Eco, conviviale, sostenibile

Arte contemporanea e pensiero della decrescita

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Enzo Calibè, Senza titolo (Ecobusiness Landscape), 2016, particolare. Foto Danilo Donzelli - Courtesy l’artista.

Questo intervento si concentra su un approccio peculiare dell’arte contemporanea al tema della sostenibilità, ambientale e sociale, una modalità che confina con le posizioni degli «obiettori di crescita». Si tratta di una convergenza insolita eppure significativa per radicalità e originalità che si esprime sia a livello tematico sia a livello metodologico, ravvisabile in singoli artisti e testimoniata anche da eventi espositivi di diversa caratura organizzati tra il 2009 e il 2014.

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Nell’alveo dell’urgente e attualissimo dibattito sulla sostenibilità1, questo contributo guarda a un’area marginale e radicale proponendo un’incursione in un territorio poco esplorato2 qual è il rapporto tra arte e pensiero della decrescita3, intesa in senso ampio a comprendere il complesso del nucleo teorico storico e non solo i tratti del movimento contemporaneo.

Mi sia consentita una breve premessa utile ad inquadrare il contesto della decrescita. Dall’elenco dei precursori e dei padri, piuttosto lungo e variamente dislocato nel tempo e nello spazio, si evince la porosità di una proposta che non ostenta i tratti di una ideologia, ma si presenta invece come matrice di alternative4. Qui confluiscono diverse correnti a delineare una visione disomogenea eppure coerente – la bioeconomia, l’antiutilitarismo, la critica dello sviluppo o ancora le correnti dell’ecologismo5. Vi figurano utopisti del XIX secolo come William Morris e Charles Fourier, anarchici come Pierre-Joseph Proudhon o Henry David Thoreau; e poi i pionieri, da Ivan Illich a Nicholas Georgescu-Roegen e Cornelius Castoriadis, da Jacques Ellul a Bernard Charbonneau, da François Partant a André Gorz. Dunque se le origini sono antiche, la strutturazione come preciso progetto politico di rifondazione sociale alternativo al paradigma neocapitalista è invece cosa relativamente recente e trova compimento nel movimento guidato da Serge Latouche6. Di segno antiproduttivista, la proposta decrescente mira ad una profonda trasformazione sociale proiettata al di là dello sviluppo sostenibile, giudicato espressione ottimistica e al contempo ossimorica di un estremo tentativo dell’economicismo di sopravvivere proteggendo il falso obiettivo di un progresso buono per l’uomo e per l’ambiente, che è in realtà mera crescita economica a beneficio di pochi. La decrescita propone allora una sfida globale lanciata a livello locale: rifondare il legame sociale e ritrovare l’autonomia economica per costruire società democratiche conviviali, sobrie ed ecologiche. Primo passo verso l’obiettivo è la decolonizzazione dell’immaginario annichilito dalla società economicista che ha inoculato l’ossessione della crescita a qualunque costo, il culto del progresso, il mito illusorio della tecnologia salvatrice. L’approccio integrato alle problematiche ambientali e sociali, inscindibilmente correlate, richiede uno sforzo collettivo, ma non prescinde dall’impegno individuale attuabile nel quotidiano attraverso pratiche virtuose che Latouche ha condensato nelle «8 R» – Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

Penalizzata da una denominazione volutamente scioccante che mal riflette il senso del progetto nella sua totalità e non lascia trasparire la ricchezza teorica che la sostanzia, la decrescita stenta a farsi spazio nel dibattito pubblico. Più opportunamente, tra l’altro, poiché si tratta di abbandonare l’obiettivo irrazionale della crescita per la crescita, bisognerebbe parlare di «a-crescita». Ad ogni modo, l’intensa crisi economica del 2007-2008 ha sollecitato un cambiamento nella percezione comune del modello economico vigente. Ed anche nell’ambito della riflessione artistica si è verificata una inedita concentrazione di riflessioni e dubbi concernenti alcuni capisaldi del pensiero moderno, come dimostrano non solo il lavoro di singoli artisti – che vedremo tra poco –, ma anche l’avvicendarsi di esposizioni sul tema, diverse per ampiezza e intensità teorica. Già nel 2009 si erano inaugurati eventi espositivi specificamente dedicati al concetto di decrescita, ma si trattava di piccole iniziative che per quanto pregevoli si limitavano a toccare il tema del riciclo e a trasporre nell’arte schegge di teoria decrescente problematizzando superficialmente singole tematiche, e restituendo così una sorta di consequenzialità tra teoria e pratica artistica, un rapporto in cui la posizione dell’arte appariva perlopiù ancillare7. Tra il 2011 e il 2014 tre collettive8 dedicate al concetto di crescita hanno messo in discussione uno dei fondamenti del sistema occidentale, ovvero il mito della crescita infinita, proponendolo come ossessione culturale prima ancora che come parametro economico.

La prima, On the Metaphor of Growth, dislocata tra Germania e Svizzera in tre luoghi e periodi diversi, e dunque composta di tre diverse mostre con tre curatori differenti, nasceva dall’osservazione di un inedito scetticismo nei confronti della crescita che sembrava montare nell’opinione pubblica europea in quel momento. Coinvolgendo ventotto artisti, affrontava con approccio olistico criticità del modello economico, distorsioni sociali e urgenze ambientali come un’unica questione in cui ciascuna dimensione è interconnessa alle altre. Registrava, inoltre, il ritorno del tema dell’entropia9 e soprattutto sottolineava la differenza tra organismi naturali e sistema economico, riaffermando che l’economia non è un sistema chiuso ma inscritto nell’ecosistema planetario e quindi sottoposto alla Seconda legge della termodinamica, così come asserito da Nicholas Georgescu-Roegen nei primi anni Settanta10. L’insieme dei testi critici presenti nel catalogo11 veicola una stimolante prospettiva interdisciplinare in cui sociologia, filosofia e teoria economica restituiscono tutta la complessità dell’argomento.

