Pensare altrimenti

Una «vita» di Gilles Deleuze

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Uccello disegnò le sue labbra, e i suoi occhi, e i suoi capelli, e le sue mani, e fissò tutti gli atteggiamenti del suo corpo; ma non fece mai il suo ritratto, così come facevano gli altri pittori che amavano una donna.
M. Schwob, Vite immaginarie

Che cos’è una biografia filosofica? Leggendo Deleuze. Filosofia di una vita (Carocci, 2023), di Filippo Domenicali e Paolo Vignola, verrebbe da pensare a una tecnica pittorica. Delineare il profilo, individuare le caratteristiche fondamentali della postura, mettere a fuoco i dettagli del volto, rappresentare le inclinazioni: la prossimità tra ritratto e biografia è un noto topos letterario. Una tavolozza composta da dodici capitoli, dodici colori, con i quali i due filosofi tracciano le linee del pensiero deleuziano, senza conoscere, come il Paolo Uccello di Schwob, «la gioia di limitarsi all’individuo»1. Senza concedersi il lusso del punto, Domenicali e Vignola seminano articoli indeterminativi e creano giochi di specchi.

Deleuze prima, e oltre, Deleuze

La prima sezione mette già il lettore in guardia: una ricognizione cronologica degli eventi della vita di Deleuze è possibile solo a condizione di affermare che c’è sempre un Deleuze prima di Deleuze. C’è il Deleuze studente dietro al Deleuze che, con sguardo retrospettivo, afferma che la propria opera può essere divisa in tre periodi; c’è il Deleuze nella Francia del suo tempo prima di quello contemporaneo a Domenicali e Vignola; c’è il Deleuze nietzschiano prima del Deleuze con Guattari; c’è il Deleuze italiano prima di Deleuze. Filosofia di una vita. La tela non è mai bianca2. Occorre allora che una biografia filosofica sia prima di tutto un metodo di indagine e di interpretazione che non ceda alla tentazione di dedurre il pensiero dalle rughe di un volto, né di imputare al primo i segni sul secondo. Ma se una biografia filosofica non si rivolge propriamente alla biografia per dedurre da quella la filosofia del suo autore, a cosa guarda nel suo incedere e in che modo fa sì che l’aspetto biografico ne sia parte? Giocando con un noto passaggio di Differenza e ripetizione: cosa significa immaginare un Deleuze filosoficamente corrucciato? Domenicali e Vignola provano a rispondere secondo il principio spinoziano di derivazione degli effetti dalle cause: per capire il «decentramento funzionale»3 che gli autori attraversati dallo sguardo di Deleuze subiscono, occorre innanzitutto individuare i problemi posti dallo stesso Deleuze.

Nel problema filosofico infatti, vita e opera si intrecciano: «la grande lotta della filosofia»4 si apprezza tra le pagine del trittico del 1968-69 e nei sassolini bianchi raccolti contro i fascisti che attaccano in rue Pasteur. I dibattiti del tempo, le correnti storiografiche, il clima intellettuale e politico, il contesto accademico diventano significativi, anche se non per questo parlanti, per capire per quale ragione alcuni temi vengono introdotti «brutalmente» negli autori che Deleuze legge. Si tratta di un gioco di vuoti e pieni: la differenza in Bergson con e oltre Hyppolite, un Sacher-Masoch all’ombra di Sade, quel Nietzsche che tutto contamina, un buco di otto anni nella scrittura e un altro nel polmone. Punti notevoli di un grafico di funzione, gli episodi biografici qui raccolti sfuggono alla trappola del rappresentativo, che l’immagine del ritratto implica, per delineare i tratti del divenire-Deleuze, dell’esercizio reale del suo pensiero attraverso i testi. Pregio assoluto del volume è proprio quello di non raccontare Deleuze l’esemplare, Deleuze l’irraggiungibile della teoresi, Deleuze l’eccentrico travestito da ordinario professore, bensì il Deleuze lettore, il Deleuze che legge enunciati, segni e persino immagini5. Il pacato corrucciamento con il quale Deleuze accoglie chi si appresta alla lettura di Deleuze. Filosofia di una vita, suggerisce allora con la stessa intensità, al novizio della sua opera e allo studioso navigato, che corrucciarsi significa in primo luogo concentrare su di sé gli effetti del gesto filosofico altrui tramite la lettura, lasciarsi attraversare dalla potenza di quell’impersonale che sopravvive a chi lo enuncia per lasciar affiorare, in forma di incisione sul corpo, il non detto che lo muove, e rilanciare, proprio a partire da quell’incontro, il pensiero.

