Essere e godere la pulsione
A partire da «L’intruso» di Jean-Luc Nancy
L’intruso di Jean-Luc Nancy torna in Italia proprio nei mesi durante i quali il governo italiano progetta e realizza un lager nel quale esternalizzare la detenzione di persone migranti innocenti; lo stesso miscuglio di ridicolo, trivialità e tragedia è nell’impegno, ancora da parte di tale governo, a fare della gestazione per altri un reato universale (sic!). Sono poi gli stessi mesi nei quali il warfare globale solletica le retoriche di chi ama rifugiarsi nelle comode divisioni tra noi e loro, l’Occidente e il resto del mondo, il bene contro il male. È in questo contesto che il libretto torna: la prima edizione risale al 2000, anno in cui fu pubblicato anche in Francia, ma, proprio come un intruso, questo magnifico testo non smette di venire, di farsi sentire. Nancy stesso torna più volte sul suo libro, innestandovi piccole protesi nel 2005, poi nel 2010 e ancora nel 2017; questa nuova edizione Cronopio, curata come la precedente da Valeria Piazza, raccoglie tutti questi materiali, insieme a un breve dialogo tra l’autore e la curatrice, e vi aggiunge una importante postfazione di Antonella Moscati, traduttrice e studiosa di lungo corso del filosofo francese.
In realtà la primissima pubblicazione de L’intruso risale al 1999, quando Abdelwahab Meddeb, intellettuale tunisino e insegnante di letteratura comparata all’Università di Paris-Nanterre, propone a Jean-Luc Nancy, tra i maggiori filosofi del secondo Novecento morto nel 2021, di partecipare a un numero della rivista «Dédale» dedicato al tema La venuta dello straniero. Sul finire del secolo le migrazioni dal Nordafrica, e non solo, iniziavano ad assumere dimensioni molto significative, e di lì a poco sarebbero diventate il tema politico dominante in Europa e in tutto il cosiddetto Occidente. Nancy, però, spiazza il curatore della rivista perché offre un breve testo – che l’anno successivo sarebbe uscito come libro – che non solo non parla direttamente di migrazioni, ma schiva completamente l’ambito politico per concentrarsi invece su una vicenda strettamente personale, sul più intimo dell’intimo: Nancy parla del suo cuore. Non in senso figurato: parla proprio del suo cuore, dell’organo in tessuto muscolare striato involontario che ha nel torace. Quell’organo circa dieci anni prima aveva iniziato a funzionare male fino a dover essere trapiantato nel 1991.
Qualcuno o qualcuna muore e dal suo corpo morto viene estratto il cuore poi impiantato nel corpo di Nancy, che altrimenti sarebbe morto: corpo glorioso, dunque, che supera la morte continuando ad attraversarla, a portarla in sé indistinguibile dalla vita. Per i successivi trent’anni il corpo di Nancy dovrà allentare la capacità immunitaria per scongiurare il rigetto. «Identità equivale a immunità, l’una si identifica con l’altra. Abbassare l’una è abbassare l’altra» (p. 30): solo rinunciando a ogni postura identitaria, solo esponendosi all’estraneo senza mai assimilarlo la vita può essere rilanciata.