Esplicitamente ispirata a On the Metaphor of Growth, la collettiva Plus de Croissance. Un capitalisme idéal aveva invece fatto perno su Georges Bataille per un’opposizione anti-utilitarista ancorata alla nozione di dépense12 che la curatrice Julie Pellegrin intendeva proporre come antidoto all’imperativo della crescita e dell’accumulazione. L’ultima in ordine di tempo, Against the Idea of Growth. Towards poetry (or, how to build a universe that doesn’t fall apart two days later), proiettandosi oltre la metafora, attaccava frontalmente l’eccesso di razionalizzazione economica ormai dilagante suggerendo la necessità di agire sul piano del linguaggio. Incoraggiava cioè una «rivitalizzazione poetica» del codice linguistico percepito come potenzialmente alternativo a quello della finanza. Un accenno, infine, alla collettiva svoltasi tra il luglio e il settembre del 2014 a Varsavia per la cura dall’artista Jota Castro, ovvero Slow Future, esplicitamente ispirata all’idea di decrescita che a questo punto è ufficialmente infiltrata nel contesto dell’arte contemporanea13.

In che modo, quindi, il pensiero della decrescita si manifesta nella riflessione artistica? Qual è il rapporto tra teorie decrescenti e prassi dell’arte? Anzitutto, chiariamo che non si intende in alcun modo affermare l’esistenza di un’ «arte della decrescita», ma rimarcare come questo rapporto si basi su prossimità tematiche e sintonie metodologiche. Di seguito prenderemo in esame il lavoro di singoli artisti, i quali si trovano, coscienti o meno, a condividere istanze, temi, modalità formulati all’interno della grande galassia teorica della decrescita; o a riflettere sulla efficacia della stessa proposta decrescente.

Uno dei punti più sensibili è certamente il nodo della «decolonizzazione dell’immaginario» – su cui l’arte avrebbe un ruolo decisivo – prerequisito allo scardinamento del capitalismo consumistico fondato, secondo Latouche, su tre pilastri: pubblicità, credito al consumo e obsolescenza programmata. Proprio quest’ultima è l’oggetto del lavoro di Maxime Bondu in The Bulb of Livermore (2012), presentato anche nell’ambito di Plus de croissance. Un capitalisme idéal, che si concentra sulla predeterminazione del ciclo vitale degli oggetti. Tale espediente introdotto negli anni Venti, ed ancora in uso14, è volto ad alimentare e al contempo giustificare il consumismo, quindi ad assicurare profitti mediante una produzione continua e ingiustificata. L’artista riproduce con perizia il brevetto e installa la lampadina a incandescenza a filamento di carbonio progettata alla fine dell’Ottocento da Adolphe Chaillet, che aveva innalzato la prospettiva di vita dell’oggetto a un centinaio di anni, seppur con un calo prestazionale. Un esemplare, la nota Centennial Light, prodotta in Ohio dalla Shelby nel 1895 è acceso ancora oggi presso la caserma dei pompieri di Livermore, USA.

Maxime Bondu, The Bulb of Livermore, installazione, dimensione variabile, 2012.. © Maxime Bondu.

Per comprendere la portata di quella invenzione e avere un’idea dell’importanza dell’obsolescenza programmata nel quadro economico, è utile ricordare che le grandi aziende americane ed europee siglarono nel 1924 a Ginevra il Cartello Phoebus, un accordo che omologava la produzione e i mercati fissando la vita della lampadina a incandescenza a 1000 ore15. Paradossalmente, un oggetto come la lampadina dell’ingegner Chaillet, che potrebbe sembrare obsoleta all’era del LED, diventa il simbolo di una cultura antagonista rispetto a quella consumistica, l’esatto contrario dell’obsolescenza pianificata. Mentre una lampada LED ha oggi una vita media di circa tre/sei anni16, infatti, quella di Chaillet è stata ideata per durare oltre cento anni, seppur con progressivo calo prestazionale.

Su una particolare tipologia di pratica pubblicitaria, il greenwashing17, si sofferma invece Enzo Calibè che denuncia lo sfruttamento del paesaggio e la manipolazione dell’immaginario collettivo attraverso «associazioni distorte tra prodotti di largo consumo e ambiente». Nell’ultimo decennio la macchina pubblicitaria ha recepito la crescente sensibilità del consumatore verso le tematiche ecologiche considerandola una debolezza, e sempre più spesso ha strumentalizzato l’immagine idilliaca della natura e del paesaggio incontaminato per imporre i prodotti più disparati, le politiche più dissennate, e ripulire il volto compromesso di note multinazionali. Nel contesto dello sviluppo sostenibile, questa mutazione del linguaggio pubblicitario accompagna l’emersione di un altro concetto, quello di green economy, che si delinea intorno al 2006 a seguito del Rapporto Stern sui cambiamenti climatici. Insieme al nuovo orientamento green si è sviluppato un segmento inedito di mercato che ha offerto il fianco ad una più sottile forma di manipolazione del desiderio, una strategia di marketing capace di soddisfare le necessità del profitto e al contempo tacitare le coscienze più ricettive alla crisi ambientale.