L’impresa collettiva Deleuze & Guattari (D&G)

Domenicali e Vignola sottolineano opportunamente come il sodalizio con Guattari testimoni, ben oltre l’astrattezza della teoresi, la necessità esistenziale e insieme filosofica di tale istanza per Deleuze. Sfuggire a se stessi per affermare la propria linea di vita. Di riflesso, il lusso dell’individuale non si presta alla ricostruzione della filosofia deleuziana: le quattro mani degli autori si intrecciano a loro volta alle voci di biografi e interpreti del pensiero deleuziano a livello nazionale e internazionale, aggiungendo così fili preziosi a un telaio interpretativo piuttosto fitto, sebbene tutt’altro che omogeneo. Non in maniera indistinta, si intende. Deleuzianamente, la distinzione consiste al contempo nel processo di selezione e nel movimento di differenziazione, nella scelta di «singolarità selezionate per convergenza»6, il cui effetto è, ancora una volta, un’interpretazione di quel possibile che è il connubio tra concetto e vita. Ed è a questo punto che lo sguardo del lettore può accogliere, dopo essersi soffermato sulle apparenti linee parallele dei solchi sul viso di Deleuze (l’apprendistato nell’ambito della storia della filosofia, le sperimentazioni degli anni Settanta, l’attenzione al fuori della filosofia dal 1980 a Che cos’è la filosofia?) il loro congiungersi, immaginario e insieme reale, nel sorriso del filosofo. Riprendendo un commento dell’amico Châtelet, Domenicali e Vignola mostrano non solo come sia possibile leggere il «lavoro di Deleuze sulla storia della filosofia come una parodia», ma anche che nella stagione dedicata al progetto Capitalismo e schizofrenia «a essere parodiata è la storia universale»7. In altri termini, la messa in scena teatrale che caratterizza il rapporto di Deleuze con la storia della filosofia in quelli che sono definiti gli anni dell’apprendistato, si apre al fuori scena, all’osceno, fino a farsi grand-guignol dello spirito assoluto.

Deleuze e Guattari rivolgono la propria attenzione all’«universalismo dell’inconscio»8, impensato per eccellenza, perché impensabile, dell’idealismo, trovando nell’economia politica e nella psicanalisi il nuovo terreno di battaglia. Con le parole di Domenicali e Vignola, all’altezza del 1972, come testimoniano L’anti-Edipo da una parte e «Pensiero nomade» dall’altra, si passa dal teatro alla fabbrica, dall’interpretazione alla macchinazione, dalla storia della filosofia alla filosofia sperimentale, dal modello al processo, dal rappresentare al fare9. Fare cosa? Il molteplice:

è come camminare su di un nastro di Möbius, dove si passa dalla critica economica, libidinale e micropolitica del capitalismo e della sua assiomatica alla creazione di forme di emancipazione basate sugli stessi concetti analitico-critici10.

Mille piani, suoni, lingue, a venire

La sperimentazione nel fuori della filosofia non ha argini. Con attenzione pedagogica, i due autori del volume, lungi dal soccombere al travolgente linguaggio deleuzo-guattariano, portano, con mano ferma, il lettore in salvo dal vortice dei Mille piani. Attraverso le parole di Carmelo Bene da una parte e un affondo sul lavoro di lima che trasforma la kleine literatur di Kafka in letteratura minore, Domenicali e Vignola individuano un ingresso privilegiato, se non inedito senz’altro raramente attraversato, al problema filosofico che sottende al volume del 1980. Dalla soglia di quel fuori, ci conducono all’interno del volume, tracciando un filo rosso che va dalla “geologia della morale” alla Meccanosfera (parola sulla quale si conclude l’opera). Sulla soglia, le pagine del volume possono essere sfogliate udendo al contempo i «diversi ritmi, suoni anche gutturali, ripetizioni, gemiti, glossolalie, cantilene, come altrettante componenti di un concetto al punto di essere espresso»11, che caratterizzano il modo di lavorare di Deleuze in aula ogni martedì mattina. È forse proprio la voce-musica di Deleuze, spesso apprezzata dai suoi studenti, il tratto che eminentemente emerge, definendone l’intento, dalle pagine di questa biografia filosofica: introdurre al farsi del pensiero ad alta voce, esplorarne gli intorni. E nel gioco corale e concertistico di questa voce, ci dicono ancora tra le righe gli autori, il buon intenditore sente la voce, tonale e umorale insieme, della crasi Spinoza-Nietzsche, alla quale si aggiunge, già dal primo biennio degli anni Ottanta, un inedito Bergson. La tensione disindividualizzante della voce che emerge dal pensare-con è oggetto del capitolo 10, dedicato a Deleuze-Foucault. Leggere tutto, attardarsi sulle crisi e sugli eventi, non interpretare ma sperimentare: Domenicali e Vignola si ispirano «ai principi della lettura deleuziana di Foucault»12 individuati da Sauvagnargues (esaustività, storicità e sperimentazione) e li fanno propri nel modo in cui restituiscono Deleuze al lettore.

