Dopolavoro

Interrogativi di una prolungata ricerca collettiva

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Claire Fontaine e Lucie Fontaine, Exceptions (2012). Courtesy The Green Gallery, Milwaukee.

Dal 15 al 17 Settembre si tiene a Lecco la terza edizione del Festival Baite Filosofiche. Oggi, 16 settembre, parteciperà anche Giuseppe Allegri, qui anticipiamo una parte del suo intervento.

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Il nostro progetto nasceva dalla noia, dalla mancanza di un futuro e dal bisogno di creare problemi
Richard H. Kirk, leader dei Cabaret Voltaire

Si presenta una traccia di lavoro pensata per gli incontri che si svolgeranno a Lecco tra il 15 e il 17 settembre in occasione della terza edizione del Festival Baite Filosofiche all’interno del progetto dei Quartieri del Terzo Paradiso, vero e proprio Territorio Laboratorio, seguendo gli insegnamenti di Bernard Stiegler e di Michelangelo Pistoletto, con promozione e sostegno da parte della Cooperativa CRAMS (Centro Ricerca Arte Musica e Società) che da oltre trent’anni lavora a Lecco su ricerca e arti performative e sui temi di educazione, riabilitazione e promozione artistico-culturale. In questa terza edizione il Festival ospita studiosi da tutto il Paese, con l’invito a pensare assieme tre questioni epocali: l’intelligenza artificiale, il cambiamento climatico e l’avvenire del lavoro. Quindi con l’intenzione di mettere in dialogo studiose/i, abitanti dei territori, rappresentanti delle istituzioni, associazioni e movimenti, imprese e cooperative, per la costruzione della città del futuro e la trasformazione di un territorio laboratorio nella transizione sociale, ecologica e tecnologica a venire.

Perciò ecco questi appunti in forma di interrogativi in postura negativa sull’esistente, per proporre una ricerca collettiva in positivo. Certo le domande di partenza sono per sottrazione: oltre l’impiego, senza condizioni, non statali. Potrebbe essere già questo un primo piccolo programma, in realtà, per muoversi insieme, ancora una volta alla ricerca di nuove istituzioni oltre l’antiquata società salariale e (post-)industriale e l’attuale, ossessionata, società algoritmica e automatica. Partendo da tre interrogativi e altrettante citazioni, per aprire riflessioni comuni.

Comme si la fin du travail était à l’origine du monde
Jacques Derrida, L’université sans condition (2001)

Quali attività, oltre l’impiego?1

Negli ultimi cinquant’anni, di critica al e del lavoro, di rifiuto del lavoro e di pratiche del non-lavoro se ne è parlato tanto, troppo, ora recuperando anche scritti anteriori, come quelli dell’irregolare Giuseppe Rensi (1871-1941) di Contro il lavoro2. Forse se ne è parlato così in lungo e in largo che quasi viene la nausea a sentirne parlare ancora, quando si continua a morire per l’insicurezza dei lavori svolti e per l’assenza di sostegni nell’assenza di attività degnamente retribuite, tra lavoro povero, sommerso, informale, intermittente, insicuro.

E allora, perché parlarne ancora? Per giunta proprio in questi mesi è uscito l’invero non memorabile documentario After Work di Erik Gandini, per immaginare un mondo automatizzato con riduzione del lavoro umano, quindi il libro dell’autrice di Xenofeminism3 e del co-autore di Inventing the future (2015), cioè i consorti Helen Hester e Nick Srnicek, After Work. A History of the Home and the Fight for Free Time (Verso, 2023), che a partire dalla faticosa esperienza del pandemico tempo sospeso vissuto in isolamento ci invitano a ripensare gli spazi di libertà delle nostre vite, nella lotta contro il lavoro in tutte le sue forme, tra il lavoro tramite piattaforme digitali fin dentro casa, il tradizionale lavoro casalingo e la persistente individualizzazione dei rischi sociali.