Così, possiamo interpretare il consolidamento della sleale pratica del greenwashing, suggerisce l’artista, non solo come artificio ingannevole con tutte le sue ricadute, ma come tappa fondamentale sulla strada del rilancio del modello produttivista, incompatibile con principi di sostenibilità ecologica ed equità sociale. Il linguaggio adottato da Calibè è quello del culture jamming, pratica contro-pubblicitaria diffusa negli Stati Uniti e in Canada negli anni Ottanta volta a sovvertite i meccanismi di comunicazione promozionale e stimolare il consumo critico. In Falso per natura (2012) e poi in Ecobusiness Landscape (2016) l’artista estrapola immagini pubblicitarie dalle pagine delle riviste, le decontestualizza e le priva della presenza umana lasciando solo un profilo vuoto, una assenza spettrale in un paesaggio depurato, restituito alla natura – perché non c’è paesaggio in assenza dell’uomo. L’intento è operare un détournement che riveli il meccanismo sotteso al greenwashing quale distorsione-distrazione della realtà, e sveli il processo di artificializzazione del mondo attuato anche attraverso lo sfruttamento del paesaggio. La denuncia di Calibè riguarda la relazione spezzata tra uomo e natura che ha privato il paesaggio della sua carica identitaria attivando processi di dematerializzazione e standardizzazione.

Núria Güell accende i riflettori sull’irritazione generata dalla crisi del 2007-2008 verso il sistema bancario e finanziario. Il progetto Displaced Legal Application #1: Fractional Reserve, Action, 2010-1118 prende di mira il sistema della riserva frazionaria19, un moltiplicatore che consente l’espansione del credito al consumo. Il meccanismo è da molti considerato una truffa legalizzata: appare come una tutela nei confronti del correntista, poiché pone un limite al potere della banca di creare denaro da prestare, ma consente alle banche di utilizzare il denaro depositato dal correntista per prestiti ad interesse. Più bassa è la percentuale di riserva, più alta è la somma di cui la banca può disporre, a fronte di interessi bassissimi riconosciuti ai titolari dei conti. Il progetto di Güell non ha come fine solo quello di informare sui meccanismi bancari, ma si propone di diffondere più o meno velatamente sistemi per raggirare le banche impiegando, rovesciandolo, lo stesso principio che esse applicano con i loro clienti attraverso la riserva frazionaria. L’artista adotta spesso questa metodologia che definisce displaced legal application poiché, spiega in un’intervista «mi dà la possibilità di ripensare le leggi e, alla fine, giungo a comprenderle come espressione della volontà del potere. Perché se applichiamo la stessa legge al contrario, molte volte si generano crimini o azioni non etiche. E questo mi aiuta a ripensare la legittimità delle leggi. Una cosa è la legge e un’altra è l’esercizio del potere, che non sempre (come sappiamo e come vediamo) corrisponde alla legge»20. Displaced Legal Application #1: Fractional Reserve, Action consta di due fasi: la prima di ordine «pedagogico»ha offerto una lezione, tenuta dall’economista Qmunty e da due espropriatori, Lucio Urtubia e Enric Duran, su come «truffare» le banche. La seconda fase ha visto la pubblicazione di Cómo expropiar a los bancos (2011), manuale pratico di strategie di sottrazione, consulenza legale e testi teorici, edito da Melusina e distribuito gratuitamente21. Nello specifico di Slow Future, un video trasmetteva la lezione sullo sfondo di una parete lavagna che riportava i vari passaggi del meccanismo tracciati con il gesso. Mai come in questo caso la citazione da Bertold Brecht, What is the robbing of a bank compared to founding one? si rivela calzante. Il lavoro di Güell è un misto inscindibile di impegno, resistenza, riflessione teorica e temeraria azione pratica che avvicina decisamente la sua proposta all’artivismo, e sfrutta lo statuto speciale dell’arte per operare sul filo della legalità.

Núria Güell, Displaced Legal Application #1: Fractional Reserve, 2010-11. Foto Roberto Ruiz – Courtesy l’artista.

I progetti dell’artista e architetto slovena Marjetica Potrč, che potremmo definire agro-sociali, si fondano su un’accezione di sostenibilità ambivalente, al contempo ambientale e sociale; si sviluppano direttamente sul campo con approccio interdisciplinare, tra arti visive, architettura e scienze sociali. Molti i punti di contatto con la decrescita, di contenuto e di metodo: i temi della resilienza, della convivialità, la predilezione per le iniziative dal basso, per ciò che è piccolo, autonomo ed ecologico. In effetti, Potrč considera la decrescita, caratterizzata fra le altre cose da un’enfasi sulla qualità della vita piuttosto che sulla quantità del consumo, uno dei requisiti necessari per realizzare comunità sostenibili e resilienti fondamentali per il futuro della comunità mondiale. Nel testo Le nuove territorialità di Acre (2006), in merito alle comunità auto-organizzate presenti nella foresta Amazzonica in Brasile, scrive che «sono il risultato di una decrescita, vale a dire il processo per cui la società si frammenta e si pixelizza fino al livello di comunità locale»22.

