e sconvolgente, in quanto dà conto della «incubazione del G8 di Genova» intesa come l’insieme dei gravi abusi commessi dalle forze dell’ordine il 17 marzo 2001 in occasione della manifestazione di Napoli. Qui spiccano le voci di avvocati come Liana Nesta –nota per l’impegno nella difesa dei manifestanti e dei migranti – o Giancarlo Pezzuti – parimenti animato, nell’esercizio della sua professione, da un impegno civile in favore dei più deboli -, di Roberta Moscatelli – già ricordata a proposito del suo meritorio lavoro nella redazione del libro bianco -, di Nicola Quatrano – il «magistrato no global» che, tra l’altro, esplicita come meglio non si potrebbe i motivi per cui al movimento sono riservati metodi così cruenti: «la violenza con cui le autorità risposero alle istanze dei no global non fu un episodio. Non disponevamo di tutti gli elementi per un’analisi complessiva. Oggi, a vent’anni di distanza da quegli accadimenti, con uno sguardo retrospettivo, possiamo affermare con certezza che ciò che ha caratterizzato i primi anni Duemila è l’intolleranza verso il dissenso, che oggi troviamo nella sua forma incancrenita». Non vi è però a mio avviso testimonianza meglio capace di restituire il grado di efferatezza che viene lambito a marzo di quella di E.G., una militante proveniente dal nord Italia che vuole restare anonima: «A un certo momento, la coda è indietreggiata e sono sbucati da tutte le parti cordoni di carabinieri. Ci hanno chiuso. Ci hanno talmente stretto che mi sono sentita sollevata da terra. La folla era paralizzata. Non avevo più i piedi che toccavano per terra. Quella parte di corteo è andata avanti e noi siamo caduti l’uno sull’altra per scappare. Ci hanno caricato da ogni dove. […] Io non ho subito violenza nei bagni. Ma ho visto donne entrare dove c’erano uomini [poliziotti – N.d.R.] e ne uscivano in lacrime. Una ragazza nell’atrio mi disse di essere stata toccata, perquisita… le avevano fatto cose brutte. Ho vissuto l’umiliazione di essere spogliata. Mi ricordo che durante la manifestazione, nel pezzo di corteo dov’ero io, c’era una donna incinta che chiedeva per carità di non essere toccata. L’hanno picchiata comunque».
La quarta parte, che per Maffione deve «aiutare ad inquadrare gli effetti delle ricette neoliberiste sull’area economicamente e socialmente subalterna d’Italia, proponendo però la testimonianza di un fiero antagonismo», è quella più teorica, in quanto costituita da saggi come quello di Monica Buonanno – esperta di politiche del lavoro e fino a pochi mesi fa Assessore alle Politiche Sociali e al Lavoro del Comune di Napoli –, incentrato sui problemi del lavoro nel Mezzogiorno degli ultimi decenni, e di Giovanni Russo Spena – più volte parlamentare prima di Democrazia Proletaria e poi di Rifondazione Comunista –, che lancia suggestioni e riflessioni a partire da «alcuni ricordi sparsi» che vanno dal Chapas alla vicenda Ocalan, da Seattle a Genova e, naturalmente, a Napoli. Ad essi si aggiungono un’intervista alla Moscatelli ed un’altra a De Vito – entrambi compaiono con due interviste –, nonché tre lettere di Don Vitaliano. Attraverso le interviste si ricostruisce la vicenda della Rete meridionale del Sud Ribelle, che, nata sull’onda della Rete No Global «per facilitare la partecipazione del sud a Genova e ai successivi appuntamenti del movimento contro la guerra», si trova improvvisamente al centro di una inchiesta del Tribunale di Cosenza – scaturita dall’ipotesi di «cospirazione politica mediante associazione al fine di turbare l’esercizio del governo, effettuare propaganda sovversiva per sovvertire violentemente l’ordinamento economico e politico dello stato» -, benché alla fine tutti i coinvolti risultino prosciolti da ogni accusa. Le tre lettere sono indirizzate rispettivamente al Subcomandante Marcos – vi ho già accennato -, a Samuel Ruiz – il vescovo messicano vicino agli zapatisti – e a Giovanni Paolo II.
La quinta ed ultima parte, curata da Fabrizio Greco – dottore di ricerca in Sociologia e Comunicazione – possiede un profilo esclusivamente documentario, in quanto raccoglie testi prodotti all’epoca dalla Rete No Global e dalle varie realtà che lo animano, ma anche dai Social Forum di Porto Alegre o da Amnesty International, che denuncia le violazioni dei diritti umani perpetrate a Napoli. Alla documentazione scritta non può però non essere sommata quella visiva, e così le ultime pagine del volume ospitano il logo della Rete No Global e il Manifesto che annuncia le giornate di mobilitazione contro il Global Forum progettati da Massimo Di Dato/Karl Max – ove un indignatissimo Pulcinella avvolto in una nuvola di gas vulcanico, indossando la maschera antigas e brandendo un bastone, viene come catapultato sulla città di Napoli da un Vesuvio con occhi, naso, bocca e pugno chiuso verso l’alto -, nonché una selezione di scatti inediti di Luciano Ferrara – dal 1968 ad oggi il fotografo maggiormente impegnato nel racconto per immagini delle vicende dei movimenti napoletani e non solo – che restituiscono vari momenti di quelle travagliate giornate di marzo.
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