Allora, perché Dopolavoro, quasi come fedeltà linguistica nazionale, invece di post-work, after work, ecc.? Innanzitutto per sovvertire questo termine fascista, utilizzato nell’infame ventennio per sopprimere l’autorganizzazione e la cooperazione lavorativa, culturale, sociale germogliata già a fine Ottocento con le Società Operaie (e non) di Mutuo Soccorso e delle Camere del lavoro, che alla fine degli anni Novanta del secolo dopo diventeranno le Camere del lavoro e del non lavoro, del precariato metropolitano al Rialto occupato di Roma.

Il Dopolavoro è quindi l’alleanza transtemporale che lega la cooperante aspirazione collettiva dopo/oltre il lavoro alla promozione sociale di un buon vivere associato, agli albori e alle molteplici crisi del capitalismo industriale. Remixando i giusti battiti di assenteismo, anche come «limitazione volontaria della prestazione lavorativa, e partecipazione, ma fuori dalla subordinazione, come autonomo arricchimento e ricomposizione delle mansioni, tra sperimentazioni di mini-officine, servizi sociali, isole del lavoro», seppure l’inchiesta di Fernando Bucci ce li propose in alternativa (F. Bucci, Assenteismo o partecipazione, Lerici, 1979).

Così il Dopolavoro vorrebbe essere anche e soprattutto la faccia (ri)costituente della medaglia lavorista e della sua critica: il sorriso in positivo oltre l’accigliata critica, la pars construens della decostruzione dell’ideologia iper-lavorista, progetti comuni di liberazione collettiva, qui e ora. È quindi il sorriso, forse un poco ebete e comico, sicuramente ludico, direbbe uno dei molti nostri Antichi Maestri contro il lavoro, Bob Black4 e in parte incantato, dinanzi alla millenaria tensione umana a ridurre la fatica.

Lo si è già scritto altrove5: la storia dell’umanità tutta è quella dell’affrancamento individuale e collettivo dalla fatica, della liberazione dalla maledizione di Dio contro Eva («moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli» e contro Adamo «maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita […] col sudore della fronte ti procaccerai il pane»), della immaginazione al servizio della libertà, della sapiente intelligenza collettiva «accumulata nell’infinita successione di gesti di lavoro e nell’infinita successione di atti di rifiuto del lavoro. Il rifiuto del lavoro induce il moto evolutivo dell’intelligenza. L’intelligenza è rifiuto del lavoro che si realizza in forma socialmente utile. È grazie all’intelligenza che diviene possibile sostituire il lavoro umano con macchine. Ed è grazie al rifiuto del lavoro che la scienza è spinta in avanti, sviluppata, messa a frutto. Fin dai suoi inizi, la scienza moderna fu consapevole di questa sua funzione»6.

Siamo esseri umani, urlava Mario Savio del Free Speech Movement a Berkeley nel 1964, siamo esseri umani che inventano artifici, tecniche, pratiche, macchine per ridurre la fatica umana e accelerare la liberazione dell’essere umano dal lavoro come maledizione, dal lavoro forzato, direbbe il solito Bob Black, dal dominio del lavoro morto, ci indicava il Gruppo Krisis nel Manifesto contro il lavoro, nel passaggio di millennio, dalla «figura dolorista, del castigo e dell’espiazione del lavoro, ancora Jacques Derrida. Perché l’attività operosa del lavoro è l’energia libera che crea l’atto direbbe Bernard Stiegler, non il travaglio, la costrizione, la subordinazione, la privazione nell’impiego quotidiano.