Le particelle evocate da Potrč riflettono il progetto della democrazia dei demoi greci: piccole unità autogovernate sarebbero la base su cui costruire la società democratica del futuro, come immaginato e descritto da Takis Fotopoulos sviluppando un programma politico di Cornelius Castoriadis. Potrč osserva che le società che nascono in un contesto post-capitalistico tendono a fare progettazione su scala locale, rispondendo a principi di autonomia e autosostenibilità, secondo metodi vernacolari. Ispirandosi alle forme di coesione sociale delle comunità che vivono al di fuori di strutture di stampo modernista, l’artista ha accertato la contrapposizione tra la città informale, basata sul modello delle comunità rurali, e la città formale basata invece su quello urbano. Il rurale si contrappone all’urbano, come lo spazio comunitario si contrappone allo spazio pubblico. Da qui l’idea di innestare nelle comunità urbane alcune caratteristiche della cultura rurale per incentivare relazioni umane più profonde. Un lavoro tra i tanti che esemplifica la filosofia dell’artista slovena è la Semeuse ou le devenir indigène (2011 – in corso). Si tratta di un progetto che mette in relazione la biodiversità vegetale e la diversità culturale nella città di Aubervilliers a nord di Parigi. L’area è stata una zona rurale essenziale per l’approvvigionamento di Parigi prima di essere abbandonata in seguito all’evoluzione delle politiche agricole.

Qui si è sviluppata una banlieu multietnica e multiculturale ove convivono settanta diverse nazionalità. A partire da questo dato, con la collaborazione degli architetti Roz0, l’artista ha organizzato un laboratorio di coesistenza sociale e ambientale, un luogo d’incontro, dialogo, diffusione e scambio. Poiché molti degli abitanti hanno conservato abitudini alimentari dei Paesi d’origine e per cucinare determinati piatti sono necessarie spezie non facilmente reperibili in loco, si è pensato di coltivarle e di creare quindi un giardino condiviso di piante non autoctone. L’orto acquisisce una valenza politico-sociale ma anche un valore ambientale, è il luogo in cui ci si può contrapporre alle politiche dell’industria agroalimentare che alimentano processi di omogeneizzazione (le monocolture intensive) e artificializzazione (le sementi sterili e gli OGM, ad esempio) noncuranti della biodiversità essenziale per il pianeta. La pianta stessa diventa un simbolo di multiculturalismo e si rivela eccellente catalizzatore per la trasformazione del paesaggio sociale e naturale. Luogo di resistenza, la natura assurge ad alleato nell’impegno per una trasformazione critica della società, affinché avvenga il passaggio dalla città produttiva alla città prodotta dai suoi abitanti e non imposta dall’alto. Rifondare l’idea di comunità e tessere di nuovo i legami sociali sfaldati dall’economicismo è essenziale. Di fronte alla crescente dematerializzazione dei luoghi e delle conoscenze, urge creare spazi sociali di condivisione che, suggerisce Potrč, potremmo immaginare sul modello dell’antica agorà greca, così come auspicava Castoriadis.

Rispetto alla centralità della decolonizzazione dell’immaginario, una strategia praticata sovente dagli artisti consiste nel recuperare personaggi dimenticati portatori di posizioni teoriche marginali radicali scomode per il sistema, ma non per questo sterili, come accade nel lavoro di Michelangelo Consani o di Ettore Favini. D’altra parte, la decrescita stessa non è altro che una ostinata critica teorica e filosofica condotta da un manipolo di intellettuali dissidenti23. Tale approccio rientra inoltre in quella generale predisposizione della decrescita al recupero di una dimensione umana, della microstoria controcorrente, delle piccole cose in antitesi al gigantismo pantagruelico della società dello spettacolo, che tutto mediatizza e ingurgita sponsorizzando il concetto per cui «più è meglio».

Michelangelo Consani ha dedicato buona parte della sua opera all’opposizione al sistema capitalistico sondando limiti e possibilità di forme di economia alternativa come il dono e il baratto, pensando progetti e strategie di sostenibilità sociale e ambientale, e ponendosi in diretta continuità con il pensiero di Ivan Illich. Possiamo considerare, se non riassuntiva, certamente esemplificativa del suo approccio l’opera dal titolo Dynamo (2010). Qui la microstoria estranea al flusso della narrazione ufficiale si accompagna alla riflessione sulla sostenibilità sociale e ambientale in un tenace approccio integrato. Focalizzando sulla storia dell’atleta afro-americano Marshall Walter Taylor, leggenda del ciclismo dei primi del secolo scorso, che nonostante i pregiudizi razziali ha continuato a correre sfidando l’ottusa società del tempo, Consani ha realizzato una forma di ecologia democratica attorno alla bicicletta, simbolo della tecnologia a basso consumo «controllabile» (cioè conviviale nell’accezione illichiana) e accessibile a tutti24. L’installazione è articolata in due sale contigue non comunicanti. Nell’una troviamo una bicicletta, un altoparlante a diffondere il rumore delle pedalate e una lampada a LED, che può essere accesa attivando le tre biciclette presenti nella sala accanto. La fonte energetica è perciò nascosta a chi fruisce della luce. La consapevolezza del problema dell’inquinamento e dell’esaurimento delle risorse fossili si intreccia ad un’ecologia sociale. La presenza della lampada disegnata nel 1907 da Mariano Fortuny, che per primo impiegò il cotone nella moda introducendo un materiale ottenuto dal lavoro schiavistico nelle piantagioni coloniali, allude allo sfruttamento del lavoro nel sistema capitalistico. E in generale l’intera l’installazione esprime riprovazione per l’economia verde che dietro un’apparenza etica nasconde lo sfruttamento della natura e della manodopera.