Molte soglie si confondono. Quella tra la vita e la morte, appunto. Ma anche il giusto e l’ingiusto non si lasciano più pensare senza che il dominio strettamente morale sia invaso da questioni eminentemente tecniche: Nancy si chiede cosa renda la sua, proprio la sua e non quella di un altro o di un’altra, una vita da prolungare, e quale possa essere un’età giusta per morire (p. 20). Ancora: il proprio e l’estraneo non si distinguono più: è intruso il cuore che si fa sentire perché malfunzionante o quello estraneo che viene impiantato e che consente di vivere ancora? Che cos’è mio, proprio, estraneo? E poi, ben al di là del personale che è politico – insegnamento fondamentale venuto dai movimenti degli anni Sessanta, in particolare quelli femministi –, Nancy sposta radicalmente i significati di queste parole. Non si tratta più di riconoscere che la politica entra anche nella sfera privata, essendo ormai desueta la categoria di persona che difendeva dall’intrusione del potere statuale una sfera esistenziale propria e inviolabile. Posto che questa stessa distinzione tra pubblico e privato, politico e impolitico, è essa stessa politica, Nancy va molto più in là: tutti questi concetti sono trascinati via e spiazzati da un processo che Nancy chiama «tecnica» o «metatecnica» e che costringe a ripensare radicalmente il mondo, noi stessi. Tutto è preso, è anzi costituito da «un’arte delle combinazioni, supplementazioni, sostituzioni, permutazioni, protesi, rigenerazioni, iscrizioni, trasferimenti, trasposizioni, transazioni… Non si sa dove fermare la concatenazione o forse piuttosto il contagio, la contaminazione, la trasfusione o addirittura la confusione delle tante operazioni che oggi caratterizzano la combinatoria generale nella quale siamo trascinati (pp. 68-69)».
La frontiera stessa, la demarcazione tra il proprio e l’improprio si fa problematica fino a svanire. Emerge qui, in tutta la sua irriducibilità, quella impossibilità di inquadrare il politico come sfera autonoma che è stata, sin dai primi anni Ottanta, un tratto caratterizzante tutta la ricerca di Nancy.
La prosa nancyana è suggestiva, capace di mettere in moto il pensiero in mille direzioni, e, allo stesso tempo, molto precisa, puntuale, in grado di contornare cose, pratiche, processi, concetti con estrema «esattezza» (questa essendo, per altro, una parola chiave del suo lessico). Per questo non si esamineranno i mille risvolti di questa eccezionale «autobiografia filosofica», come la definisce Valeria Piazza (p. 44). Si lascerà al lettore il piacere di scoprire il gusto, o, nei termini di Nancy, il senso di queste pagine. Qui si vorrebbe piuttosto sottolineare gli effetti di questo continuo ritorno del filosofo sul suo testo. Cosa produce questo inesausto tornare a mettere in questione l’estraneo? Cosa significa sentire sempre l’intruso senza mai assimilarlo? Cosa cambia nel pensiero, nell’esperienza di Nancy? Può essere interessante affrontare queste domande perché non si tratterebbe solo di un esercizio filologico, appassionante per gli addetti ai lavori, ma di un modo per cogliere aspetti salienti del nostro tempo. Caratteristica eminente del lavoro di Nancy, infatti, è che esso non ha mai inteso essere edificante, al contrario si limita a registrare, con una certa passività, movimenti profondi in atto. Come lui stesso scrive, questa sua riflessione biografico-filosofica non ha nulla di universale: è la condizione stessa di trapiantato a vietare la tentazione della generalizzazione, dal momento che pochi anni prima del suo incidente le tecniche e le terapie erano molto diverse, dunque potenzialmente non applicabili al suo caso, e in futuro saranno ancora diverse: in questa riflessione «una contingenza personale si incrocia con una contingenza della storia delle tecniche» (p. 14).
Dunque solo due spunti di riflessione. Il primo riguarda il mutamento nella percezione o, di nuovo, nel senso dell’estraneità. Ancora nell’aggiunta del 2005, come già nel testo del 2000, Nancy afferma che estraneo non è il cuore che gli è stato impiantato, bensì il suo stesso corpo, che dal giorno del trapianto gli sarà accessibile solo attraverso continui monitoraggi, oltre che per la mediazione di malattie e complicazioni. L’intruso è Nancy stesso che, grazie al cuore di un altro o di un’altra, gode di un supplemento di vita: «non ho più un intruso in me: sono io che lo sono diventato, ed è da intruso che frequento questo mondo nel quale la mia presenza potrebbe essere troppo artificiale, troppo poco legittima» (p. 56). Nancy dice di sé e dei suoi simili che insieme essi sono «l’inizio di una mutazione» (p. 38). Questi «androidi o morti-viventi» (ivi) si aggirano in un mondo che ancora non è pronto per loro, e del resto, conclude, «quale civiltà è davvero all’altezza di ciò che la tecnica rende possibile?» (p. 71).
