La riproducibilità secondo Benjamin

Gioco, (seconda) tecnica e antropologia a venire

Vlado Martek (Group of Six Authors), Porn Comic (Censored), 1974, collage, 211 x 296 mm, Marinko Sudac Collection (1000x711)
Vlado Martek (Group of Six Authors), Porn Comic (Censored), 1974 - Marinko Sudac Collection.

Il celebre testo sulla Riproducibilità è stato redatto da Benjamin in cinque diverse versioni tra il 1935 e il 1939 e ora se ne traduce l’inedita prima e più breve, grazie al benemerito lavoro editoriale e critico degli studiosi dell’Associazione italiana Walter Benjamin, nel volume Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, a cura di Marina Montanelli e Massimo Palma, Quodlibet, 2016. Vi hanno contribuito, dando vita a un ciclo di seminari dedicati, Alessandra Campo, Fabrizio Desideri, Dario Gentili, Clemens-Carl Härle, Marina Montanelli, Massimo Palma, Andrea Pinotti, Mauro Ponzi, Franco Rella, Elena Tavani, Massimiliano Tomba e Francesco Valagussa.

Partiamo dalla Nota critico-filologica, curata da M. Montanelli e M. Palma (pp. 227-240), che fa il punto sulla distribuzione delle cinque stesure (quattro in tedesco e una in francese) e soprattutto della prima (qui tradotta per la prima volta), secondo la lezione critica del vol. 16° delle Werke und Nachlaß, 2013. Oltre a mettere ordine nella selva caotica delle molteplici traduzioni che si sono susseguite dopo la scadenza dei diritti d’autore, questa pubblicazione consente di offrire un panorama più completo del processo di costruzione dell’opera, in particolare della formazione dei concetti essenziali in una fase aurorale, priva di materiale citato e anche del riferimento all’analisi marxiana dei rapporti di produzione.

Fra i numerosi interventi, di cui non è possibile rendere conto in dettaglio, vorremmo segnalare per pertinenza e originalità i contributi di A. Pinotti e A. Campo, che suggeriscono trattarsi, prima ancora che di un saggio di estetica, della formulazione di una nuova antropologia politica mirante a contrastare la deriva fascista dell’estetizzazione della politica o a registrare le variazioni storiche degli stessi processi percettivi, introducendo i temi del Passagenwerk.

Anche M. Montanelli insiste sulla componente antropologica, partendo però da un filone diverso, quello dell’infanzia e del gioco in cui balena una chance rivoluzionaria complessiva, non solo limitata all’arte. Infatti, se una prima tecnica (comprese le raffigurazioni animali nelle caverne) mira a controllare la natura per magia ed esorcismo per garantire la presenza nel mondo, con l’avvento della riproducibilità tecnica e il passaggio dell’opera d’arte da valore cultuale a espositivo il baricentro dell’esperienza estetica si sposta dal polo dell’apparenza a quello del gioco. L’apparenza è lo schema dei procedimenti più o meno magici della prima tecnica, mentre il gioco è la riserva inesauribile della seconda. Il valore distruttivo del gioco rispetto alla tradizione cultuale è stato già riconosciuto, per esempio da Agamben, ma l’autrice fa un passo avanti e sostiene «la costruttività intrinseca del gioco infantile», in cui il bambino, povero di io ogni volta ripropone il da capo con una mimesi creativa e non immedesimativa: «il gioco e il giocattolo ci dicono che il primo montatore, prima ancora dell’artista politico e dello storico materialista, è il bambino» con la sua naturale capacità di combinare, assemblare, costruire, scomporre, distruggere (pp. 51-54).

Motivo ripreso e approfondito da M. De Palma a proposito dello Spielraum (distanza ludica) nello spazio cinematografico-fotografico e nella vita quotidiana, pp. 166 ss. Questo straordinario talento di combinazione della ripetizione e del nuovo fa pensare a un passo significativo della terza versione del Kunstwerk, opportunamente richiamato nel saggio di Desideri (p. 33): «Colui che imita rende apparente il proprio oggetto. Detto altrimenti gioca a essere quell’oggetto (er spielt die Sache)».

M. Tomba e D. Gentili additano quindi in quel mutamento antropologico, in particolare sul destino dell’individuo, il principale punto di dissenso fra Benjamin e i consoli della Scuola di Francoforte. Per il primo, «la produzione artistica e culturale tolta dalle mani del genio individuale e socializzata può diventare sia un fenomeno dell’istupidimento di massa sia una nuova forma di esperienza e di vita socializzata. Adorno puntò l’indice sul primo fenomeno. Benjamin tenne l’occhio sinistro sempre aperto sulla seconda possibilità». Per il secondo, la perdita dell’aura è il momento dirimente della crisi dell’arte cultuale, così che non l’arte (come voleva Horkheimer) ma la politica rivoluzionaria prende il posto della religione nel preservare l’utopia: essendo una techne è anche un’arte di governo, una prassi comunista attraverso la «seconda tecnica», con il rischio altrimenti di farsi catturare dal mercato (p. 144). Il regno francofortese della libertà si costituisce fuori dell’attività lavorativa e nell’autonomia dell’arte come fattore di resistenza alla società di massa, mentre Benjamin afferma «la possibilità di un’arte della cultura e della società di massa, che però sia politicizzata», sprigionando «quelle stesse energie di cui in misura crescente il mercato capitalistico si è andato appropriando» (p. 145).

L’ampio saggio di F. Desideri che apre la raccolta, già dallo stesso titolo, Dottrina della percezione e crisi della democrazia, indica infine con chiarezza un nesso che fa della caduta dell’aura una crisi dell’esperienza. L’estetizzazione della politica è l’esito diretto del cortocircuito fra due crisi, quella dell’immediatezza dell’aisthesis e quella della mediazione politica. Se, come si accenna in una nota alla terza e quinta versione, «le democrazie espongono l’uomo politico in modo immediato, nella sua persona, e precisamente lo espongo ai rappresentanti», e dunque il Parlamento è in qualche modo il suo pubblico, i nuovi mezzi di comunicazione a distanza svuotano il ruolo del Parlamento come quello del teatro, consentendo una comunicazione diretta con un pubblico più vasto di elettori e seguaci (pp. 24-33).

Cogliamo già l’intuizione di un declino della rappresentanza liberale a favore di una democrazia del pubblico o dell’audience – nei termini di un noto libro di B. Manin. Qui – sullo snodo fra percezione estetica, imitazione, gioco e apparenza – si combatte la sfida per la politicizzazione dell’arte e per il rigetto dell’estetizzazione fascista della politica. Anche il confuso dibattito sul populismo passa da queste parti.

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