L’attenzione per le storie marginali lo portano a riesumare ispiranti figure di disobbedienti, quella dell’anarchico Gogliardo Fiaschi o del botanico Masanobu Fukuoka, pioniere dimenticato della più radicale e sostenibile delle forme di agricoltura naturale che predica la minimizzazione dell’intervento umano e la messa al bando della chimica. Autore di The One Straw Revolution (1975) (La rivoluzione del filo di paglia, ovvero il potere politico racchiuso nelle piccole azioni), Fukuoka adottava un approccio consapevole delle correlazioni esistenti tra i vari aspetti della vita, per cui convertire il metodo di coltivazione significava agire sui valori strutturanti una società. Siamo in prossimità dell’ecologismo antitotalitario di Bernard Charbonneau25, contrario a qualunque forma di organizzazione della natura e di razionalizzazione della struttura sociale. La natura è l’uomo, si tratta di creare una nuova alleanza interspecie. Tale filosofia del «non fare» riecheggia anche nel laisser advenir adottato dal paesaggista, giardiniere e teorico del Terzo paesaggio Gilles Clément26, fautore della necessità di lasciare alla natura la propria libertà, di comprendere prima di agire e di «fare il più possibile con e il meno possibile contro» di essa.

Anche l’artista cremonese Ettore Favini si interroga, all’epoca de La verde utopia (2009), sulla possibilità di un rapporto ideale con la natura; si chiede se tale utopia sia un valore condiviso e applicabile, oppure sia invece destinata a restare un sogno individuale. A tal proposito compone anch’egli una galleria di ritratti di pensatori dissidenti accomunati dalla stessa insofferenza per il consumismo e il dominio antropocentrico della natura. I volti di Henry David Thoreau, Aldo Leopold, Paul Goodman, André Gorz, Christopher Johnson McCandless, John Seymour, Quentin Skinner e Justus von Liebig compongono un mosaico funzionale a definire la questione della natura come utopia in diversi ambiti e a differenti gradi di intensità. Rimarchiamo la presenza di Gorz, fondatore dell’ecologia politica, uno dei più importanti teorici della decrescita, e di Goodman, sostenitore di un anarchismo radicato nell’autonomia dell’essere umano, che ha influenzato il lavoro di Ivan Illich, in particolare nel saggio Deschooling society (1970).

Favini realizza poi una videointervista proprio a Gilles Clément, partendo dalla sua idea di diversità, collegando l’economia ad una ecologia che è anche sociale, e ritrovando, infine, la stessa utopia27 immaginata dagli autori raccolti nella galleria di ritratti. L’appello al diritto alla diversità dichiara una ferma opposizione alla forza omologante del pensiero unico imposto dalla società dei consumi, che non lascia spazio a voci di dissenso né a modelli alternativi. La conversazione verte anche su altri concetti chiave, come quello di Terzo paesaggio e di Giardino planetario, per atterrare sulla critica del pensiero darwiniano, sul ruolo politico del «giardiniere planetario» e sull’importanza della biodiversità.

L’approccio di Favini è di tipo immersivo e l’esplorazione della natura è anche e soprattutto indagine interiore. In Metodo Walden (2010), egli cerca un contatto diretto, solitario e prolungato con la natura, ispirandosi a Walden or Life in the Woods (1854), dell’autore statunitense Henry David Thoreau28, il quale non scrive sulla ma dalla natura. Tuttavia, piuttosto che scegliere luoghi intatti e selvaggi, Favini esplora spazi post-umanizzati, zone abbandonate di cui la natura si è riappropriata e che potremmo definire spazi di occupazione transitoria, non dissimili dai territori del Terzo paesaggio di Clément.

Favini porta in mostra questa esperienza declinando l’opera secondo il ritmo delle stagioni e suddividendola in quattro capitoli corrispondenti ad altrettanti brevi periodi trascorsi in luoghi differenti – la vecchia filanda Amman vicino Pordenone, l’ex industria metalmeccanica Armaguerra di Cremona, una discarica esaurita appartenente a una municipalizzata di Cremona e i bunker di Marina di Ravenna utilizzati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Luci, suoni, odori registrati durante i soggiorni en plein air sono rielaborati con la collaborazione di esperti e riproposti ai visitatori lungo un percorso allestito al MAR di Ravenna. L’artista si misura consapevolmente con un contesto diverso da quello in cui è vissuto Thoreau, e il suo Metodo Walden esprime il senso del fallimento di un’epoca, la disfatta di un sistema di produzione, mostrando un’altra fase del conflitto uomo-natura e comunicando l’imprescindibilità della ricomposizione di quell’antagonismo.

Núria Güell, How to expropriate money from the banks (2011).