E allora: come rendere praticabili attività (in)operose dei lavori oltre l’impiego, dei tempi di vita individuale e sociale oltre il capitalismo digitale? Qui ci sovvengono le analisi e le ricerche di una critica permanente del diritto (della società) del lavoro, a partire da Yann Moulier-Boutang con la sua disamina della traiettoria del salariato imbrigliato – dalla schiavitù al lavoro salariato – per controllare la mobilità della forza-lavoro e delle migrazioni globali, legando la cittadinanza sociale al contratto di lavoro cui il lavoratore migrante è vincolato per accedere al permesso di soggiorno; quindi Alain Supiot, Carole Pateman, Robert Castel, André Gorz, ecc. E poi, il lavoro utile e la fatica inutile delle pratiche del collettivo intorno a William Morris, rivoluzionario senza rivoluzione, per dirla con Edward P. Thompson, dentro, contro e oltre il capitalismo industriale. Fino al Novecento, secolo non solo del lavoro, ma anche contro il lavoro, se prendessimo la curvatura spazio-temporale dal 1916 al 1977, da Dada al Cabaret Voltaire di Zurigo, contro tutti i nazionalismi produttivisti, colonialisti e guerrafondai, al post-punk anche di Cabaret Voltaire, che diviene il post-cyberpunk oltre al no future del lavoro culturale.

Dopolavoro è quindi il cortocircuito temporale della disaffezione al lavoro coatto, dagli albori del capitalismo industriale a quelli del capitalismo digitale. Con due ulteriori interrogativi, qui solo accennati. Un reddito di base è la strada più semplice per creare le condizioni nelle quali chiunque possa godere di un’autonomia individuale.

Quale reddito, senza condizioni?

Prima, dopo e oltre il lavoro c’è il reddito, non solo come lotta alla povertà, ma come investimento collettivo sulla protezione e promozione sociale delle persone: per un benessere materiale, psichico, fisico, sociale, relazionale. Perciò quale reddito? Da quello minimo e adeguato – da tempo presente in molti Stati della vecchia Europa e da tempo richiesto anche dalle istituzioni euro-unitarie e dallo European Pillar of Social Rights – a quello incondizionato e universale – pensato da umanisti e libertari – e di tutte le latitudini e i tempi, da Erasmo e Thomas More a Bertrand Russell e Carole Pateman; e quindi dai movimenti sociali più immaginifici, le/i Comunarde/i ottocenteschi per il lusso comune, PreCog (Precari Cognitari) degli anni Zero del nuovo millennio, dell’immaginario EuroMayDay, fino alla radicale immaginazione del Manifesto Art for UBI.

Così qui il tema è doppio: quali politiche pubbliche (/economia politica pubblica) del reddito di base incondizionato (anche come Euro-Dividendo, Philippe Van Parijs) e al contempo pensato come territorialmente contributivo, nel senso dell’autonomia civica e cittadina nella promozione sociale di un benessere individuale e collettivo concretamente situato (Bernard Stiegler)? Ecco lo spazio del consorzio cittadino, del sodalizio metropolitano, civico, della città della cura comune dell’altro e dell’altrove, per una rigenerazione artistica delle città, anche a partire da ibride officine municipali, intese come spazi di socializzazione e di un fare in comune (per un commonfare-welfare del benessere comune), un’intrapresa collettiva territorialmente dislocata, che fomenti un’immaginazione istituzionale all’altezza della regressione securitaria, identitaria, autoritaria in atto.

La cultura da sola non basta per lasciare l’inferno, abbiamo bisogno di coalizioni tra ballerini e banchieri, poeti ed ecologisti
Nicolas Jaar (2020)

Quali istituzioni, non statali?

Perché la nostra (seconda) natura di esseri umani in società è quella di inventare istituzioni e pratiche per dare spazio a quell’empatia di prossimità che diventa generosità nella differenza, Hume riletto con Deleuze&Guattari, sostenuti dal Caute spinoziano contro tutta quella marmaglia qualunquista e fascista che ammorba le nostre vite: dall’algida, elitaria distopia transumanista dei giganti proprietari dell’automazione algoritmica, alla necrofila politica suprematista del rancoroso plebiscito digitale quotidiano di politiche e politici professionisti del terrore.