Tuttavia nell’aggiunta del 2010 il discorso muta. Come se Nancy sentisse sempre più incalzanti gli effetti di quella «combinatoria generale nella quale siamo trascinati», adesso il mondo gli appare pronto per ospitare questi strani corpi dei trapiantati, vivi perché hanno in sé pezzi di altri morti. O, più precisamente, la loro presenza non ha alcun fondo rispetto a cui fare contrasto; è ormai impossibile pensare un primum naturale rispetto a cui risalterebbe l’artificio tecnico.
«Tutto è intrusivo in questo intreccio inestricabile di natura e artificio che costituisce il mondo degli esseri umani, cioè il mondo tout court, assolutamente e senza fuori. In verità questo intrico mi dà sempre meno la sensazione di essere straniero – a quale ordine ‘naturale’ sarei straniero? – e sempre più la consapevolezza di una familiarità crescente con questo corpo aggiustato, rabberciato, pieno di apparecchi (p. 61)».
Insomma, il tema della tecnica – che a partire da Une pensée finie (1990) ha attraversato tutta la sua riflessione – nell’ultimo Nancy si radicalizza, e proprio a ciò si connette l’altro spunto di lettura che si vorrebbe proporre, aprendo una prospettiva leggermente diversa da quella indicata da Moscati nella sua postfazione. Si tratta di una certa meccanicità ontologica: l’essere si dà meccanicamente, senza le pieghe, le interiora attraverso cui si organizza il vivente. Nancy segue la meccanica dell’esistenza, letteralmente lo spingersi fuori di ciò che è. Molto al di là della vita, dunque. In particolare negli ultimi anni del suo lavoro, il filosofo francese cerca di decostruire del tutto ogni prospettiva antropocentrica. Sebbene, in verità, tutti i suoi lavori sin dagli esordi siano del tutto inconciliabili con una visione antropologica o antropocentrica, tuttavia il linguaggio – il proprio dell’umano – resta in buona parte l’elemento che consente la costituzione di mondo, quest’ultimo essendo nient’altro che la circolazione del senso. Non a caso nell’ultima citazione qui riportata il mondo è associato all’umano, allo scorrimento del linguaggio.
Negli ultimi anni Nancy ha attenuato la centralità del senso e, nel tentativo di aprire il pensiero a una prospettiva ancora più radicalmente ontologica o metafisica, distante da ogni postura antropologica, ha cercato di concentrarsi effettivamente sulla vita. È quanto scorge con grande acutezza Moscati: «è la vita, molto più del senso, che circola e che, a differenza del senso, non equipara gli enti nei loro nomi, non ne elimina le differenze, ma vive permettendo continuamente intrusioni e trasformazioni, assimilazioni e disarticolazioni, ingestioni, ma anche escrezioni e respingimenti» (p. 83). Tuttavia mi pare che il discorso si possa allargare ulteriormente, dall’uomo, al vivente, all’inorganico, al non vivente, all’essente, a tutto ciò che c’è. Non c’è dubbio, infatti, che la vita guadagni un certo spazio nel pensiero dell’ultimo Nancy: lo si vede in alcune pagine del testo che egli ha concluso in punto di morte, Cruor, uscito postumo per Galilée nel 2021. È un testo che ha un tono tragico, oscuro, molto distante dalle aperture luminose che sempre hanno caratterizzato la prosa nancyana. Cruor si concentra sul sangue, quello che scorre nelle vene (in latino sanguis), ma in particolare quello che sgorga fuori dal corpo (in latino cruor, appunto). Al centro del libro è la pulsazione che dinamizza il sangue e lo fa scorrere, dentro o fuori dal corpo: ciò che, insieme, consente la vita e la morte, o, come scrive Nancy riprendendo Derrida, «la vita la morte». Questo intrico di «vita morte», infatti, è pensato da Nancy come ritmo, fort/da, andirivieni, oscillazione. In Cruor si può leggere: «La vita si riceve e si dà. Essa viene da altrove. La vita si dà ciò che la fa vivere. Il vivente manifesta il ritmo come pulsione propria» (p. 21).