Le relazioni tra l’uomo e l’ecosistema costituiscono il campo d’indagine dell’artista finlandese Mari Keski-Korsu, sensibile alle ricadute delle trasformazioni socio-economiche ed ecologiche nella vita quotidiana. Keski-Korsu si era già dedicata ai temi della permacultura, alla questione della biodiversità e della riduzione dei consumi prima di interrogarsi nello specifico sulla decrescita come processo di trasformazione sociale dal basso. Concepisce allora il progetto Happiness and Degrowth – Glad with less (2011-12) affascinata dai valori che la sostengono. La necessità di una crescita economica e tecnologica continua è uno dei maggiori problemi del sistema attuale che richiede quantità ingenti di risorse naturali con effetti negativi sull’ambiente, senza tuttavia apportare autentica felicità all’essere umano. Ma che cosa comporterebbe nella pratica avviare un percorso di decrescita? E come affronterebbero una tale ipotesi gli abitanti di una piccola città? L’artista approfitta dell’impasse economica della cittadina finlandese di Salo, la cui economia ruota attorno alla sede della Nokia, una fabbrica che in quegli anni è però sull’orlo della chiusura.

Mari Keski-Korsu avvia perciò un progetto con il supporto di un’équipe interdisciplinare di ricercatori in varie discipline (sviluppo urbano, economia, ecologia, agroalimentare). L’indagine comincia con interviste ai residenti riguardo all’origine della felicità, l’opportunità di vivere con meno, le modalità concrete di perseguire uno stile di vita frugale, o ancora quale tipo di economia potrebbe sostituire quella che ruota attorno alla presenza della Nokia nella zona. Per cercare di dare risposte concrete, l’équipe formula anzitutto un test performativo sulla felicità, una sorta di sondaggio, e allestisce un angolo confortevole con delle sedie a dondolo al mercato di Salo, nel cuore della comunità. Realizza anche una serie di interviste a giovani diplomati, interrogati riguardo a speranze, timori, progetti per l’avvenire. Il materiale raccolto è poi confluito in un progetto espositivo presentato al Salo Art Museum nel 2011. Un’installazione composta dalle sedie a dondolo, ciascuna con una traccia sonora dedicata alle nozioni di decrescita, felicità e tranquillità si accompagna a due video: Onni/Happiness restituisce stralci dalle conversazioni in piazza con i residenti e Kohtuus/Degrowth mostra un confronto tra ricercatori, residenti e commercianti mentre scorrono immagini di attività, già esistenti in città, ispirate a principi della decrescita, come l’agricoltura biologica, il km0, il trasporto collettivo. Una mappa, infine, segnala le pratiche di economia alternativa in atto e i luoghi «di decrescita» attivi nella zona.

Il risultato dell’inchiesta rivela una serie di dati significativi: principi quali l’autonomia, l’autogestione e la sostenibilità sono accolti come indicazioni coerenti con il benessere della comunità che guarda con favore a soluzioni come la coltivazione biologica, la filiera corta, l’incentivo alla piccola impresa, lo scambio di servizi. A livello individuale, le persone si sentono più appagate dedicandosi alle piccole cose del quotidiano, mentre il denaro è relegato, come l’economia, alla sfera dell’utile e non compare tra i concetti e i valori associati alla felicità. La partecipazione e la possibilità di influenzare i processi decisionali riguardanti la vita quotidiana della comunità, invece, sono giudicati essenziali.

Una rete di connessioni sottili collega il lavoro di questi artisti, e di molti altri, riconducendoli a uno stesso orizzonte critico marcato dal rifiuto del dogma della crescita, della dismisura, dell’omogeneizzazione culturale e dell’artificializzazione della natura. Le ragioni ambientali e sociali di tale critica si intrecciano, veicolate dai mezzi tipici di quella che è stata definita fase postmediale, da una molteplicità cioè di modi e forme che vanno dal video all’installazione, dal disegno alla fotografia, senza gerarchie, adattandosi alle necessità dei temi sino al passaggio dall’oggetto al processo che implica una dematerializzazione dell’opera in un divenire che non è mai effimero ma costruttivo, come i progetti agro-sociali di Potrč. L’arte si fa azione, pratica oppure documento, testimonianza, in ogni caso l’attenzione slitta dal dato estetico al senso etico.

Il quesito quantomeno legittimo sulla valenza e le prospettive di un sistema per troppi aspetti fallimentare sviluppa il prevalere di un disincanto che tende a pesare opportunità e conseguenze, ridimensionando le aspettative riguardo ai miti modernisti e demistificando il ruolo della tecnica senza scadere in atteggiamenti tecnofobici. L’intento dell’arte nello specifico è stimolare la consapevolezza e innescare un processo di cambiamento che scuota l’immaginario, per costruire un progetto diverso di mondo. Come? Ripercorrendo vecchi sentieri con occhi nuovi e lasciandosi ispirare da proposte non ortodosse censurate dal sistema; facilitando processi dal basso, ricominciando dalle piccole cose e guardando alla natura come alleata, come «struttura» di riferimento, alla ricerca di un’ecologia del pensiero capace di rifondare i valori dell’umanità.

Riferimenti bibliografici

Cornelius Castoriadis, L’institution imaginaires de la société, Seuil, 1975.
Bernard Charbonneau, Le Jardin de Babylone, Gallimard, 1969.
Gilles Clément, Il giardiniere planetario, 22publishing, 2008.
Takis Fotopoulos, Direct Democracy and De-Growth, in The International Journal of Inclusive Democracy, vol. 6, n. 4, 2010.
Nicholas Georgescu-Roegen, La décroissance. Entropie – Écologie – Économie. Presentazione e traduzione di Jacques Grinevald e Ivo Rens, Sang de la terre, 1995.
Ivan Illich, La convivialité, Seuil, 1973.
Ivan Illich, Énergie et équité, Seuil, 1973.
Katia Krupennikova, a cura di, Slow Future, catalogo della mostra, 27 luglio – 14 settembre 2014, Varsavia, Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle, 2014.
Holger Kube Ventura, Sabine Schaschl e René Zechlin, a cura di, Uber Die Metapher Des Wachstums / On the Metaphor of Growth, catalogo della mostra, aprile – luglio 2011, Christof Merian Verlag, 2011.
Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, 2010.
Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita. Precursori e compagni di strada, Bollati Boringhieri, 2016.
Henry David Thoreau, Walden, ovvero vita nei boschi, BUR, 1988.