L’elemento violento, la forzatura che Deleuze impone ai testi ai quali si rivolge trova alla fine degli anni Ottanta una nuova declinazione concettuale nell’inclusione, ossia nel movimento di inflessione attraverso il quale l’evento viene incluso nel concetto. La deflagrazione del testo altrui è necessaria dalla prima all’ultima pagina in Deleuze. Le parole dedicate alla metodologia e all’intento di Leibniz ben si applicano allora all’incedere dello stesso Deleuze:

cercare ogni volta di estendere la propria regione d’espressione chiara, cercare di aumentare la propria ampiezza, in maniera tale da produrre un atto libero […]. Estendere la propria regione chiara, prolungare al massimo il passaggio di Dio, attualizzare ogni singolarità che si concentra in noi, e magari acquisire nuove singolarità13.

Anche quando il corpo impone a Deleuze l’interruzione delle attività didattiche, questo movimento di espansione prosegue nella partecipazione a esperienze collettive e a nuove sperimentazioni. Dalla co-fondazione, con Guattari, della rivista “Chimères” all’ingresso delle telecamere in aula e in casa – durante la sua ultima non-lezione e nel corso delle riprese dell’Abecedario ̶ dal Pourparler allo scambio epistolare con Badiou, la voce di Deleuze, sempre più metallica, non smette di intrecciarsi all’Altro. È ancora nell’impresa collettiva che si dà la domanda che sottende l’intero percorso di Deleuze, con quel commisto tra severità classica e spensieratezza che inevitabilmente l’accompagna: Che cos’è la filosofia? Domenicali e Vignola ripercorrono la «preistoria»14 del volume del 1991, retrodatandone il progetto al decennio precedente, e ne individuano la necessità nella crisi attraversata dalla filosofia francese di quegli anni. Nuovi pretendenti si affacciano sulla scena culturale, intellettuale e politica del pensiero, svalutando quello che Deleuze e Guattari individuano come il gusto filosofico. Si tratta, chiariscono Domenicali e Vignola, di una vera e propria «facoltà del coadattamento, che regola la creazione dei concetti, l’instaurazione del piano [d’immanenza] e l’invenzione dei personaggi [concettuali]»15, il volto operativo del lavoro filosofico e il suo sodalizio inaggirabile con il concreto. Le ultime, commuoventi battute del volume di Domenicali e Vignola si iscrivono ancor di più all’interno di questo pensare altrimenti, all’insegna della disindividuazione e dell’intersoggettività. Cedendo la parola alla vicina di casa storica di rue de Bizerte e a Conversazioni, i due autori ci restituiscono il loro effetto-Deleuze: frasi iscritte sulla pelle di chi ascolta, custodia senza liturgia della gioia e della forza inaggirabile di una vita filosofica.

Una versione più breve di questa recensione è uscita su «il manifesto» il 30.04.2024

Note

Note
1M. Schwob, Vite immaginarie, a cura di F. Jaeggy, Adelphi (1972), p. 106.
2Questo il segreto del pittore che Gérard Fromanger rivelerà a Deleuze. Cfr. G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste, 1975-1995, trad. it. e cura di D. Borca, Einaudi (2010), p. 145: «la tela non è una superficie bianca. È già tutta ingombra di cliché, anche se non li si vede. Il lavoro del pittore consiste nel distruggerli».
3F. Domenicali, P. Vignola, Deleuze. Filosofia di una vita, Carocci (2023), p. 121.
4Ivi, p. 131.
5Cfr., ivi 242: «[…] nel cinema moderno gli attori divengono dei veggenti e gli spettatori dei lettori. Non si legge però l’immagine come elemento di un linguaggio, come enunciato, bensì nella sua intra-attività, come un campo di forze messo in tensione dai diversi tipi di segni (cronosegni, lectosegni, noosegni), i quali permettono di vedere il tempo direttamente, di leggere, costituendoli, gli elementi ottici e sonori puri, e di “cogliere i meccanismi del pensiero” (Immagine Tempo, p. 74)».
6G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli (2007), p. 102.
7F. Domenicali, P. Vignola, Deleuze. Filosofia di una vita, cit., p. 169.
8Ivi, p. 169.
9Cfr. ivi, p. 195.
10Ivi, p. 220.
11Ivi, p. 224.
12Ivi, p. 253.
13G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, trad. it. e cura di D. Tarizzo, Einaudi (2004), pp. 122-123.
14Cfr. F. Domenicali, P. Vignola, Deleuze. Filosofia di una vita, cit., p. 295.
15Ivi, p. 296.

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