A ben vedere, dunque, il vero tema nel quale cerca di inoltrarsi l’ultimo Nancy è proprio la pulsione, la spinta, Trieb, conatus. La pulsione non è un’origine, non c’è alcun motore immobile da cui provenga un impulso primitivo: essa è, invece, l’essere che è in atto come differenza. È il ritmo stesso nel quale gli enti, tutti gli enti si presentano. La spinta coincide con lo sparpagliarsi, con la disseminazione degli enti. L’esistenza non procede da, ma è questa pulsione. Gli enti, tutti, la subiscono e la sono, inscindibilmente. Come scrive Nancy ne L’intruso: «è come cadere in mare pur restando ancora sul ponte» (p. 15). O, come scriveva nel breve intervento Chance. Fortuita furtiva fertile (La Pieve, 2011), «siamo colui che cade e al tempo stesso si vede cadere» (p. 10). La cieca meccanica di questa mera spinta sembra essere il tema eminente dell’ultimo Nancy, che significativamente evita il termine ‘desiderio’ forse proprio perché troppo vitalista. Il carattere meccanico, tutto esteriore di questa ontologia è palesato dal filosofo stesso quando ne L’intruso fa riferimento alla pura «meccanicità» dei suoi problemi di salute: «mi sembra che questa meccanicità si coniughi bene con qualche cosa di me: un me tutto in esteriorità, senza interno, senza quelle pieghe dell’interno in cui la malattia infettiva o infiammatoria può insediarsi» (p. 46).
Pura spinta, conatus, una meccanica cieca. In definitiva: essere senza fini. Questa assenza di fini è ciò che dà all’ultimo Nancy il tono tragico cui accennavamo: il tragico è nel fatto di non poter gestire un processo «metatecnico» che ci travolge costituendoci. Tuttavia, l’assenza di fini è anche ciò a partire da cui Nancy cerca di elaborare un pensiero che non sia sbilanciato verso il futuro, che ma che faccia del godimento, del presente, il suo spazio-tempo. È qui e ora, non in un futuro da progettare, che possiamo/dobbiamo godere del conatus che siamo.
Intervenire nel mondo – esigenza intrinseca di un pensiero radicale – non può essere un fatto intenzionale, progettante: ciò richiederebbe un suolo installati sul quale i soggetti umani dovrebbero pianificare una serie di misure per affrontare gli effetti di questo processo metatecnico che disegna le nostre vite: come accade negli esempi riportati a inizio di questa riflessione, tali misure non sarebbero che una serie di vani interdetti, e la postura di essi non sarebbe, in ultima analisi, che fascista. Dunque, non intenzionalità, ma esposizione. Stare nel flusso, si direbbe in un linguaggio vagamente freak; essere e godere la pulsione. Diventare disumani, accogliere la chance della mutazione, lasciare che l’uomo superi infinitamente l’uomo, per dirla con Pascal.
Non si tratta di passività: è necessaria piuttosto una «decisione», ma questo termine è da Nancy sottratto a ogni semantica soggettivistica e intenzionale: «siamo costretti a decidere: o lasciare che un cieco processo si appropri delle nostre esistenze o cercare di riappropriarci del processo stesso» (p. 66). Ma «la decisione può aver luogo solo nell’indecidibile» (ivi), ovvero non all’insegna del calcolo, del noto, della difesa del già dato; decidere vuol dire sperimentare, rischiare, andare a tentoni, senza la guida luminosa e rassicurante di una ragione che si presume universale. L’importante è sperimentare per non lasciare che il processo metatecnico si sganci del tutto da noi, l’importante è radicarci in esso e lasciare che esso si radichi in noi: accompagnare «una mutazione radicale (cioè uno sradicamento), perché in questo consiste una vera radicalità» (p. 70). Essere la spinta che siamo, «l’inquietante spinta dello strano, conatus di un’infinità escrescente» (p. 40).
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