 

Note

Note
1Per sostenibilità si intende la capacità di un sistema di soddisfare necessità economiche e rispondere a principi di equità sociale senza compromettere l’ambiente.
2Chi scrive ha dedicato a questo argomento la ricerca di dottorato. L’unico studio accademico precedente è Carme Pardo (a cura di), Art i decreixement. Arte y decrecimiento. Art et décroissance, Girona, Documenta Universitaria, 2016, pubblicato a seguito della Giornata Internazionale Art et décroissance, Università di Girona, 7 aprile 2014, organizzata dal collettivo formato da Roberto Barbanti, Kostas Paparrigopoulos, Makis Solomos e Carmen Pardo. Nessuno dei contributi si è soffermato sulla ricerca artistica e curatoriale preferendo trattenere il discorso su un piano teorico, senza cioè (con l’eccezione di Bordini) interrogare artisti né opere. Si segnalano inoltre Paolo Emilio Antognoli, Michelangelo Consani. Per una creatività della decrescita, in Arte e Critica, n. 54, 2008 p. 128-129; e Serena De Dominicis, Ipotesi decresciste di scenario post-sviluppista. E l’arte?, in Arte e Critica, n. 67, 2011, p. 74-75.
3Il termine appare per la prima volta nel saggio Écologie et liberté (1977) di André Gorz, in seguito è ripreso nel titolo della traduzione francese di un’opera di Nicholas Georgescu-Roegen (che non l’ha mai usato) Demain la Décroissance, curato da Jacques Grinevald nel 1979.
4Vedi Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita, Torino, Bollati Boringhieri, 2016.
5Almeno due linee segnano la grande famiglia della decrescita: la prima è quella della critica culturalista dell’economia, quella degli anti-sviluppisti che fanno riferimento alla figura di Ivan Illich (Serge Latouche); la seconda mette in discussione l’economia attraverso l’ecologia ricollegandosi alla bioeconomia di Georgescu-Roegen. Questa è rappresentata in Francia da Grinevald, in Italia da Mauro Bonaiuti.
6Il movimento nasce in Francia tra il 2001 e il 2002 per iniziativa dell’economista Serge Latouche. Nel 2001 esce il numero speciale de L’Écologiste con il titolo «Défaire le développement, refaire le monde» (n. 6, vol. 2, inverno 2001). Seguono il Manifeste du réseau européen pour l’après-développement (READ), redatto dal Circolo François Partant e apparso sulla Revue du MAUSS nel febbraio 2002, e il primo convegno dal titolo Défaire le développement, refaire le monde dello stesso anno. A tal proposito, rimandiamo agli atti: Les amis de François Partant (a cura di), Défaire le développement, refaire le monde, Parangon/Most/La ligne d’Horizon, 2002.
7Bideceinge, a cura di Antonietta Campilongo, ISA – Istituto Superiore Antincendi, 24 febbraio – 8 marzo 2009; De-Art. L’arte per la decrescita, Istituto Italiano di Cultura di Lubiana (Slovenia), 8 marzo – 9 aprile 2010; 7 x 8R – Arte & Decrescita, curata da Adriano Perini, Museo d’Arte Moderna Ugo Carà, Muggia, 2011; Decresce project, CLAC Centro Labicano per l’arte contemporanea – Villa De Sanctis, 27 gennaio – 5 febbraio 2012 Roma; Art on Degrowth, a latere della IV Conferenza Internazionale della Decrescita che si è tenuta a Lipsia nel 2014 in vari luoghi della città.
8Si tratta di On the Metaphor of Growth, 2011, suddivisa in tre spazi diversi tra Germania e Svizzera, Kunstverein Hannover, Frankfurt Kunstverein e Kunsthaus Baselland; Plus de Croissance. Un capitalisme idéal, 2012, Ferme du Buisson, Noisiel, Francia e Systemics 3#: Against the Idea of Growth, towards poetry (or, how to build a universe that doesn’t fall apart two days later), 2014, allestita al Kunsthal Aarhus in Danimarca.
9Il tema era già apparso negli anni Sessanta in autori ascrivibili all’Arte povera e oltreoceano in Robert Smithson e Gordon Matta Clark. All’epoca era proposto nell’accezione di caos, instabilità, dinamismo della materia, contrapposto alla razionalizzazione progettuale, spaziale, architettonica anche, ma non era inquadrato, come in questo caso, all’interno di una specifica critica al sistema di crescita. Cfr. Elio Grazioli, La polvere dell’arte, Paravia Bruno Mondadori, 2004.
10Economista padre della bioeconomia, precursore della decrescita, Georgescu-Roegen espose le sue tesi nel saggio The Entropy Law and the Economic Process (1971) che non fu esente da aspre critiche anche per incongruità relative all’interpretazione erronea di alcune leggi della fisica. Ciò tuttavia non incide sul nostro ragionamento in questa sede, ove l’intento non è celebrativo della decrescita o dei suoi ispiratori.
11Holger Kube Ventura, Sabine Schaschl e René Zechlin (a cura di), Uber Die Metapher Des Wachstums / On the Metaphor of Growth, catalogo della mostra, aprile – luglio 2011, Christof Merian Verlag, 2011
12Dispendio: Contro la morale utilitaria del modernismo, Georges Bataille recupera l’antica prassi del dispendo improduttivo e del potlatch. La notion de dépense comparve per la prima volta sulla rivista La critique sociale, n. 7 nel 1933; fu poi pubblicata in Georges Bataille, La Notion de dépense in La part maudite, Éditions de Minuit, 1967.