«Le nostre generazioni hanno ben visto l’amore per il tempo opporsi a ogni e a tutte le manifestazioni dell’essere per la morte»7: oggi dobbiamo condividere il nostro comune amore per il tempo e per la vita con le generazioni presenti e future. Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, ci insegna ancora una volta Bernard Stiegler nel volume curato da Paolo Vignola8. Ora che sono le nuove generazioni a opporsi alle condizioni lavorative vessatorie in cui sono costrette e narrano questa esigenza anche in forma artistica, a partire dalla soggettività femminile come l’artista visiva e illustratrice canadese Kate Beaton in Ducks. Due anni nelle sabbie bituminose (Bao Publishing, 2023), che, nell’intervista a Emilia Giorgi (Il lavoro è violenza, in Robinson, 2 settembre 2023), sostiene come «il reddito universale sia grandioso! Non sono un’esperta di questi temi, ma so che ognuno ha il diritto di avere una casa e vivere con dignità».

Si tratta quindi ancora una volta di inventare istituzioni pubbliche, ma non statali, di emancipazione individuale e collettiva, di cooperazione solidale nella società digitale e automatizzata, provando a ripensare le piattaforme digitali come piattaforme abilitanti una nuova relazione tra l’essere umano e l’automa che verrà, dentro e contro il lavoro di smontaggio degli automatismi che ci governano: vere e proprie «piattaforme decentrate intese come nuove reti socio-territoriali» (L. De Bonis, S. Simoncini, Tra determinismo e filogenesi. Tecnologia, potere e territorio).

Ancora una volta sarà necessario confrontarsi con l’approccio ludico delle giovanissime generazioni alla rete, vista come spazio pubblico di diffusione di giochi, mobilitazioni, attivismo e scherzi infiniti, anche come rifugio rispetto alla percezione del quotidiano peggioramento delle condizioni ambientali di vita sul pianeta Terra. E in questo percorso di confronto, scambio e dialogo intergenerazionale, per imparare reciprocamente, dalle reti sociali e digitali, alla cura dell’ambiente, contro l’economia fossile, tornerà utile tenere viva un’altra intuizione di Bernard Stiegler e del suo gruppo di ricerca, come l’Associazione Amici della Generazione Thunberg, con l’obiettivo, enunciato dal Presidente Giuseppe Longo di esplorare «la relazione triangolare società/ecosistema/tecnologie con un intenso scambio con i ragazzi che abbiamo voluto chiamare della generazione Thunberg». Generazione che tra neanche un mese si dà appuntamento a Milano al World Congress for Climate Justice, dal 12 al 15 ottobre, per la prima internazionale dell’attivismo globale per la giustizia climatica.

Note

Note
1Queste note, come spesso accade, sono frutto di incroci e discussioni collettive, perché non si pensa mai da soli, a partire dalle letture fatte, ai dialoghi infiniti, agli incontri avvenuti. In questo caso particolare, alcuni spunti sono ripresi da un tentativo di scrittura collettiva di un testo avvenuto in epoca pre-pandemica con il caro fraterno e giovane amico, attuale brillante studioso deleuziano parigino, Marco Spagnuolo, per un articolo che avrebbe dovuto essere ricompreso in un libro collettivo pensato per i tipi del favoloso D Editore e che si era pensato di titolare, evocando banalmente tre concetti quotidiani: Tempo, Libertà e Repubblica nell’era pre-Covid-19. L’impresa comune del post-work e del kNOw-working. Chissà se avrà ancora senso e se avremo ancora la voglia, il tempo e l’occasione per ripensarlo e finalmente pubblicarlo?
2Giuseppe Rensi, Contro il lavoro, Gwynplaine, 2012 e WoM edizioni, 2022
3Helene Hester, Xenofemminismo, Nero, 2018
4The Abolition of Work, 1985, trad. it. L’abolizione del lavoro, nuova edizione Ortica Editrice, 2023
5Il 1968 come arte del Caosmos, in I. Bussoni, N. Martino, È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, ombre corte, 2018
6Franco Berardi Bifo, Quarant’anni contro il lavoro, DeriveApprodi, 2017, p. 341
7Antonio Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Sugarco, 1992, p. 380
8Bernard Stiegler, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni , Orthothes, 2014

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