13Cfr. Katia Krupennikova (a cura di), Slow Future, cat. della mostra, Centre for Contemporary art Ujadzowski Castle, Varsavia, 27 luglio-14 settembre, 2014.
14Si segnala la recente approvazione in sede di Commissione Europea del «diritto alla riparazione» con il Regolamento 2021/341 secondo cui le aziende devono garantire componenti di ricambio per i loro prodotti per i successivi 10 anni dal ritiro dal mercato dell’ultima unità.
15Si trattava di General Electric Company, Tungsram, Compagnie de Lampes, OSRAM et Philips. Si suggerisce la lettura di Vance Packard, The Waste Makers (1960) che svela tecniche pubblicitarie e commerciali fornendo una analisi minuziosa dell’obsolescenza programmata, oggetto di diversi processi sin dagli anni Venti.
16Per dettagli a tal proposito si rimanda a osram-lamps.it/lampade-led/index.jsp
17La parola greenwashing deriva dalla combinazione di green, (verde in senso ecologico) e whitewashing, ovvero l’atto di nascondere fatti spiacevoli. Fu coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld in risposta alle false e dispendiose campagne pubblicitarie che spacciavano come eco-friendly alcune tra le più inquinanti aziende americane, tra cui Bechtel, Chevron e DuPont. Segnaliamo che il 27 marzo 2014 è entrato in vigore l’articolo 12 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale dedicato proprio alla «Tutela ambientale» con lo scopo di controllare la veridicità dei messaggi pubblicitari a contenuti green.
18Cfr. L’artista dichiara di essere a conoscenza di varie iniziative ispirate a questa lezione di espropriazione, dunque potremmo dire che il progetto ha avuto conseguenze concrete [online] https://interartive.org/2013/01/entrevista-nuria-guell/
19La riserva frazionaria è la percentuale dei depositi dei correntisti che la banca è tenuta a mantenere come riserva e che dunque non può movimentare, ma solo custodire. Si compone di riserva obbligatoria (accantonamento contabile e finanziario a garanzia dell’esposizione debitoria con altri istituti di credito), riserva a garanzia (fondo interbancario a garanzia dei correntisti) e riserva legale e statutaria (accantonamento volontario con massimale stabilito per legge). Nel 1957 tale percentuale era fissata per legge al 25%, dal 2012 è l’1%, e in alcuni Paesi come Australia, Canada e Regno Unito il vincolo della R.F. non c’è. La banca è dunque in grado di moltiplicare il denaro dei correntisti, creandolo di fatto dal nulla.
20Cfr. https://interartive.org/2013/01/entrevista-nuria-guell/
21Il manuale è scaricabile in formato pdf: https://39310790.servicio-online.net/wp-content/uploads/2020/03/Como-podemos-expropiar-dinero-a-las-entidades-bancarias_nuria-guell.pdf
22Cfr. New Territories in Acre and Why They Matter: Notes on Hope and the Game  of Coexistence è stato pubblicato in Green Platform, catalogo della mostra al Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze nel 2009, p.56-63. Potrč fa un esplicito riferimento all’articolo di Latouche, Why less should be so much more: Degrowth economics, apparso in Le Monde Diplomatique, novembre 2004
23Serge Latouche, Les mirages de l’occidentalisation du monde. En finir, une fois pour toutes, avec le développement, Le Monde Diplomatique, maggio 2001, pp. 6-7.
24Consani aveva pensato (ma poi non lo ha fatto) di inserire in mostra la frase di Illich: «La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta», Énergie et équité, Seuil, 1973, p. 15.
25Bernard Charbonneau, Le Jardin de Babylone, Gallimard, 1969.
26Rientrano nella definizione i luoghi verdi abbandonati dall’uomo, non sfruttati e dunque spontanei che diventano rifugio per le specie cacciate dai diserbanti, le quali sono portatrici di semi contenenti un ricco messaggio biologico.
27Quando si parla di «utopia della decrescita»o di «utopia verde», dobbiamo tenere in considerazione l’ambivalenza che il lemma ha gradualmente acquisito: da un lato l’accezione di modello ideale senza corrispondenza nella realtà, dall’altro il valore di proposta costruttiva con una concreta capacità di rinnovamento e non più una proiezione fantastica irrealizzabile – ed è a questa seconda opzione che ci riferiamo in questo contesto. Non è quindi un caso che Latouche parli di «utopia concreta»della decrescita, così come Clément di «utopia realista quotidiana e concreta».
28Thoreau è anche l’autore di Disobbedienza civile (1849): afferma che sia ammissibile violare la legge se questa va contro la coscienza e i diritti dell’uomo. Nega, inoltre, il diritto assoluto della maggioranza, poiché esiste un limite che neppure la volontà popolare può varcare, cioè i diritti fondamentali dell’uomo, in particolare delle minoranze.

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